di Gianfranco Brevetto
Marco Aime ci ricorda, nel suo ultimo libro Classificare, separare,escludere, la favola del colibrì, che tentò di spegnere l’incendio della foresta, portando una goccia d’acqua per volta nel suo piccolo becco e lasciandola cadere sulle fiamme. Vedendolo, il leone lo chiamò e gli disse: “Non ci riuscirai mai!”, “Forse”, rispose il colibrì, “ma intanto faccio la mia parte”. Il tema del razzismo continua ad essere tristemente attuale. Ne parliamo con l’autore.
–Ho preparato questa intervista cercando di selezionare le domande tra le tante che mi si proponevano in virtù dei numerosi spunti che concede il suo libro. Lei affronta due problemi chiave della nostra attualità quello dei razzismi e dell’identità. Perché ci vediamo costretti a dover parlare ancora di separazione esclusione?
–Perché dimentichiamo in fretta, non abbiamo memoria. Il tema del razzismo era stato riposto, sopito, nei decenni immediatamente successivi alla fine della guerra, quando era ancora viva la memoria della tragedia della Shoah . Quella generazione, che ha vissuto quell’epoca, va, via via, scomparendo con gli ultimi testimoni. Quella memoria si sta perdendo. In Italia non c’è una forte volontà di ricordare queste tragedie, quindi tutto ricomincia e ci troviamo in una situazione in cui il pregiudizio della razza ritorna, più esplicito anche del passato.
-Nel titolo del libro appaino due verbi,classificare e separare. In fondo queste due operazioni possono anche essere un atto di conoscenza per costruire dei punti di riferimento. Perché vi è questa necessità, da parte dell’uomo, di classificare e separare e quando diventa sinonimo di esclusione, di un noi e un loro?
-Classificare gli altri in modo sistematico è tipico del paradigma del mondo occidentale. Il paradigma scientifico occidentale si basa sulla classificazione che di per sé non sarebbe così pericolosa. Il problema è quando, dalla fine del settecento e poi nell’ottocento, alla classificazione si è aggiunta una sorta di gerarchia. Quindi si è deciso che qualcuno era superiore agli altri, qui entra in gioco quello che potremmo definire razzismo. Si è cominciato a costruire una scala di valori di superiorità di alcuni gruppi umani rispetto ad altri, nasce così la razza superiore.
-Ricordo che tra i libri dei miei genitori, che hanno frequentato le scuole superiori prima della guerra, avevo trovato un Atlante delle razze umane Questo testo mi affascinava, per la quantità delle varietà umane rappresentate e descritte, ma allo steso tempo m’ Oggi mi pone alcune riflessioni sulle relazioni tra scienza e ideologie. Ad iniziare ad una presunta visione scientifica della razza per arrivare alla querelle attuale sul Covid. In quest’ultimo caso alcuni movimenti politici di stampo sovranista ne hanno fatto un cavallo di battaglia, spesso negando o sottovalutando il problema. Perché certe ideologie hanno un rapporto quantomeno confuso con la scienza?
-Diciamo che molto spesso quelle ideologie prendono dalla scienza quello che gli pare. Si prende quello che serve ed appare più funzionale a ciò che si vuole sostenere. Mentre la scienza necessita di prove per poter affermare qualunque teoria, un’ideologia può pescare qua e là e, pescando a caso, si riesce a utilizzare cose assolutamente false ma che, dal punto di vista della propaganda, possono funzionare benissimo. La scienza, così, viene utilizzata per legittimare un pregiudizio che di fatto già esiste.
-Lei ad un certo punto parla dell’invenzione delle razze, a me è venuto in mente il titolo di un famoso libro dello storico Eric Hobsbawm: L’invenzione della tradizione. Perché vi è la necessità d’inventare, di creare categorie dubbie come nel caso della razza e della tradizione?
-Occorre distinguere la storia dalla memoria. La storia, quella degli storici, è fatta di dati verificati, la memoria è fatta di quegli elementi che servono a legittimare quello che c’è nel presente. George Orwell in 1984 parlava del Ministero della verità che riscrive la storia. Le tradizioni vengono riprese, inventate e manipolate per legittimare quello che è oggi qualche forma di autorità o di potere.
-L’altro tema da lei trattato, quello dell’identità, è strettamente legato, attraverso i meccanismi di selezione, a quello della memoria. Anni fa la Francia cominciò ad interrogarsi su cosa significasse essere francesi. Il dibattito che si aprì naufragò quasi subito. Che cosa significa oggi porsi il problema, soprattutto in Europa, dell’identità di un popolo?
-Si tratta semplicemente di un problema politico. Ogni popolo ha delle specificità proprie ma ha anche elementi che vengono da altre culture, è sempre stato così, siamo tutti il prodotto di un miscuglio, di un incontro. La creazione di un’identità serve a sfrondare quello che non piace, che non si vuole . Quasi sempre oggi i processi di costruzione identitaria sono non tanto legati a creare un qualcosa che ci faccia sentire più uniti come popoli ma, quasi sempre, sono in funzione contraria di qualcun altro. Nella maggior parte dei casi l’identità viene usata proprio per attaccare e escludere.
-Sul finire del libro lei mette in evidenza un meccanismo al quale si fa molto spesso riferimento. M riferisco al fatto che pur comportandosi sostanzialmente da razzisti si afferma che i veri razzisti sono gli altri. Perché c’è questa necessità, da parte di chi discrimina, di non riconoscere la vera matrice delle proprie azioni? Perché si tende a disconosce e mistificare i propri fini?
-Bene o male l’atteggiamento fascista è stato condannato ampiamente. Non essendo più legittimato ecco che si tende a negare. Ultimamente però c’è stato un abbassamento delle difese della società nei confronti di queste idee. Ci si proclama fascisti, si fa il saluto romano, cose che , fino a qualche tempo fa, non sarebbero state, in alcun modo, tollerate. Esiste, comunque, ancora questo sottofondo di delegittimazione sociale che fa sì che nessuno ammetta di essere razzista e che quindi si veda sempre e solo il razzismo degli altri.
Marco Aime
Classificare, separare, escludere
Razzismi e identità
Einaudi 2020