di Primavera Fisogni
–Premessa
La fatica pandemica si fa sentire, anche ad un livello metafisico. Tra le certezze della “vecchia” normalità messe in crisi dall’invisibile virus del Covid-19 c’è anche la visione del futuro come avanzamento, miglioramento, superamento delle difficoltà. Certo, siamo tutti dell’idea che la scienza abbia compiuto progressi epocali – si pensi soltanto ai vaccini di nuova generazione messi a punto da task force di scienziati in tutto il mondo, tuttavia abbiamo trascorso due anni di continui passi avanti/passi indietro. Usciti dalla prima ondata della pandemia, dopo essere stati chiusi in casa per mesi, la conta dei malati e dei morti è ripartita alla grande (ottobre 2020). L’anno successivo, nonostante la massiccia campagna vaccinale, una variante ultra contagiosa del microscopico principio vitale ha prodotto un’impennata dei casi positivi come mai si era sperimentata prima. All’ottimismo è subentrato un pessimismo che ci rende oltremodo cauti riguardo al futuro. Ma cos’è capitato sul piano metafisico? Qualcosa di molto interessante, a dire il vero, perché al modello classico del divenire – proiettato in avanti – si è sostituito, per così dire, uno pre-classico, improntato alla circolarità. Nulla di nuovo, nella storia del pensiero, dal momento che con quel paradigma ha sempre fatto i conti la civiltà antico-egiziana. Non a caso impregnata di pessimismo, incertezza, essenziale fragilità, mantenuta stabile dallo spasmodico ricorso al principio di equilibrio o maat. Suo malgrado, insomma, l’esperienza circolare di questi anni di pandemia, apre alla riscoperta di un’idea di divenire “altra” rispetta all’intuizione greca a cui è stata modellata la civiltà occidentale, che resta però anche “un’altra” dimensione della condizione umana. Questo articolo cerca di chiarire il divenire circolare nella visione antico-egiziana, per rilevare alcune somiglianze, sul piano psicologico e concludere che, sul piano sistemico, il divenire classico e quello pre-classico non sono che sfaccettature di una più complessa percezione del mondo della vita.
– Divenire egizi antichi
Gli egiziani antichi avevano cara una parola su tutte, perché in essa riponevano il senso stesso della loro vita e la speranza del loro futuro ultraterreno: ḫpr. Raffigurante uno scarabeo, il segno trilittero presenta una carica semantica potente, nella quale si ravvisano almeno tre idee guida: 1) quella di un’autosufficienza esistenziale, propria di un insetto capace di sopravvivere nutrendosi del proprio sterco, 2) a questa si collega il concetto di evoluzione, di crescita, di sviluppo e 3) che rimanda anche al cambiamento, alla trasformazione, al passaggio da uno stato all’altro.
Un ulteriore nucleo di significato, nella fenomenologia dello scarabeo, animale sacro in cui si ravvisava il dio Khepri (corpo umano e testa di insetto, indicante il sole nascente), riguarda il ciclo della vita, della scomparsa e della rinascita, anzitutto del sole: l’astro si leva a Oriente, culmina nel cielo e scompare a Occidente
; un ciclo che si ripete ogni giorno e che, per gli antichi egiziani poteva spiegarsi soltanto con un movimento comprendente varie fasi, compresa quella della scomparsa, della morte, del dis-apparire. Lo scarabeo con la propria autosufficienza alimentare/esistenziale si prestava plasticamente a dare una risposta all’enigma del viaggio solare, lasciando supporre che una dinamica di quel tipo – oltre a caratterizzare la condizione dell’animale – potesse spiegare il mistero dell’esistenza umana. Da queste poche indicazioni, si dà a vedere in ḫpr una affinità teorica con il divenire, concezione elaborata dalla filosofia ai suoi albori. Non c’è dubbio che l’osservazione dei fenomeni del mondo della vita, il nascere, lo svilupparsi, il morire hanno condotto all’intuizione di un principio diveniente, ma la concezione filosofica greca e l’intuizione egiziana antica non sono affatto sovrapponibili. Le distingue, in particolare, un fattore decisivo: il divenire greco è altro dall’essere, la sua antitesi; intendo invece mostrare che per la civiltà del Nilo ḫpr comprende l’idea stessa di stabilità. Proprio questa circolarità costituisce il perno del pensiero egiziano antico e, come intendo provare, è il presupposto – o il fondamento teorico – di quello che tradizionalmente è considerato il baricentro esclusivo dell’agire, del pensare, del progettare di questa civiltà, vale a dire l’idea di mȝˁt maat, traducibile con giustizia, equilibrio, verità. Non si capisce mȝˁt, non si comprende come questo principio possa avere avuto tanta parte nell’orientare quel mondo, se non ci si interroga sul suo presupposto, vale a dire sulla sua origine.
Mentre il greco, nel guardare il fiume che scorre, vi trova la successione di fasi che si esauriscono, in modo continuativo, assegnando e poi negando a questo flusso il carattere di principio, per postulare che l’origine sia in ciò che non cambia, nella mente egiziana antica la risposta al continuum esistenziale va cercata al suo interno, nei termini di un ciclico rigenerarsi. Nell’Egitto dei faraoni il fiume che attraversa il Paese esprime un dinamismo principalmente collegato all’idea di esistenza, nel segno wnn.
Per farsi almeno un’idea approssimativa di quell’antico sguardo all’esistenza, è importante, sia pure brevemente, tornare alle origini delle nostre idee di divenire e non essere, formatesi nella speculazione greca.
Talete coglieva nel flusso d’acqua il fatto che nulla permane e tutto diviene; ne consegue che «non si può discendere due volte nel medesimo fiume» (22 B 12, 91 DK ), che «noi scendiamo e non scendiamo nello stesso fiume, noi stessi siamo e non siamo» (22B 49a DK). Nulla si mantiene com’è, in questa prospettiva, e ogni cosa evolve. Niente di strano che i frammenti eraclitei ci consegnino un’immagine del divenire come antagonismo, la cui espressione antropologica prima risiede nel polemos, il conflitto, mentre sul piano esistenziale si afferma l’unità degli opposti, assurta a principio metafisico-teologico con l’affermazione «il dio è giorno-notte, è inverno-estate, è guerra-pace» (22 B 67 DK). A radicalizzare la posizione di Eraclito pensa Parmenide, il cui pensiero resta piuttosto oscuro, a fronte di soli frammenti superstiti, ma chiaro riguardo al fatto che il fenomeno della vita, nel suo divenire, oppone un positivo a un negativo, un esserci di qualcosa che, un attimo dopo, non c’è più.
L’essere è, per Parmenide, è il non essere non è (ὄν ἔστι, μὴ ὄν οὐκ ἔστι) e l’essere non è possibile che non sia (ἡ δ’ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι). Questa radicalità – originata dall’osservazione delle cose – finisce per esprimere la sua massima aporia proprio nell’incapacità di dar conto del flusso essere-non essere: estremizzare l’essere come unica realtà («tutto è pieno di essere» 28 B8 DK), ridurre il non essere a mero errore, porta a considerare l’essere – το ὄν – come «ingenerabile, incorruttibile, immobile», con un principio che, nei termini in cui era posto, «salvava l’essere, perdeva i fenomeni». (Reale, p. 37). Se dobbiamo a Melisso l’intuizione che l’essere parmenideo è uno e, soprattutto, non a-temporale («sempre era e sempre sarà», 30 B 1 DK), è soltanto con Aristotele e la dottrina dell’entelécheia, che il divenire torna “salvo”, nei termini non di un conflitto tra ciò che è e ciò che non è in senso assoluto, ma come un fluire continuo dalla potenza all’atto.
In tal modo l’essere assorbe in sé il divenire come possibilità di sviluppo e realizzazione dei viventi. Inoltre, a partire da Parmenide entra nel pensiero un’idea che plasma il modo di pensare all’uomo e alla vita, vale a dire che lo stesso, infatti, sia pensare e essere (τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι).
Un’intuizione che gli egiziani antichi non hanno colto, né sviluppato alla maniera dei greci ma, come abbiamo visto a proposito del conoscere, è implicata in nuce nell’essere la conoscenza un’esperienza che si fa e un contenuto della medesima, un cognoscere e un cognitum. Riguardo poi al non-essere (il μὴ ὄν dei greci), anche la riflessione egiziana dice la sua, sia pure in una prospettiva prettamente esistenziale e mitica, quando evoca la condizione caotica precedente la creazione del mondo (Fraschini, 2013, 2015) e il Nun, visto come “ragione spermatica” (Obenga, 2004). Spunti di ricerca meritevoli di approfondimento, in un’ontologia del tutto peculiare, caratterizzata in via primaria dal contrasto tra equilibrio e movimento, cambiamento e stabilità, come si vuole succintamente argomentare.
–Gli opposti ḫpr e mȝˁt
Sul piano grafico, nella civiltà dei faraoni, la linea della vita non è una retta che va verso un punto misterioso, irraggiungibile, quanto piuttosto la curva di un cerchio, in cui ogni frammento che si dissolve trova una nuova possibilità di esistenza. La modalità di questo evolversi sempre nuovo giustifica il ricorso alle trasformazioni. Per Eraclito quello che è stato non è più, il divenire segna l’esaurirsi di ciò che è, ne esprime la caducità. Per Parmenide soltanto l’essere è vero. Per Aristotele gli enti scorrono nell’essere. Il tempo greco è linearità.
L’antico egiziano ha davanti a sé lo scarabeo e il ciclo solare, con la loro carica simbolica. Percepisce che non c’è una fine in senso assoluto, quanto piuttosto un evolvere, che si può in qualche modo governare.
Le trasformazioni, per l’egiziano antico, specie nell’aldilà, sono certamente favorite da enunciati performativi – ma sulla base di una proprietà intrinseca della materia vivente, una qualità dinamica alla radice della corporeità. In questa prospettiva si sviluppa un argomento per l’immortalità della forza vitale correlata alla corporeità e alla sua individuazione. In altri termini, il ba richiede di avere il corpo incorrotto, perché vi sia margine di trasformazione.
Lo scarabeo ḫpr esprime allo stesso tempo il cambiamento e la stabilità: il corpo, le funzioni vitali sono il presupposto della continuità del proprio essere. Lo slancio verso l’eternità, potremmo dire, forzando un po’ gli strumenti concettuali egiziani in una prospettiva greca, si accompagna al tutto organico. Non ne può prescindere in alcun modo. Nel divenire proprio la parte materica costituisce il fattore debole del flusso vitale, perché è dalla corruzione, dalla morte che balzava agli occhi il tratto caratteristico della condizione vivente. Gli egiziani trovano nella dinamica dello scarabeo una risposta alternativa a questo sfacelo, all’esito del divenire come non-essere, per aprirsi a un’altra possibilità, che ora esploreremo, occupandoci anzitutto dei significati di ḫpr e dell’uso linguistico di questa parola. Se ˁnḫ indica la vita e il vivere come una condizione, uno stare ben saldi nella vita biologica potremmo dire, ḫpr consegna la triplice idea di entrare nel flusso vitale, di perdurare nell’esistenza e di evolvere. L’aspetto incoativo del venire all’esistenza è debitamente rimarcato negli inni che esaltano il dio solare Ra. Vediamone due, a titolo di esempio. La prima citazione è tratta dall’iscrizione tombale di Horemheb (morto forse nel 1292 a. C.), prima generale e poi successore di Tutankhamon, ultimo sovrano della XVIII dinastia. Da sinistra, leggiamo i(ȝ)w n.k ḫpr r rˁ nb, «lode a te che vieni nell’esistenza ogni giorno» (Gardiner, p. 291).
L’invocazione a Ra era un classico del corredo letterario del trapassato. Lo si dipingeva o incideva negli ipogei e lo si trascriveva su papiro. La personificazione di Ra con Khepri, il dio dalla testa di scarabeo spiega, sul piano teologico, l’uscita del giorno dalle tenebre, quale esito di una creazione che si realizza costantemente, giorno dopo giorno. Nella stele di Tagemirmut il ciclo esistenziale continuo viene esplicitato, al culmine della formula di invocazione di offerta, qui sotto indicata, che recita: ḥtp-di-(n)swt rˁ-ḥrw- ȝ ẖti ntr ˁȝ nb pt ntrw tm nb tȝwi iwnw ḫpri ḫpr ds.f, traducibile così: «un’offerta reale di Ra Horahti, il grande dio, signore del cielo e degli dei Atum – signore delle due Terre e di Iwnw (Heliopolis) e Khepri, colui che trasforma/evolve se stesso».
Nell’inno dei fratelli Hor e Suti l’invocazione, rivolta ad Amon, nella fattispecie di Amon Ra e Horakhti, non trascura di sottolineare le fatiche di Khepri: ḫpri wrd m kȝt, colui che «si affatica con il lavoro» cosmico. In questa prima area semantica di ḫpr rientrano le espressioni in cui il termine compare in relazione alla crescita: abbiamo già incontrato la formula «ho fatto le fasi/forme della mia giovinezza» in un dato luogo, nell’autobiografia dell’ammiraglio Ahmose (dd.f r ntt ir.n.i ḫprw.i m m dmi nḫb) e l’espressione ḥȝty.i n ḫprw.i «cuore mio delle mie forme», tratto dal capitolo XXX B del Libro dei morti, riferito al ruolo complesso operato dal cuore nel corso di tutte le fasi della vita umana. Da Sinuhe apprendiamo che i suoi figli «erano diventati adulti» quando lo raggiunse l’editto del faraone, per farlo tornare in Egitto. Alla riga 93 si legge: hrdw.i ḫpr m nḫtw (lett: “i miei bambini divenire nello stato di adulti”).
La stessa idea di continuità esistenziale si ritrova nella stele dell’ufficiale Mentuhotep, quando il valente amministratore racconta, alla riga 6, che tutti lo pregavano «perché restassi in questa città», espressione resa – in segni geroglifici – così: ḫprw m niwt tn, letteralmente «perché io fossi perdurante in questa città».
In espressioni come questa, ḫpr ha un significato di esistenza salda, dotata di continuità, che è poi una caratteristica tipica dei sovrani. E infatti, ancora una volta nel racconto di Sinuhe, alla riga 48, abbiamo un’espressione quale: nn ky ḫpr r ẖr-ḫȝt.f («nessun altro esiste prima di lui»).
–Succedere e accadere
All’idea diacronica di durata e dello stare nell’esistenza, ḫpr affianca quella puntuale dell’accadere, così da presentarsi abitualmente nelle narrazioni come questa, tratta dalla stele di Mentuhotep: iw ḫpr n ḥˁp(i) šr(i) rnpt 25, «(quando) si verificò il 25° anno della piccola inondazione».
Un altro problema ambientale, con pesanti conseguenze sociali, entra nella biografia di Merer. Leggiamo, sempre da sinistra: iw sˁnḫ.n(i) snw snwt iw ḳrs.n(i) nt(i) mwt(w) sˁnḫ.n(i) nt(i) ˁnḫi(i) ˁnḫ(w) m-ḫnt nbt iw m tȝs(w) pn ḫpr; «ho fatto vivere (ho nutrito, ho fatto star bene) i miei fratelli e le mie sorelle, ho seppellito i morti, ho fatto vivere i vivi fronteggiando (di fronte a) ogni cosa mentre si verificava (c’era/accadeva) la carestia».
Nel raccontare la propria prodigalità nei momenti difficili attraversati nel corso della vita, il funzionario Merer aggiunge un ulteriore tassello, che fa luce sulla storia sociale dell’antico Egitto. Si noti come l’idea di accadimento, implicata a ḫpr occupi qui la posizione apicale del discorso, traducibile come “capitò che…”. Tra i numerosi riferimenti a ḫpr nel racconto di Sinuhe, densissimo di colpi di scena e accadimenti variamente espressi con questa parola, ce n’è una telegrafica, in cui è reso magnificamente l’incapacità del protagonista di spiegare i fatti che ne avevano provocato la fuga. Ci imbattiamo qui in un termine nuovo, ḫprt cioè “l’accaduto”, sostantivo reso mediante il suffisso “t”.
n rḫ.n.tw ḫprt ḥr.s
«cosa sia successo, non si sa».
–Riflessi antropologici del divenire circolare
Gli antichi egizi non sono poi così lontani dalla nostra quotidianità. Vediamo perché. La vita sociale era caratterizzata da momenti di forte positività, da mettere in rapporto con la stabilità economica (raccolti buoni, disponibilità di materie prime) e altri di acuta difficoltà ambientali / politiche (carestie, fattori climatici, esondazioni, instabilità dinastiche dei sovrani) disegnavano una sorta di S rovesciata. L’altalena dei sentimenti positivo/negativo si modellava a un format di divenire sostanzialmente ciclico: il benessere dipendeva dalle dinamiche del grande fiume, il Nilo, e dalla stabilità del regno.
È interessante notare che il modello a S rovesciata spicca anche nelle ricerche sullo stato d’animo della popolazione globale durante la pandemia, per la quale è stato coniato il termine di “time-lag effect”, cioè di una dis-ritmia, che ha avuto significativi riflessi sul disagio psicologico. Il pessimismo si impennava con l’aumento dei contagi, per poi ritirarsi quando si stabilizzava o migliorava la situazione, anche in relazione a misure certe di prevenzione. Sospetti di peggioramento, insieme con informazioni fuorvianti o erronee, hanno sempre fatto aumentare il livello di ansia collettivo (Dong et al., 2020; Gan, 2021), sollecitando così il dovere di un uso responsabile dei social media specialmente nei momenti di forte criticità (Hauer e Sood, 2020; Jia e Liu, 2021). Più in generale, l’affermarsi di una fase ciclica prova la complessità dell’esperienza del divenire, che nel suo protendersi lineare non esclude, anzi comprende, altre dinamiche, confermando l’esattezza della prospettiva sistemica nell’analisi dei fenomeni complessi della vita (Agazzi, 2019), specialmente nelle metamorfosi (Fisogni e Urbani Ulivi, 2019).
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