di Maria Bologna
– Ci Sono Ponti
Ci sono ponti che collegano gli esseri umani, anche se le rive che abitano sono lontane anni luce tra loro. Rive fatte di estremo squallore, dolore, fatica contro rive apparentemente confortevoli, calde e promettenti. Anche se i mondi che hanno costruito (o decostruito) non si assomigliano per niente e sembrano non avere nulla in comune. Anche se le relative età della vita sono così inconciliabili nei loro bisogni fondamentali, nella disponibilità di energie vitali. Anche se la lingua e la cultura di appartenenza, la storia di cui ciascuno è il risultato appaiono all’altro come un testo indecifrabile.
Nella dissertazione di dottorato che discute con Husserl a Freiburg il 3 agosto 1916 Edith Stein traccia lucidamente la struttura di uno di questi ponti.
“Il cogliere le esperienze vissute altrui siano sensazioni, sentimenti o altro è una modificazione unitaria, tipica (anche se variamente differenziata) della coscienza e richiede un nome unitario; abbiamo scelto per questo il termine empatia”.
Sottraendola ai campi dell’Estetica e della Psicologia, Stein definisce rigorosamente l’esperienza empatica nell’alveo della riflessione fenomenologica. In questa prospettiva, l’Io è definito dall’unità di un flusso di coscienza, in quanto è il legame di tutte le esperienze vissute con l’Io vivente a costituire la sua inviolabile unità.
Non solo. L’unitarietà dell’individuo riguarda corpo fisico ed Io cosciente, dal momento che “… l’anima è sempre necessariamente anima in un corpo vivente“.
Ed ancora. La persona è unità di senso, in quanto soggetto capace di cogliere e conferire significato al proprio vissuto.
Ne deriva che ogni soggetto veda il mondo dal proprio “lato”, il mondo gli è dato in una personale successione di apparizioni. Questo costruisce la sua personale Weltanschauung, caratteristica assolutamente individuale del soggetto spirituale, che fa sì che le esperienze vissute si colleghino in connessioni comprensibili.
La struttura fondamentale dell’essere è la relazione originaria tra il mondo e la coscienza nella sua fondazione intersoggettiva.
L’esperienza empatica appartiene dunque alla “… coscienza che sperimenta, in cui ci giungono alla datità persone altre da noi, coscienza che parte dalla percezione del corpo altrui per cogliere sensazioni, sentimenti, motivazioni ed istituire una comunicazione intersoggettiva“.
L’esperienza a cui rimanda il sapere dell’esperienza vissuta altrui richiede un particolare volgersi dello sguardo, che consenta di fare dell’ “accorgersi” un cogliere. L’Einfühlung si costituisce come coglimento, esperienza riflessa ed originaria della coscienza altrui, di ciò che è qui ed ora. Questo carattere di atto originario la rende analoga al ricordo, all’attesa, alla fantasia.
La realtà esterna può esser colta solo in un orizzonte intersoggettivo, che utilizza come medium necessario la corporeità. In definitiva, in un orizzonte intercorporeo.
Stein si lascia soccorrere dall’immagine dell’acrobata.
“ “Vivo” i movimenti dell’uno come dell’altro nello stesso modo… io non sono “uno” con l’acrobata, ma sono solo “presso” di lui, non eseguo veramente il suo movimento, ma solo “quasi” “.
Anticipando di ottanta anni gli studi sulla Simulazione incarnata, così scrive singolarmente: “La vista di un gesto suscita in me l’impulso ad imitarlo, e lo faccio se non esteriormente, almeno “interiormente”; oltre a ciò mi viene l’impulso di esprimere tutte le mie esperienze vissute, e esperienza vissuta ed espressione sono così strettamente legate l’una all’altra che la comparsa dell’una trascina con sé anche l’altra. Così con quel gesto viene partecipata anche la relativa esperienza vissuta, ma poiché questa viene vissuta “nel” gesto altrui non mi appare “mia” ma di quell’altro”.
Qui si compie la sua gratitudine verso il Maestro. Il mondo esterno si costituisce nella sua realtà attraverso la esperienza intersoggettiva, la costruzione della realtà è il risultato della condivisione tra soggetti di un mondo comune che giunge all’espressività attraverso il linguaggio. Cita Husserl: “Un mondo oggettivo esterno può esser sperimentato solo da diversi soggetti in rapporto tra loro, cioè da una molteplicità di individui conoscenti che stiano tra loro in rapporto di scambievole comprensione”.
Ma vi è di più. L’immagine del mondo di un altro modifica la mia immagine del mondo e si fa condizione di possibilità della costituzione dell’individuo proprio. La conoscenza dell’altro è condizione indispensabile per la conoscenza di sé, per giungere ad una visione più autentica di sé. L’esperienza del mondo altrui non solo modifica e rende più ricca la mia esperienza, ma modifica anche l’immagine di me, diventa costitutivamente fondativa di ogni piena esperienza di me e del mondo. Nonchè correttiva, dal momento che il rendermi conto dell’esistenza dell’altro mi consente una comprensione primaria, che ha a che vedere con il sapere della mia non autosufficienza, della mia finitezza.
Stein non teme di consumare fino in fondo la sua eresia verso il Maestro, gliene parla appassionatamente mentre afferma l’esistenza di una natura fisica: “Da un lato la natura fisica assolutamente esistente, dall’altro una soggettività di struttura determinata mi sembrano i presupposti perché possa costituirsi una natura evidente”.
Costretta ad affrontare, a questo punto della sua riflessione, il tema delle scienze dello spirito, riprende Dilthey. Quando la coscienza si distacca dalla natura e si trasforma in oggetto della sua riflessione, diviene spirito. In questo ambito vige la legge della motivazione.
In questa prospettiva, la facoltà apprensiva è rappresentata dall’intero uomo. Solo chi “vive” se stesso come persona, come un “intero” sensato può capire le altre persone.
Il Sé è la struttura di questa esperienza vissuta individuale.
Ma se prendiamo il Sé come criterio unico ed escludente, ci chiudiamo nella prigione della nostra particolarità. Gli altri diventano per noi degli enigmi o, cosa ancora peggiore, li modelliamo secondo la nostra immagine falsificando così la realtà.
Molte delle derive culturali e politiche della storia, incluse le attuali, potrebbero essere state generate da questa malattia della struttura sociale del Sé.
Può sembrare paradossale che sia proprio ogni atto di empatia, ogni coglimento di un atto senziente a consentire di penetrare nel mondo dello spirito.
Come questo possa accadere rimane, in quel momento, per la giovane filosofo oscuro. La sua dissertazione si conclude lasciando in sospeso questo punto con una formula di non chiarezza, non liquet, come a richiedere un supplemento di istruttoria.
Il percorso successivo della sua riflessione e della sua vita, fino alla scelta di entrare in clausura, segnala una singolare coerenza di sviluppo con queste premesse.
– C’è qualcosa di attraente in lei
L’esperienza inizialmente straniante dell’essere “presso” l’altro, il senso della corporeità, il raccontare come forma mediata di intersoggettività rendono possibile un cambiamento trasformativo in chi ne è coinvolto. Cambiamento che può transitare attraverso la esperienza della sofferenza fisica, della rabbia, del dolore, a volte fino ad una impossibile appercezione della propria morte. Ma anche attraverso una nuova percezione del tempo (“… all’improvviso ero circondata da oceani di tempo”), nuovi sguardi sulle cose e gli altri, nuove forme di pensiero (“… ho avuto tutto il tempo di pensare. Pensare. Non i lampi di intuizione-e-giudizio-immediato, pensieri lunghi, lenti”), la capacità finalmente di ascoltare.
Tutto questo Doris Lessing lo traduce con estrema precisione in un testo, che è un singolare gioco di specchi tra due donne molto distanti tra loro per età e condizioni di vita, in cui chi è raccontato racconta a sua volta. Si apre così uno spazio (ed un tempo) per un atto di esperienza, che ha la caratteristica del sentimento della duplicità (non a caso Stein aveva utilizzato per definirlo un termine che ha come radice doppel, doppio). In un vissuto proprio si manifesta quello di un altro, quasi un alter ego, non senza un estenuante movimento pendolare tra estraneità e familiarità, attrazione e repulsione, vicinanza e lontananza, come nella migliore delle esperienze del perturbante. Esporsi alla relazione con un altro così diverso costringe a scorgere cose che non assomigliano alle proprie, imprevedibili in base alla esperienza, ma di cui si percepisce, per quanto oscuramente, al di là di pregiudizi, idee convenzionali, abitudini, schemi mentali, l’intima rilevanza.
Questo rendersi conto dell’esistenza dell’altro coincide con un’inevitabile scoperta delle cose essenziali.
Vidi una vecchia strega… una donnina minuscola, curva, con un naso che scendeva a incontrare il mento, vestiti pesanti e polverosi, neri… Si accorse che la guardavo… occhi azzurri bellicosi, sotto ripide sopracciglia grigie, ma c’era qualcosa di meravigliosamente dolce nel suo sguardo.
Mi piacque subito, chissà perché.
Adattai il mio passo al suo e uscii dal negozio con lei. Fuori, sul marciapiede, non mi guardò, ma c’era una richiesta nel suo comportamento. Le camminai accanto. Era difficile camminare così piano. Di solito io vado velocissima, ma non lo sapevo, me ne accorsi in quel momento. Lei faceva un passo, poi si fermava, guardava il marciapiede, e faceva un altro passo. Pensai al modo in cui giravo per le strade, tutti i giorni, velocissima, e a come non mi fossi mai accorta di Mrs. Fowler, che pure abitava vicino a me, all’improvviso guardai su e giù per le strade e le vidi donne anziane… Camminavano lentamente. Si fermavano a coppie o a gruppetti a parlare… Non le avevo mai viste. Questo perché avevo paura di essere come loro. Avevo paura, mentre camminavo accanto alla vecchia. Era il suo odore, un odore dolce, acre, polveroso. Vidi la sporcizia sul suo vecchio collo sottile, e sulle sue mani.
E quando mi accomiatai disse, sempre senza guardarmi, “Suppongo che non ci vedremo più…”. E io dissi, “Potremmo vederci, se vuole”. Allora mi guardò, e c’era un leggero sorriso nei suoi occhi, e io dissi, “Verrò sabato pomeriggio a prendere il tè, se vuole”.
“Oh, ma certo che voglio, certo che voglio”. E tra di noi si stabilì un attimo di intimità: ecco la parola giusta.
… Tornai a casa in preda al panico. Mi ero compromessa, mi ero impegnata. Ero piena di disgusto. L’odore acre, sudicio permeava i miei vestiti e i miei capelli.
Li vedo, i vecchi, magri, trasparenti, polverosi, oppure grassi, sfatti e grigi, li vedo girare per le strade con la spesa, o ritti agli angoli delle strade, con aria sperduta.
E così passammo la serata insieme, e le mostrai ogni punto dei vestiti che indossavo. Mi tolsi il golf e restai immobile mentre lei mi girava intorno ridendo… Mi raccontò dei vestiti che indossava quando era giovane… Parlammo dei vestiti, dei mutandoni, delle sottovesti, delle camicie, delle scarpette, dei boa e dei corsetti di cinquanta, sessanta, settanta anni prima. Mrs. Fowler ha più di novantanni.
Mi sono arrabbiata, là sui gradini, quando lei è entrata in casa senza parlarmi, e probabilmente anche lei era arrabbiata, pensava, Adesso stiamo esagerando! E seduta in quella stanza, con la gatta, ero furiosa, pensavo, Bel modo di ringraziare! Poi l’irritazione se ne è andata per far posto al piacere di stare davanti al fuoco, con la pioggia che cadeva fuori. E ci sono sempre i momenti brutti, come quando devo prendere la tazza unta e bisunta e portarmela alle labbra: quando devo inalare le zaffate di quell’odore dolce e penetrante che emana da lei: quando vedo come mi guarda, a volte, il ribollire di qualche rabbia antica… E’ un’altalena di emozioni, ogni nostro incontro.
Fa molto freddo ora, in febbraio e io lo sento davvero, il freddo, solo quando penso a lei, Maudie, perché i posti che frequento sono di solito ben riscaldati, riparati.
… Me ne sono andata promettendole di tornare e di telefonare a “quella gente” per dire che lei non la voleva, l’infermiera. E quando ci siamo salutate Maudie era fredda e arrabbiata, furiosa per la propria impotenza, perché sapeva che non avrebbe dovuto aspettarsi tanto da me, e perché…
E ora sono seduta qui, furiosa anch’io, intrappolata, ecco come mi sento. E sono rimasta tutta la sera nella vasca da bagno, a pensare. A quello che mi preme davvero. La mia vita, la mia vera vita, si svolge in ufficio, al lavoro. Lavoro da quando avevo diciannove anni, sempre nello stesso posto, e così ho finito per dare tutto per scontato, non mi sono mai resa conto che era quella, la mia vera vita… Non ho intenzione di mettere a repentaglio la cosa che più mi sta a cuore per amore di Maudie Fowler.
Sono rimasta lì in piedi, preoccupata perché stavo facendo tardi… preoccupata per lei, anche. E arrabbiata. E risentita. Eppure Maudie mi commuoveva, avrei voluto prendere quel vecchio fagotto di stracci sporchi e abbracciarlo. Avrei voluto scuoterla e darle uno schiaffo.
“Che cos’è tutta questa paura dell’ospedale, poi?”, le ho chiesto.
Ora sedeva con la schiena dritta, il mento aguzzo alzato con aria bellicosa, gli occhi spaventati e arrabbiati.
“… Sono stati abbastanza gentili… C’era una piccola infermiera. Quando tossivo mi massaggiava la schiena…”. Mi ha lanciato un’occhiata rapida, poi ha distolto subito gli occhi, e ho capito che voleva che le massaggiassi la schiena. Non mi era nemmeno venuto in mente! Non ne sarei mai capace!
“Be’”, ho detto, “nessuno la costringerà ad andare all’ospedale, se non vuole”.
E lei ha detto, “Ammesso che mi ci vogliano, all’ospedale, dopo l’ultima volta”. E all’improvviso si è fatta allegra, vivace, si stava divertendo,
“Che cosa ha combinato?”, ho detto io, contenta di poter ridere con lei.
“Sono scappata!”
… E mi ha lanciato il più meraviglioso e allegro dei sorrisi, il suo sorriso da ragazzina.
… Me ne sono andata, l’ho salutata con la mano dalla porta, spero di non aver fatto uno di quei gesti graziosi e affettati.
… Alla fine, proprio quando stavo pensando di andarmene, ha osservato, “Ho bisogno di qualcosa di pulito da mettermi addosso”.
Non sapevo come interpretare quella frase. Una cosa ho capito subito, però ormai sono diventata abbastanza sensibile, che quella non era affatto una richiesta semplice.
L’ho guardata. Lei si è sforzata di restituirmi lo sguardo, e ha detto, “Sono nell’altra stanza le cose”.
“Quali cose?”.
Lei ha scrollato le spalle, un po’ tremante, con aria scoraggiata.
“Maglia. Mutande. Sottoveste. Non porti la biancheria, tu, che devi chiedere che cosa?”.
Di nuovo, automaticamente, quella rabbia, come se avesse schiacciato un bottone.
… Mi sono seduta di fronte a lei e ho detto, “Finirò di bere il mio tè prima che diventi freddo”. Mi sono resa conto, con interesse, che lo stavo bevendo senza provar nausea: mi sono abituata a bere da quelle tazze sudicie. Una volta Maudie doveva esser stata come me: sempre a lavarsi, a lavar tazze, piatti, a spolverare, a lavarsi i capelli.
…Lei, Maudie Fowler, è sempre stata molto presente, molto attenta, sotto quell’aspetto trascurato da vecchia strega. Lei è ancora presente, mentre tutto quello che le sta intorno crolla, è troppo difficile per lei, è troppo, per lei.
E io, Janna, sono seduta qui, nella mia vestaglia pulita, profumata, appena uscita dalla vasca. Dovrei rifarmi le unghie, però. Dovrei pulire la casa, o chiamare qualcuno che lo faccia. Stasera sono rimasta in bagno solo pochi minuti.
Mi sembra impossibile che ci possano essere queste cose… Oppure sono io ad essere impossibile? Di certo sono disorientata.
L’anno venturo di questi tempi la mia vita sarà diversa. Lo so, anche se non so in che modo.
Mi sento a disagio, mi vergogno di me stessa, perché quando Freddie è morto, quando mia madre è morta, non ho versato una lacrima, o quasi, solo una sensazione di gelo, di vuoto, ma ora la mia migliore amica sta uscendo dalla mia vita, e io soffro. Da principio ho pensato, con orrore, che donna malvagia, ma poi ho capito che se posso soffrire tanto per lei, se non altro sono arrivata ad ammettere la possibilità del dolore, del lutto. Mi sveglio la mattina fradicia di lacrime. Per Freddie, per mia madre, per Dio solo sa chi altri.
Ma non ho tempo per il dolore. Lavoro come una matta. E intanto soffro come un animale ferito. Non credo che questo sia necessariamente un passo verso la maturità. Avere un cuore gelido non è poi così male, anzi.
Io ho detto, “Questa settimana sarà molto difficile. Ma se vuoi, farò una scappata domani”.
Lei ha scrollato le spalle, con un gesto duro, addolorato.
… Dopo un lungo, lungo silenzio, che pensavo non avrebbe mai rotto, ha detto, “Il tempo è brutto, altrimenti farei da sola. Le solite cose, il cibo per il gatto, e vorrei anche un po’ di pesce…”. Il fatto che non finisse l’elenco significava che mi stava accettando, che si fidava di me in un certo senso. Ma mentre stavo per andarmene ho visto i suoi occhi vacui fissarmi, e c’era qualcosa di frenetico in quello sguardo, come se l’avessi tradita.
Ho portato la spesa a Maudie e sono rimasta un po’ con lei. Ero molto stanca e lei se ne è accorta.
Ha detto con una vocina vecchia ed incerta: “Non devi considerati obbligata a passare di qui, se sei stanca”.
“Perchè no?” ho detto io. “Tu hai bisogno di aiuto, lo sai bene”. E ho aggiunto: “Mi piace venire qui. E mi piace stare con te, Maudie. Sono contenta di conoscerti”.
Ha annuito con gesto misurato, compassato, e ha fatto un sorrisetto compiaciuto. “Non dico di non esserne contenta, perché lo sono”.
Ormai è diventata una routine. Vado da lei verso le sette, le otto, dopo il lavoro, e le porto le cose di cui mi ha detto di aver bisogno la sera prima.
… Dice che non ha nessuna voglia di cucinare. E non vuole che io sprechi il mio tempo a farlo al posto suo, perché allora “non avremmo più tempo per stare insieme”. Quando ha detto questo, mi sono resa conto che per lei la cosa più importante è parlare con me: per qualche ragione non me ne ero accorta, perché sono sulla difensiva e piena di sensi di colpa, come se fossi io la responsabile di tutte le cose orribili che le sono successe. Restiamo sedute nell’aria viziata e puzzolente, ormai riesco quasi sempre a dimenticarla appena entro, non sento più la puzza e non mi accorgo più delle tazze sporche. E lei… mi intrattiene. Non mi ero mai accorta che si trattasse di questo. Non fino a quando, un giorno, mi ha detto, “Tu fai tanto per me, e tutto quello che io posso fare per te è raccontarti le mie storie, perché ti piacciono, no? Sì, lo so che ti piacciono”. E naturalmente è vero, mi piacciono.
… Ma non mi piace ricordarle suo padre, perché allora se ne sta col mento sul petto, gli occhi bassi e nascosti, e tormenta la stoffa della sottana. Mi piace vedere quei suoi occhi azzurri scintillare fieri e vivaci, mi piace vederli ridere: mi piace guardarla, allora, perché dimentico la vecchia bisbetica e riesco a vederla com’era una volta, da ragazza.
Lei mi racconta di tutti i momenti della sua vita in cui è stata felice. Dice di esser felice anche adesso, per merito mio (e questo è difficile da accettare, mi viene una gran rabbia, a pensare che basti così poco a cambiare una vita).
(Il Diario di Jane Somers, 1983)