di Silvia Rosati
“ Ti scrivo un messaggio, anzi due, forse tre e mille altri ancora per avvisarti che sono partito, che sto tornando, che ho pranzato, che sono di nuovo fuori, ma ti scrivo veloce, anzi ti mando una foto.”
Sarà forse per la patologica mancanza di tempo di certe civiltà moderne che la comunicazione si è fatta fitta, sovrabbondante, per niente essenziale eppure così sintetica e povera?
Non c’è tempo e lo si duplica nella scrittura, nei messaggi, nel resoconto capillare, sui social, sulle chat, di quello che si fa nel poco tempo.
“Non so che dirti, non so dirtelo, ma te lo dico spesso perché almeno così tu possa capirlo”, in un bulimico bisogno di tempo e di comunicazione.
Che una riflessione sulla lingua non possa prescindere anche da questi aspetti fondamentali della storia di una civiltà, e cioè dalle modalità secondo cui essa comunica e dall’uso e dalla concezione del tempo che essa possiede, è evidente nello studio delle grammatiche storiche e comparate.
Parte da qui l’impietoso tramonto dell’aoristo – αόριστος χρόνος – quel tempo indefinito della lingua greca, che un tempo appartenne a tutte le lingue indeuropee.
Lo chiamarono così i grammatici alessandrini in contrapposizione a tutti gli altri χρόνοι ώρισμένοι, tempi definiti. Ma questa definizione dei grammatici alessandrini era già un riconoscimento della fine di un’epoca e loro gli epigoni di una lingua, quella del greco “classico”, che si stava trasformando in una ϰοινή linguistica: una sorta di lingua comune virtuale ante litteram, senza luogo e con molte identità.
In età arcaica, dove il tempo era quello ciclico e ricorrente della natura, l’uomo greco conservò a lungo il privilegio di identificare nel verbo, la parola per eccellenza, la qualità più che il tempo dell’azione.
I tempi verbali del verbo greco (presente, aoristo e perfetto) facevano riferimento non al quando, ma al come chi parlava o scriveva voleva presentare l’azione: durativa nel tema del presente; compiuta e ben evidente nei suoi risultati, nel tema del perfetto, con una essenziale distinzione tra l’infectum, il non compiuto, ed il perfectum, il compiuto con tutte le conseguenze che questo poteva comportare. Ebbe bisogno di prefissi, suffissi e desinenze per dare voce al tempo, il greco antico. Così ad esempio l’imperfetto trasportò nel passato l’idea di azione continuata e durativa che apparteneva al presente, di cui l’imperfetto mutuò il tema aggiungendoci l’aumento.
E l’aoristo? Prima che il pensiero escatologico cristiano ci mostrasse l’idea della consumazione del tempo, il riscatto dell’uomo verso Dio, il Giudizio Universale, l’eternità spirituale ed il tempo era ancora misura aristotelica del moto dei pianeti, l’aoristo fu il punto su di una retta. Fu l’azione colta nel suo momento, folgorante, momentanea e non per questo meno intensa. Anzi fu l’azione pura colta nella sua essenza, nel suo scatto fotografico, senza prima e senza dopo e per questo gnomica.
Ma il mondo della ϰοινή smarrì per sempre l’attenzione alla qualità dell’azione e l’aoristo ed il perfetto si contesero uno spazio, che il perfetto occupò definitivamente nella lingua latina così attenta alle conseguenze delle azioni, così come alla complessità della sua sintassi.
Dallo sviluppo delle cose si passò al tempo delle cose, in una bergsoniana rivoluzione d’altri tempi e la lingua smise di concentrarsi su ciò che accade tra l’inizio e la fine, ingabbiando inevitabilmente ogni comunicazione nello schema passato, presente, futuro.
Si era fatto tardi linguisticamente e non solo. Si era fatto tardi. E nel mondo latino doveva essersene accorto Seneca con il suo protinus vive , che era qualcosa di più del carpe diem oraziano. Per il filosofo del De brevitate vitae il reale è solo il presente e questa realtà si estende fino a quei modi del tempo che nell’esperienza comune si chiamano passato e futuro. Ma è solo lo sforzo della meditazione filosofica con un atto di attenzione e concentrazione, conlatio temporu in unum, che può renderli contemporanei al presente.
Seneca era Seneca e gli fu ancora possibile riflettere sulla qualità dell’azione, sui momenti gnomici dell’esistenza, oltre i quali cenerum quidem omne spatium non vita sed tempus est.
Questa capacità e con lei una certa consapevolezza si erano persi nella lingua, anche in quella colta.
L’aoristo era scomparso per sempre e l’azione in sé naufragata nel tempo, quello verbale del perfetto.
E quando ai tempi di Kant, il soggetto prese il posto dell’oggetto e il tempo e lo spazio si trasformarono in forme a priori della sensibilità, senza le quali gli esseri umani non erano più in grado di percepire il mondo sensibile, l’aoristo non ebbe più speranza nemmeno nelle traduzioni degli studenti. Nelle lingue moderne indeuropee prevalse definitivamente l’aspetto temporale.
E allora la lingua e la comunicazione cominciarono ad aver bisogno di perifrasi per esprimere quell’azione momentanea, puntuale, ma non meno assoluta gnomica perché universale, che un tempo apparteneva al tema verbale dell’aoristo.
Ebbe bisogno di perifrasi la lingua italiana : si rese conto che.., scoppiò a ridere, incominciò a …, per indicare il momento dell’intuizione, la risata improvvisa, il sorriso inaspettato, l’esordio. Ebbe bisogno di perifrasi per esprimere quelle azioni decise, radicali, che un volta l’aoristo fissava senza possibilità ricorsive e per le quali il prima e dopo erano volutamente esclusi ed inespressi.
La lingua si intestardì a lungo in una comunicazione sovrabbondante e narrativa oltre il bisogno. Poi ridotta al silenzio, oggi ha imparato a giovarsi, talvolta, di singoli scatti, le immagini, per ritrarre quell’istante di pienezza o di desiderio, quell’attimo di verità puntuale, che è di per sé, e che ci solleva dalla forza classificatrice del tempo.
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