EXAGERE RIVISTA - Gennaio-Febbraio 2024, n. 1-2 anno IX - ISSN 2531-7334

Another Hole in the Wall. Psicoterapia sistemico-relazionale e Etnopsichiatria nella clinica con i migranti

di Michela Da Prato

 

Premessa

Muri.

Non c’è forse parola più attuale di questa che permetta di articolare e condividere discorsi sulla contemporaneità.

Pensando ai muri, prendono forma nelle nostre menti immagini di confini tracciati, barricate, frontiere, delimitazioni territoriali e relazionali, chiusure e recinti, distanze visibili o invisibili, contenzioni che possano dividere, distinguere, separare.

Pensando ai muri, si sommano gli svariati e diversificati modi attraverso i quali il nostro mondo, oggi, parla di separazione e di distinzione: i muri che letteralmente si vorrebbero costruire lungo i confini di uno stato-nazione per delimitare un territorio protetto e metterlo in salvo dagli invasori; i tentativi culturali e legislativi per rifondare i muri smantellati dalla deistituzionalizzazione; i muri che si vorrebbero erigere come barriere galleggianti nel Mediterraneo o incistati nello slogan ‘porti chiusi’; il movimento conservatore che, nel mondo, tenta di ridurre la complessità della vita e del vivere per affermare la famiglia naturale come la sola unità stabile e fondamentale della società.

Questi sono soltanto alcuni esempi, tratti dall’attualità italiana e internazionale, che mi sono stati suggeriti da una riflessione a partire dalla parola ‘muri’.

Separare e distinguere, con l’intenzione di proteggere e difendere, non sono atti neutri; bensì tradiscono ideologie e ancor più in generale visioni del mondo, posizionamenti, la costruzione di un (pre)giudizio che orienta alla lettura del mondo e all’atto di distinzione tra il bene e il male, tra il giusto e l’ingiusto; tradiscono l’esercizio del potere, l’energia volta a piegare la storia e gli avvenimenti sociali riconducendoli a sé, in una forma di etnocentrismo recrudescente che dà da pensare.

Lavorando ormai da venti anni nel campo della clinica con migranti, ho una certa familiarità con i ‘muri’ che interessano la vita e le vicende di persone e gruppi che provengono da altrove geografici e culturali, e il lavoro con essi.

 

Oltre i muri delle discipline cliniche

In questo mio contributo vorrei soffermarmi in particolare sull’opportunità che chi esercita una professione di aiuto, nello specifico di ordine clinico e psicoterapeutico, possa mantenere una costante attenzione agli interventi clinici costruiti in situazione multi-culturale e multi-linguistica, come di fatto è la clinica con i migranti.

Ritengo utile e fondamentale, in effetti, questa continua attività di auto-osservazione che ci permetta di andare al di là di potenziali e pericolosi ‘muri’ disciplinari.

Dal punto di vista disciplinare è la Psichiatria che prima delle altre si è trovata a confrontarsi con configurazioni sintomatologiche altre nel periodo coloniale, fino ad arrivare all’inserimento delle controverse Culture Bound Syndromes nei manuali diagnostici. La presa d’atto delle specificità culturali e della necessità di ampliare i riferimenti classici della clinica ci ha portati nel tempo a confrontarci in modo sempre più sistematico con altre discipline quali, ad esempio, l’antropologia e l’etnologia, la sociologia, la storia delle religioni, la semiologia.

La clinica con i migranti ci sollecita su questo ultimo aspetto: aprire la dimensione clinica e renderla disponibile ad altri saperi, sia disciplinari in senso stretto, che culturali e locali, spingendoci ad accoppiare in modo critico la prospettiva etica a quella emica (collocando fenomeni linguistici o fatti culturali all’interno del sistema che li ha generati).

Un rischio possibile è che il clinico si adagi su una prospettiva e un intervento che non tengano sufficientemente in conto il punto di vista emico e il ruolo dell’ethos culturale nella costruzione delle identità, riducendo il nucleo generativo ‘cultura’ al rango di accessorio e non strutturandolo, conseguentemente, come perno e leva di comprensione e trasformazione.

Questo processo di riduzione può avvenire in modo subdolo e inconsapevole, al di là delle migliori predisposizioni e intenzioni, e tradursi in interpretazioni e passaggi metodologici che non arrivano davvero a toccare l’altro: possono trasformarsi in muri che separano e non permettono il realizzarsi di un pieno e vitale incontro antropologico.

L’etnopsichiatria, che considero il mio personale punto di riferimento per pensare ed agire in un siffatto contesto clinico, diventa allora un posizionamento della mente, un modo di orientare lo sguardo, la postura clinica e l’assetto metodologico utile per mettersi al riparo dal rischio di perdere questa occasione di incontro umano-umano che, per estensione, è un incontro tra gruppi e collettivi.

Nel tentativo di fornire un contributo per costruire ‘un altro Buco nel Muro’, parafrasando un testo di pinkfloydiana memoria, penso che possa essere interessante mettere insieme i contributi possibili dello sguardo sistemico-relazionale e etnopsichiatrico, ritrovandone alcuni elementi di giustapposizione.

In particolare, può essere utile concentrarsi su una sorta di Rubrica ragionata le cui voci sono: primato della relazione sull’individuo, circolarità e ricorsività, affiliazione, rappresentanza, sistema transgenerazionale, presentificazione, attaccamenti tra appartenenza e differenziazione, lealtà.

 

  1. Primato della relazione sull’individuo

All’interno di una visione che consideri effettivamente i molteplici livelli sistemici, l’umanità si può considerare come sempre inscritta in un luogo e in un gruppo originari, dentro una prospettiva ecologica che assume radicalmente la concezione relazionale della mente, delle identità, della visione e dell’azione del e nel mondo.

La stessa trasformazione e morfogenesi dei sistemi umani può essere allora intesa come ricombinazione inedita a partire dalla relazione sistemica soggetto-collettivo (individuo-gruppo).

È in questo senso che si può parlare di co-esistenze: l’individuo abita costitutivamente la sua dimensione soggettiva (progettuale, propositiva, di intenti e di posizionamenti a partire da uno sfondo), e la sua dimensione collettiva e gruppale (intendendo la molteplicità di un’organizzazione sistemica dei sistemi viventi: famiglia, territorio, gruppo umano di riferimento, cultura, temporalità ecc.).

Diventa così cruciale pensare in termini di “co-emergenza individuo-gruppo sociale e culturale”[1] anche all’interno della scena clinica che, conseguentemente, comincia ad essere occupata dal paziente/individuo e dal suo gruppo, nonché dalle “articolazioni strutturali e rappresentanti funzionali del suo sistema sociale. Questa moltiplicazione di soggettualità permette che l’insieme individuo-gruppo sia protagonista, collaboratore e valutatore critico delle teorie, nonché della azioni attualizzate nell’ambito delle scienze del comportamento”[2].

 

  1. Circolarità e ricorsività

È fondamentale partire dal presupposto che il diventare quello che siamo, individui/persone, sia accoppiato alla capacità costruttiva dei sistemi umani che realizzano, fabbricano e producono soggettività e dispositivi culturali saturi di oggetti concreti (lingue, obblighi e vincoli di vario genere, dal familiare al religioso ecc.), e che questa dimensione culturale corale sia da questi stessi individui/persone sostenuta e modificata.

È in questo senso che “tra soggetti e oggetti culturali si istituisce un’equazione identificatoria: come i prodotti tecnici appartengono a un gruppo e sono identificati quale proprietà inalienabile di quest’ultimo (oggetto generato da gruppo); il gruppo è identificato dall’esistenza e dal funzionamento di questi oggetti (gruppo derivato da oggetto)”[3].

Trattandosi di una clinica rivolta a persone o gruppi (familiari, ad esempio) che hanno compiuto un percorso di migrazione, ragionare in termini di circolarità e ricorsività significa anche mettere in connessione eventi, prospettive, esperienze del passato e del presente, del qui e del là, dell’ora e dell’allora (dove il là e l’allora parlano del paese di origine e degli antenati).

 

  1. Affiliazione

Coerentemente con i punti precedenti, dobbiamo considerare l’individuo/persona come affiliato e inscritto in un gruppo, in una dimensione collettiva che è fondata su specifici nuclei e matrici differenziali sia linguistiche che culturali e psicologiche. Noi tutti viviamo, in effetti, all’interno di un sistema articolato e ordinato di norme valoriali, che potremmo definire in termini di ethos culturale.

Il significato etimologico del termine ethos è particolarmente suggestivo, indicando ‘il posto da vivere’, ma anche la ‘disposizione’ e il ‘temperamento’, mettendo insieme e coniugando il posizionamento e la personalità, accoppiando il ‘dove’ al ‘chi’ si è.

Più in generale si può ritenere che l’ethos, in quanto forza affiliatrice, possa diventare centrale in ambito clinico, punto di partenza fondamentale per modulare anche componenti retoriche basilari come il logos e il pathos, incarnazioni di un ‘ragionamento su’ e di un ‘sentire come’ (ad esempio, l’uso di specifiche metafore o immagini per raccontare delle proprie emozioni e sofferenze).

 

  1. Rappresentanza

Rappresentare, non significa ‘essere’; non è ‘coincidere’. L’individuo/persona può essere considerato rappresentante, una incarnazione possibile del sistema familiare, affermando la co-esistenza tra l’uno (individuale) e l’emergenza di un ‘organismo pluricellulare’ che si muove come identità collettiva (es. la famiglia, il gruppo di appartenenza).

Ognuno di noi transita costantemente tra rappresentare alcune delle istanze di questo mondo collettivo e incarnare la sua specifica posizione di unico al mondo, inedito e originario.

Così come potremmo dire che individui e famiglie, si costruiscono a partire da collettivi e gruppi in ‘rappresentanza’ di una cultura originaria, anch’essa mai uguale a se stessa, mai monodimensionale, mai statica (co-emergenza individuo-gruppo in un flusso di divenire, transculturale e transgenerazionale).

Allo stesso modo, anche la presenza di un mediatore linguistico culturale o mediatore etnoclinico è fondata sull’operazione di convocare ‘qualcuno’ in rappresentanza di ‘molti’, del gruppo linguistico e culturale che accomuna e che al tempo stesso distingue.

 

  1. Sistema transgenerazionale

La visione multi e trans generazionale, interessante per entrambe queste prospettive, permette di collocare l’individuo/persona all’interno di una dimensione plurale, quella familiare e quella gruppale/culturale.

Nell’unità sociale primaria della famiglia iniziamo ad essere costruiti come ‘figli di’, all’interno del livello sistemico collettivo localmente situato che è quello del gruppo umano al quale la famiglia appartiene; è la linea verticale della filiazione, la genealogia, che apre un discorso sulla stirpe e sulle generazioni.

Nella dimensione clinica, i sistemici sono formati a lavorare sui miti familiari, sulle famiglie di origine in chiave trans generazionale, sulle lealtà trans generazionali, sugli stili di attaccamento o più semplicemente sulle gerarchie, sulle sequenze, sul potere, sulla comunicazione, sulle teorie familiari, sui modelli educativi, sui segreti, sui confini, e quanto altro.

Vedremo dettagliando altri punti di questa Rubrica ragionata, come anche per l’etnopsichiatria sia di fondamentale importanza lavorare sulle lealtà e gli attaccamenti, rivisti e declinati sul versante culturale.

 

  1. Presentificazione

Partendo dal presupposto che l’individuo/persona rappresenti istanze collettive, sia familiari che culturali, è adeguato e pertinente trovare il modo affinché esse si presentino e si presentifichino nella scena clinica.

La convocazione e presentificazione è un processo che interessa una pluralità di ‘oggetti’: visioni, idee e attribuzione di significati; teorie sul sintomo e definizione di cosa è problema e cosa è risorsa; storie e narrazioni, miti familiari ecc; ovvero, una molteplicità di voci e di soggettività in relazione tra loro.

Oltre a quanto già familiare ad un terapeuta sistemico-relazionale, l’etnopsichiatria sceglie di rivolgersi sistematicamente anche ad altri ‘oggetti’ interessanti: la lingua, i dispositivi terapeutici altri, gli oggetti costruiti a partire da pratiche religiose, il visibile e l’invisibile, il confronto tra la teoria –psi del clinico e le etiologie familiari/culturali tradizionali.

Per cogliere questa complessità e permettere la costruzione di uno spazio clinico che riesca a com-prendere l’articolazione di questi ‘oggetti’,  è coerente – tra le altre cose –  invitare il nostro paziente ‘migrante’ a usare la propria lingua matrice, in quanto ciò permette la presentificazione del gruppo e del mondo da cui egli proviene (permettendoci così di risalire alle originarie affiliazioni).

È per questo che “il dispositivo etnopsichiatrico considera la mediazione etnoclinica come perno intorno a cui far ruotare il riconoscimento delle affiliazioni che innervano l’organizzazione generale e specifica di ogni gruppo umano”[4].

 

  1. Attaccamenti tra appartenenza e differenziazione

Un proverbio cinese caro ai sistemici afferma che ‘si può distaccare solo ciò che è stato precedentemente attaccato’, immagine utile nel pensare alla costruzione del processo di differenziazione e individuazione che convive con la dinamica dell’appartenere e dell’essere, appunto, attaccati a qualcosa (ad una storia familiare, culturale, sociale; ad una lingua, ad una religione, ad un gruppo etnico; ad un luogo, ad un territorio).

L’etnopsichiatria è interessata a queste ‘appartenenze’ e agli ‘oggetti concreti’ sui quali si fonda e sostanzia l’istanza di attaccamento culturale e psicologico. Nel teorizzare questo, per passare poi alla pratica clinica, si riprende il concetto di ‘attaccamento’ nella versione del sociologo, antropologo e filosofo francese Bruno Latour che per attaccamento intende ‘ciò che fa fare’, tutto ciò che mi ha fatto diventare quell’umano che sono.

 

  1. Lealtà

Detto tutto questo, il percorso clinico è la rifondazione volta a co-costruire una nuova esistenza possibile che, muovendo dalle affiliazioni e appartenenze originarie, possa sviluppare quel processo continuo di differenziazione e/o trasformazione dell’umano, tenendo conto delle molteplici ‘lealtà’ in gioco.

Nella sistematizzazione di Boszormenyi-Nagi[5] la lealtà è intesa come forza sistemica e la famiglia come sistema multi-personale fondato su modelli di rapporto multi generazionale che si basano su gerarchie di obblighi reciproci e interdipendenti, su aspettative più o meno visibili che incombono sull’intero sistema e sul singolo, un relativo computo del dare e avere, degli obblighi, una certa idea della giustizia e dell’equilibrio dei conti (giustizia inter-generazionale).

L’etnopsichiatria può condividere il concetto di lealtà, estendendolo alla lealtà culturale, o meglio, all’intreccio delle lealtà familiari (a partire dalla dimensione multi-personale sistemica) con quelle gruppali e culturali (delle quali, in fondo, la dimensione multi-personale sistemica si nutre e al contempo contribuisce a nutrire).

Ciò implica un lavoro che tenga conto delle questioni inerenti la trasmissione e le lealtà in bilico tra più dimensioni (presentificare le famiglie originarie e quella certa visione di giustizia ed etica delle relazioni in essa vigenti, ma anche richiamare i sospesi, i vincoli, le influenze o gli obblighi contratti con il mondo degli invisibili).

 

Penso che questa breve Rubrica ragionata possa tradurre l’intenzione posta alla base di questo contributo, ovvero evidenziare attraverso questa reciproca interrogazione tra sistemica e etnopsichiatria alcuni dei punti che ci dovrebbero far interrogare costantemente sulla nostra stessa pratica clinica, in particolare in situazione transculturale; la clinica, le discipline psicologico-psichiatriche non dovrebbero mai rappresentare un muro, una barriera, un confine che separa e divide, né tantomeno l’esercizio di un potere sull’altro accolto in terapia; concetti quali affiliazione, rappresentanza, sistema transgenerazionale, presentificazione, attaccamenti tra appartenenza e differenziazione, lealtà, ci invitano a ripensare il mondo degli umani in un modo profondamente pluralista e la clinica come un complesso incontro antropologico da realizzare.

Vorrei concludere con una frase tratta da un testo del già citato Bruno Latour, ripresa dall’ultimo paragrafo che egli intitola ‘Il Parlamento delle cose’ e che ben mi sembra rappresentare un monito attuale e indicare un percorso che possa sospingerci oltre i ‘muri’.

“Non abbiamo scelta. Se non modifichiamo la casa comune, non potremo accogliervi le altre culture che non siamo più in grado di dominare e saremo per sempre incapaci di far posto a questo ambiente che non sappiamo più controllare. Né la natura né gli Altri diventeranno moderni. Tocca a noi cambiare il nostro modo di cambiare”[6].

 

 

Bibliografia

 

 

  1. Boszormenyi-Nagi, G. M. Spark, Lealtà invisibili. La reciprocità nella terapia familiare intergenerazionale, Astrolabio, Roma 1988.

 

  1. Da Prato, S. Inglese, F. Alderighi, F. Casadei, G. Cardamone, S. Zorzetto, F. Bracci, Elementi di etnopsichiatria. Sintesi condivisa per la promozione della salute mentale comunitaria in una società multiculturale, in “Di clinica in lingue. Migrazioni, psicopatologia, dispositivi di cura”, realizzato da HARRAG – Gruppo di Ricerca per la Salute Mentale Multiculturale, Edizioni Colibrì, Paterno Dugnano, Milano 2007, pp. 155-167.

 

Note

[1]          M. Da Prato, S. Inglese, F. Alderighi, F. Casadei, G. Cardamone, S. Zorzetto, F. Bracci, Elementi di etnopsichiatria. Sintesi condivisa per la promozione della salute mentale comunitaria in una società multiculturale, in “Di clinica in lingue. Migrazioni, psicopatologia, dispositivi di cura”, realizzato da HARRAG – Gruppo di Ricerca per la Salute Mentale Multiculturale, Edizioni Colibrì, Paterno Dugnano, Milano 2007, pp. 155-167.

[2]           Ibid., p. 167.

[3]           Ibid., p. 158.

[4]           Ibid., p. 161.

[5]           I. Boszormenyi-Nagi, G. M. Spark, Lealtà invisibili. La reciprocità nella terapia familiare intergenerazionale, Astrolabio, Roma 1988.

[6]           B. Latour, Non siamo mai stati moderni. Saggio di antropologia simmetrica, Elèuthera, Milano 1995, p. 176.

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