di Giacomo Dallari
Le domande sull’uomo e, più in generale, sull’umano hanno prodotto, e tutt’oggi producono, un notevole disagio descrittivo e teorico. Da una parte, infatti, le caratterizzazioni della natura umana richiedono il riferimento a principi assai differenti fra loro e, in molti casi, difficilmente verificabili in termini empirici; dall’altra parte, però, la natura umana è talmente complessa che richiede livelli di analisi complessi che non possono essere accantonati.
Spesso, infatti, l’approccio allo studio della natura umana non genera risposte conclusive, suggellate cioè da fatti oggettivi ed empirici, ma origina altre domande le cui risposte ricadono in contesti storici, simbolici, culturali e teorici eterogenei e molteplici.
Dal punto di vista filosofico una delle questioni più dibattute riguarda il rapporto che lega la mente al corpo, lo studio degli atti, della coscienza e, più in generale, delle funzioni mentali in relazione al cervello e al mondo esterno. Uno dei problemi che potremmo definire “tradizionali” della filosofia, infatti, riguarda la genesi di quegli stati che il linguaggio definisce come emozioni, sensazioni, pensieri, rappresentazioni mentali, immaginazione, memoria e coscienza e quale sia il rapporto che essi hanno con la parte fisica e materiale della nostra corporeità, cioè il cervello.
La questione delle relazioni che legano l’anima e il corpo, lo psichico e il fisico, la mente e il corpo aprono scenari interessanti e ricchi di spunti teorici, nei quali trovano spazio le principali discipline che si interrogano sull’uomo, sia dal punto di vista individuale che collettivo e sociale.
È possibile immaginare qualcosa oltre la pura corporeità e ammettere l’esistenza di qualche altra componente non-corporea che riguarda e interessa l’uomo? E inoltre, se ciò fosse vero, in quale modo questa dimensione potrebbe essere studiata e analizzata? E ancora, quale ruolo avrebbe nella vita dell’uomo?
Queste possono essere solo alcune delle domande che una tematica del genere potrebbe generare essendo essa, come l’ha definita il filosofo statunitense Wilfild Sellars «nulla più e nulla meno che l’impresa filosofica presa nella sua interezza» (Sellars, 1958, p. 507).
La risposta a tali quesiti, però, non interessa solamente le componenti del ragionamento prese nella loro realtà oggettuale, cioè quella di anima, intesa come componente psichica e quella di corpo, intesa come fisicità costituita, misurabile e quantificabile, ma riguarda e include l’immagine stessa dell’umano, di ciò che può definirsi mentale, dei rapporti che intercorrono fra queste due istanze e delle forme di conoscenza che richiedono.
Forse, proprio per la sua specificazione dicotomica, il problema del rapporto fra le componenti mentali e quelle corporee ha trovato una radicale difficoltà nell’esplicarsi come ambito comune di confronto, rimanendo imbrigliato fra le maglie delle teorie , piuttosto che essere analizzato nella sua componente unitaria.
Da una parte, infatti, si sono schierati gli esponenti di un approccio materialista e prettamente fisicalista che, sintetizzando, trova nelle parole di uno dei suoi massimi esponenti, il filosofo Armstrong, un’efficace descrizione nel momento in cui afferma che è necessario «trattare l’uomo, inclusi i suoi processi mentali, come puro oggetto fisico, agente esattamente secondo le leggi delle altre cose fisiche» (Armstrong, 1968, p.366). In questo caso è chiaro che la realtà è solo fisicità e il rapporto fra la mente e il corpo cessa di essere un vero e proprio rapporto, in quanto privo di bidirezionalità: affermare che ciò che è mentale è null’altro che un aspetto della realtà, significa asserire che esiste un’unica realtà, quella fisica, e che i fenomeni mentali, quali i valori, i differenti significati, la percezione delle regole, siano del tutto trascurabili. Tale posizione non è stata immune da critiche che ne hanno mostrato la sua componente unilaterale e riduzionista. È difficile infatti pensare che una credenza o una serie di significati possano essere ricondotti alla semplice dimensione di fatti, senza includere nella loro genesi gli aspetti linguistici, storici e sociali, a loro volta proiezioni di stati d’animo, tendenze culturali e ideologiche.
Dall’altra parte, in antitesi al modello precedente, si sono schierati i sostenitori della teoria secondo la quale esisterebbe una vera e propria realtà mentale, completamente autonoma e svincolata dagli aspetti corporei e fisici, dotata di modalità proprie e di aspetti peculiari e compiuti. Karl Popper, in questo caso, non esita a parlare di tre dimensioni che coinvolgono l’uomo e la sua natura: da una parte la componente corporea, che riguarda gli eventi e i fatti, dall’altra quella mentale, svincolata dalle norme delle scienze fisiche, e quella teorica, che interessa le credenze religiose e le concezioni generali (Popper, 1977).
Anche in questo caso, però, privilegiare gli aspetti mentali a discapito di quelli fisici, significa adottare una visione riduzionista dell’uomo e delle sue realtà. Nel momento in cui ci riferiamo ai fenomeni mentali differenziandoli da quelli fisici e materiali, è necessario presupporre che essi non abbiano, per esempio, una dimensione spaziale, una natura temporale, che non siano divisibili in parti e che ciò che può essere vero non sia dotato di norme comuni, cioè di leggi che ne determinano la genesi, lo sviluppo e la natura.
Queste teorie hanno il limite di costituirsi a partire dall’assunto che da una delle due entità, quella fisica – corporea o quella mentale – psicologica, derivi necessariamente l’altra come una sorta di conseguenza ineluttabile. Prevedono dunque o un corpo collegato ad una mente, oppure una mente che muove un corpo.
Ma se ci pensiamo bene, nel tentativo di stabilire cosa venga prima e cosa dopo, in che modo una realtà influisca sull’altra, quali siano le regole e le norme del loro rapporto, ci dimentichiamo di citare l’attore protagonista di questa “kermesse” ontologica, cioè la persona che fa, l’individuo che pensa, l’uomo che desidera, che vuole, che immagina, che gioisce, che soffre e che, in poche parole, da significato alla propria essenza.
Che senso potrebbe avere, infatti, parlare dell’amore senza un qualcuno che ama, senza una persona amata e senza un contesto di significati che caratterizzano l’amore?
L’amore è indubbiamente qualcosa che esiste come fatto da qualche parte, probabilmente si muove nelle pieghe del nostro cervello, fra neuroni e reazioni chimiche e ormonali, ma è anche uno stato mentale che ognuno di noi vive in prima persona, cioè attivando schemi comportamentali, risposte emotive e affettive proprie. È inimmaginabile rapportarsi all’amore unicamente come risposta fisiologica a determinati stimoli provenienti dall’esterno, così come è impossibile pensare alle sensazioni che esso genera come a entità metafisiche provenienti da un luogo altro rispetto alla realtà. In esso confluiscono non solo aspetti intimi e personali, cioè privati, ma anche istanze sociali e culturali che ne definiscono i contenuti, che ne determinano il valore in quanto atto. Possiamo davvero pensare che l’amore, esattamente come ogni altra emozione, possa alludere in maniera esclusiva a degli stati fisici o possa essere denotato come un mero stato psichico interiore?
Gli individui sono sì soggetti unici, nel senso che possiedono un loro corpo ed una loro mente, ma l’individualità ha costantemente a che fare con le situazioni e i contesti che danno significato ai fenomeni mentali, li caratterizzano e li circoscrivono in modo tale da essere riconosciuti e compresi.
Con ogni probabilità, ciò che noi definiamo come vicenda mentale non coinvolge solo una mente e un corpo, ma anche un sistema di relazioni che può ridefinire, ricalibrare e sconvolgere il contenuto dei nostri pensieri e il nostro agito intenzionale.
Gli approcci teorici precedentemente menzionati ci offrono la possibilità di cogliere, da diversi punti di vista, la peculiarità e la straordinaria complessità della nostra essenza e della nostra struttura, ma corrono il rischio di definire l’uomo a partire unicamente da una sua caratteristica interna, senza prendere in considerazione l’universo simbolico che ci circonda in quanto enti situazionali. Entrambe definiscono, a partire dalle proprie convinzioni, il cosa siamo, così come le neuroscienze ci insegnano, ma siamo altrettanto sicuri che possano dirci anche chi siamo?
«Niente – scrive infatti lo studioso inglese Rom Harré – c’è nella mente che prima non sia stato nella conversazione» (Harré, 1983, p.116).
Sellars W., Intentionality and the Mental, in Minnesota Studies in the Philosofy of Science, 1958, p. 507.
Armstrong D., A materialist theory of mind, Routledge, London, 1968, p. 366.
Popper K e Eccles J., L’io e il suo cervello, traduzione it., Armando, Roma, 1981.
Harré R., Personal Being, Blackwell, Oxford, 1976, p. 116.