di Cristina Esposito
1. Introduzione. Il reo e la funzione della pena.
La concezione dei detenuti quali reietti della società appartiene a un momento storico superato che trova nel secondo dopoguerra, e precisamente nell’entrata in vigore della Carta costituzionale, il suo valico insormontabile da un punto di vista giuridico, oltre che fondamentalmente culturale.
La concezione del reo e delle conseguenze giuridiche al crimine commesso, è storicamente dipesa dalle diverse teorie sulla funzione della pena, quale sanzione afflittiva inferta dallo Stato, che si sono succedute nel tempo quale espressione della mutevole sensibilità politica e giuridica. Tali teorie trovano espressione anche nei testi di legge, e le principali possono sinteticamente essere ricondotte, in ordine cronologico, alla teoria retributiva, alla teoria general-preventiva, alla teoria special-preventiva, ed alla teoria rieducativa. La teoria retributiva si fonda sull’assunto che il male inferto dal reo alla società attraverso la commissione del reato, debba essere ripagato con un castigo di pari intensità, secondo un impianto filosofico improntato sulla lex talionis, ovvero sul concetto di proporzione. Si accetta di comminare una pena che viene considerata giusta in sé, senza che alla stessa si chieda di perseguire un fine ulteriore; ciò che conta è la corrispondenza in termini di intensità fra il torto subito e la punizione che ne deriva. La teoria retributiva si disinteressa del reo e della sua personalità, aspetti centrali della differente teoria rieducativa, ultima in termini cronologici ed attualmente espressa anche nella Carta Costituzionale. Le teorie che si basano sulla prevenzione si incentrano sulla convinzione che la pena debba servire a prevenire la commissione di ulteriori reati. Si fondano sul concetto di intimidazione, con una differenza in ordine al destinatario della stessa. Secondo la teoria general-preventiva, la pena serve a rivolgere l’intimidazione nei confronti di tutti i consociati, con una efficacia deterrente generale, che dissuade tutti dal porre in essere comportamenti delittuosi. Secondo la teoria special-preventiva, la pena serve a rivolgere l’intimidazione soltanto nei confronti del reo, al fine di evitare altri suoi comportamenti in violazione della legge. Secondo questa impostazione, la punizione diviene uno strumento di prevenzione di ulteriori reati, ed anche uno strumento pedagogico perché forgia la coscienza civile dei consociati. Infine vi è la teoria rieducativa, espressa nell’articolo 27, comma terzo, della Costituzione, che sancisce espressamente che le pene debbano assolvere alla funzione di rieducare il condannato, e si fonda sull’assunto che l’uomo è condizionabile dall’ambiente esterno, e così come è stato condizionato negativamente prima della commissione del reato, può esserne condizionato positivamente per essere rieducato. Tale teoria, anche se espressa nel testo costituzionale, è stata criticata sotto molteplici profili. È stato osservato che l’uomo non può e non deve essere “ri-educato” in quanto non è giusto imprimere principi morali, convinzioni, e valori che possono non appartenere all’individuo; altresì è stato osservato che paradossale appare il concetto che l’educazione debba pervenire da un luogo antisociale per eccellenza quale il carcere. La teoria della rieducazione è stata quindi re-interpretata nel senso di intendere la rieducazione quale risocializzazione o re-inserimento nel tessuto sociale. Il termine rieducazione nell’accezione suddetta può rievocare regimi totalitari, perché ambisce a incidere sulla libertà morale dell’individuo e a modificarne l’indirizzo, invece la Costituzione si fonda sul rispetto della dignità dell’uomo. L’articolo 27 della Costituzione deve dunque essere interpretato alla luce dei principi fondamentali della Costituzione stessa, e deve essere inteso come offerta dello Stato di un percorso che consenta all’individuo di essere reinserito nella società in modo proficuo, per lo sviluppo della propria personalità e per la qualità del contributo che egli può rendere al tessuto sociale. In questa chiave di lettura è necessario leggere il testo dell’articolo citato e l’intero ordinamento penitenziario, in quanto accanto alla sanzione “giusta” perché inflitta a seguito della commissione di un reato, prevede una offerta trattamentale, i cui elementi costitutivi sono l’istruzione, il lavoro, la religione, le attività culturali, ricreative e sportive, i contatti con il mondo esterno ed i rapporti con la famiglia (articolo 15 dell’ordinamento penitenziario). Tale tesi è stata esplicitamente accolta e ribadita dalla Corte Costituzionale con le sentenze di legittimità costituzionale n. 364/1988 e n. 313/1990.
.2. Il rapporto del detenuto con la famiglia.
Il diritto penitenziario è un sistema normativo, costituito da più fonti giuridiche, di cui la più autorevole è la Costituzione, coi suoi principi fondamentali che fungono oltre che da enunciato, anche da criterio ermeneutico dell’ordinamento giuridico; ed accanto a queste vi sono anche gli atti sovranazionali[1].
Si delinea, anche per il diritto penitenziario, un sistema complesso di fonti, costituito dai principi fondamentali della Costituzione, dalle fonti sovranazionali[2] quali le norme di diritto internazionale e le norme prodotte dalle istituzioni dell’Unione europea, dalle norme costituzionali, dalla legge ordinaria, dai regolamenti, e dalle circolari.
Il soggetto in stato di restrizione della libertà personale presso una struttura penitenziaria, per provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria, vede compresse solo quelle libertà che non possono essere esercitate nel contesto detentivo, non il riconoscimento della sua dignità e dei suoi diritti inviolabili.
Uno degli elementi che connota la vita detentiva, e che assume valore sia in veste di diritto inviolabile, e sia in veste di elemento del trattamento penitenziario volto alla revisione critica del detenuto al fine del suo reinserimento sociale, è il rapporto con la famiglia di appartenenza.
La Costituzione prevede la tutela della famiglia in termini di riconoscimento dei diritti dei suoi appartenenti, agli articoli 29, 30 e 31, i quali trovano espressione nella legge sull’ordinamento penitenziario all’articolo 18 e al corrispondente articolo 37 del regolamento di esecuzione della citata legge. Queste le norme[3] che disciplinano i colloqui dei detenuti con i familiari, i conviventi e le persone care.
.3. Il mantenimento del rapporto familiare in carcere tramite i colloqui visivi.
- 1. Modalità di accesso ai colloqui.
Svisceriamo il loro contenuto per individuare i passaggi burocratici previsti per la fruizione di un colloquio, i soggetti ammessi allo stesso, e le modalità di tempo e di luogo.
Viene innanzi tutto in rilievo la posizione giuridica del ristretto, e la fase processuale in cui lo stesso si trova, ossia, rileva se il procedimento penale si è concluso in primo grado o meno.
Se il detenuto è indagato, in altri termini se è ancora sottoposto alle indagini, in fase antecedente alla richiesta del pubblico ministero di rinvio a giudizio, di giudizio immediato o di rito alternativo, allora egli deve avanzare la richiesta di colloquio familiare al pubblico ministero presso la procura della repubblica titolare delle indagini, quale autorità dal quale lo stesso dispende.
Se il detenuto, sempre sottoposto ad indagini, si trova invece nella fase successiva, ovverossia quella che segue alla richiesta avanzata dal pubblico ministero al giudice per le indagini preliminari, di rinvio a giudizio, di giudizio immediato o di rito alternativo, egli deve avanzare la richiesta all’ufficio del giudice per le indagini preliminari – giudice dell’udienza preliminare (cosiddetto ufficio “GIP – GUP”), secondo la medesima ratio per cui la richiesta va avanzata dinanzi all’autorità giudiziaria dal quale lo stesso dipende.
Ugualmente nelle fasi successive del procedimento penale di primo grado, durante la fase dibattimentale, il detenuto deve presentare istanza al tribunale o alla corte d’assise, quale autorità giudiziaria dinanzi alla quale pende il processo e dalla quale il detenuto dipende.
L’istanza del detenuto deve essere dallo stesso firmata, in quanto per questo tipo di atto l’assistenza del difensore è facoltativa, e rilasciata all’ufficio matricola del carcere in cui lo stesso si trova ristretto. Anche i suoi familiari possono presentare autonomamente istanza all’autorità giudiziaria al fine di sostenere colloqui permanenti; in tal caso devono allegare all’istanza una certificazione dello stato di famiglia, sostituibile con autocertificazione.
L’atto non richiede l’assistenza obbligatoria di un legale, è gratuito, e non è soggetto ad impugnazione in caso di diniego.
Dopo l’emanazione della sentenza di primo grado (considerata il vero discrimen per l’individuazione del tipo di autorità competente a decidere sul punto) e pur in pendenza di appello o di ricorso presso la corte di cassazione, l’autorità alla quale presentare istanza di colloquio, e conseguentemente competente a decidere nel merito, non è più l’autorità giudiziaria dinanzi alla quale pende il procedimento penale, ma l’autorità amministrativa concretamente individuata nel direttore[4] del carcere presso cui il detenuto è ristretto.
I provvedimenti dell’amministrazione penitenziaria, in materia di colloqui dei detenuti, sono sindacabili in sede giurisdizionale, in quanto incidenti su diritti soggettivi[5]; un eventuale provvedimento di diniego è dunque suscettibile di reclamo dinanzi al magistrato di sorveglianza, che decide con ordinanza ricorribile per cassazione, secondo la procedura indicata nell’art. 14 ter dell’ordinamento penitenziario.
Anche in questo caso, legittimati a proporre istanza (direttamente, gratuitamente, e senza l’assistenza obbligatoria del difensore) sono il detenuto ed i soggetti che la legge legittima, ovverosia familiari e terze persone che abbiano ragionevoli motivi per incontrare la persona detenuta. È da specificare, in quanto il caso può verificarsi, che nel caso di istanza autonomamente presentata dai familiari, ed accettata cioè vagliata positivamente dall’autorità competente, il detenuto può rifiutare il colloquio.
Sebbene la norma indichi “familiari”, “congiunti”, “conviventi”, e “terze persone”, pur nel silenzio del legislatore che non distingue tra le categorie anzidette, e soprattutto tra congiunti (articolo 18, primo comma) e familiari e (articolo 18, terzo comma), è ormai pacifico per costante orientamento dottrinale e perché ufficialmente riconosciuto dall’amministrazione penitenziaria[6], che “familiari” è da intendersi quale sinonimo di “congiunti” e viceversa, termini entrambi che ricomprendono i parenti e gli affini entro il quarto grado.
Questa interpretazione ha subìto una restrizione[7] in ragione della differenziazione tra le tipologie di detenuti, nel senso che ricomprende parenti e affini entro il terzo grado anziché entro il quarto, solo per i detenuti, ritenuti di maggiore pericolosità ed allarme sociale per i reati commessi (detenuti sottoposti a un regime penitenziario più restrittivo, e rientranti nel circuito penitenziario di alta sicurezza[8], nonché detenuti sottoposti al regime di cui all’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario).
Per “conviventi” si intendono tutte le persone, anche non legate da vincolo matrimoniale o da vincolo di parentela o affinità, di qualunque sesso, che coabitino col ristretto per diversa ragione.
Le “terze persone” sono invece tutte coloro che non rientrano nelle categorie di familiari e conviventi, e che hanno “ragionevoli motivi” per chiedere un colloquio col detenuto. Nel caso di detenuti sottoposti al regime di cui all’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario, sono richiesti “motivi eccezionali” determinabili di volta in volta.
Verifichiamo quali sono le modalità di tempo e di luogo per lo svolgimento dei colloqui.
Ricordiamo che la ratio dei colloqui familiari, che vengono non solo tollerati ma favoriti e valorizzati, risponde alla duplice esigenza di consentire l’affettività del ristretto, e di incentivarlo al reinserimento nel tessuto sociale in modo più sano e consapevole, profili differenti ma inscindibili, se pensiamo al detenuto come essere umano di cui vanno riconosciuti e tutelati la dignità e i diritti fondamentali.
Nella struttura penitenziaria i colloqui possono avvenire nei giorni prefissati e nelle fasce orarie predisposte all’accoglimento dei familiari, ossia con predeterminazione dei giorni e degli orari da parte dell’autorità amministrativa penitenziaria (normalmente nei giorni feriali, ma compatibilmente all’organizzazione del lavoro ed alla capacità logistico-organizzativa del servizio della struttura penitenziaria, anche nei giorni festivi).
I familiari sono, per ogni colloquio, sottoposti a controlli sia di tipo documentale, perché ogni volta è necessario accertare la loro identità e la sussistenza dell’avvenuta autorizzazione al colloquio, e sia di tipo personale, perché è altresì necessario accertare che gli stessi non occultino sulla persona oggetti non consentiti dall’ordinamento penitenziario, ossia che non possono trovare ingresso in carcere per ragioni di ordine e sicurezza.
- 2. Modalità di fruizione dei colloqui.
I colloqui possono avvenire tra il detenuto e non più di tre persone alla volta, tra i suoi cari a ciò autorizzati. Ordinariamente i colloqui si svolgono sotto il controllo visivo ma non auditivo del personale deputato alla custodia ed alla sicurezza, senza vetro divisorio che impedisca il contatto umano e l’affettività, all’interno delle mura penitenziarie, in appositi locali a ciò adibiti e denominati “sale colloqui”, o sempre all’interno della struttura penitenziaria, nella cosiddetta “intercinta”, ma all’aperto, in aree verdi, molto spesso adornate con giardini e gazebo attrezzati.
In entrambi i casi i congiunti possono accomodarsi attorno a un tavolo per trascorrere il tempo consentito in vicinanza fisica.
Molto spesso, all’interno degli istituti penitenziari, le aree deputate ai colloqui familiari vengono realizzate con attenzione nei riguardi dell’infanzia, in considerazione del fatto che molti detenuti hanno figli minori, anche di tenera età, con i quali svolgono colloquio per mantenere e rinsaldare il rapporto affettivo. Ecco dunque che nelle salette le pareti possono essere affrescate ritraendo personaggi dei cartoni animati o fiabeschi, e essere arredate con casse contenenti giocattoli. All’esterno invece si possono frequentemente notare giochi da giardino per bambini e piante ornamentali con fiori colorati.
Nelle ricorrenze è data la possibilità ai detenuti di festeggiare incontrando i propri congiunti in questi spazi appositi, e di fare dono agli stessi di beni che possono confezionare personalmente, come tele dipinte o altri lavori artigianali realizzati nei laboratori della struttura penitenziaria.
Il colloquio ha la durata di un’ora, ma la previsione può essere derogata in senso estensivo “in considerazione di eccezionali circostanze”, quale può essere una ricorrenza importante per la famiglia, o quando questa proviene da comune diverso e molto distante da quello in cui insiste l’istituto penitenziario.
Riguardo alla frequenza, è necessario differenziare a seconda del “regime penitenziario” al quale il detenuto è sottoposto, che indica le regole al quale lo stesso deve attenersi, ed anche il tipo di offerta trattamentale somministrata dall’amministrazione penitenziaria.
Si consideri, inoltre, che in dipendenza del reato commesso il detenuto viene allocato, ovverossia ubicato, in camere di pernottamento che si trovano in sezioni detentive ben distinte e differenziate.
Si parla in tal caso di “circuito penitenziario”[9].
I detenuti cosiddetti “comuni”, ossia rientranti nel circuito di “media sicurezza”, possono ordinariamente usufruire di sei colloqui al mese.
I detenuti per reati di particolare gravità ed allarme sociale, rientranti nel circuito di “alta sicurezza”, possono invece effettuare fino a quattro colloqui al mese.
Tale limite può essere in entrambi i casi derogato in senso estensivo in particolari circostanze, quali quella in cui il detenuto sia gravemente infermo, o quella in cui chieda di avere colloqui con prole di età inferiore ai dieci anni.
Regole ancora più restrittive si applicano, anche in tema di colloqui, ai detenuti ai quali è applicato il regime penitenziario più limitante in assoluto, ovvero il regime di cui all’articolo 41 bis[10] dell’ordinamento penitenziario, per i quali è prevista la possibilità di svolgere un colloquio ogni trenta giorni, soltanto all’interno di locali muniti di vetro divisorio a tutta altezza, cosicché risultano impediti non solo l’eventuale scambio di oggetti, ma anche il contatto e l’affettività attraverso di esso.
Queste le caratteristiche dei colloqui con i familiari, da intendersi quali colloqui “in presenza”, in quanto la corrispondenza epistolare e quella telefonica non sono ricomprese in questa previsione, e sono sottoposte ad altra disciplina.
4. Modifiche alle modalità di fruizione dei colloqui familiari.
- 1. Restrizioni temporanee che non incidono sul favor familiæ.
Nell’attuale momento storico, caratterizzato dalla pandemia chiamata COVID-19 e provocata dal virus SARS-CoV-2, per il cui contenimento ogni Stato ha adottato misure restrittive delle libertà personali, anche i rapporti dei detenuti con i propri familiari, attraverso il contatto personale e diretto durante i colloqui in carcere, hanno subito restrizioni e modifiche.
È evidente come si pongano a confronto valori diversi, sebbene entrambi importanti perché costituzionalmente garantiti: la tutela della salute da un lato, la tutela della famiglia e dell’infanzia dall’altro, che appaiono in conflitto nel contesto esaminato, in quanto non possono trovare piena espressione e piena tutela contestualmente, e che esigono di essere bilanciati in quanto non possono essere compressi.
Diverse sono le norme dell’ordinamento penitenziario che si riferiscono alla famiglia: l’articolo 28 “rapporti con la famiglia”, dichiara che “particolare cura è dedicata a mantenere, migliorare o ristabilire le relazioni dei detenuti e degli internati con le famiglie”; l’articolo 1 “trattamento e rieducazione”, comma sesto, dispone che “nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Il trattamento è attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti”; l’articolo 15 “elementi del trattamento” al primo comma prevede che “il trattamento del condannato e dell’internato è svolto avvalendosi principalmente dell’istruzione, del lavoro, della religione, delle attività culturali, ricreative e sportive e agevolando opportuni contatti con il mondo esterno ed i rapporti con la famiglia”; l’articolo 28 “rapporti con la famiglia” riconosce “particolare cura è dedicata a mantenere, migliorare o ristabilire le relazioni dei detenuti e degli internati con le famiglie”.
Tali norme rendono evidente che scopo del legislatore del ‘75 sia stato quello di creare un complesso normativo in cui le relazioni familiari avessero un ruolo centrale ed attivo sia sulle condizioni psicofisiche del detenuto in carcere, e sia sulle sue prospettive future di vita, in vista del reinserimento nel tessuto sociale una volta scontata la pena detentiva. Questa voluntas legis è stata confermata con l’entrata in vigore dell’attuale regolamento di esecuzione del 2000.
Anche le norme dell’ordinamento penitenziario sono suscettibili di una interpretazione costituzionalmente orientata al fine della loro concreta applicazione, pertanto accanto alla volontà di privilegiare i legami affettivi quali elemento centrale del trattamento, emerge anche l’attenzione per la famiglia quale istituzione, e conseguentemente per la genitorialità, per l’infanzia e per la tutela dei soggetti socialmente vulnerabili all’esterno, ovverosia i familiari del detenuto.
A ciò si aggiunga che questa attenzione travalica i confini nazionali, ed ha costituito oggetto di una Raccomandazione del Comitato dei Ministri agli Stati membri sui figli dei genitori detenuti , ampiamente condivisa nel nostro Stato dall’amministrazione penitenziaria anche perché ispirata al recepimento del Protocollo di Intesa sottoscritto il 21 marzo 2014, e rinnovato nel 2016, tra Ministro della Giustizia, Autorità Garante per l’infanzia e l’adolescenza, e l’Associazione Bambinisenzasbarreonlus.
La Raccomandazione, tra l’altro, dedica alcune disposizioni alla preparazione del personale che entra in contatto con i minori, nella consapevolezza della rilevanza del compito assegnato. È evidenziata l’opportunità che vengano formati agenti specificamente incaricati di occuparsi dei detenuti con figli, e che questi siano preparati a cogliere le esigenze sia degli uni sia degli altri. Ciò anche al fine di una più attenta organizzazione delle procedure di ingresso e delle modalità di colloquio; ma non solo, si auspica che – con misure di maggiore attenzione e professionalità – si possa contribuire a eliminare, nel contesto sociale, stereotipi negativi concernenti i figli di persone recluse. Inoltre, nella prospettiva di agevolare gli incontri e di incrementarli, si raccomanda di fare ricorso a strumenti tecnologici (quali le videoconferenze e le chiamate con i telefoni cellulari), che tuttavia non devono rappresentare un’alternativa ai colloqui diretti, ma devono costituire una opportunità ulteriore di cui avvalersi quando non sia fattibile il colloquio diretto o quando questo si debba svolgere con modalità che riducano di molto o impediscano il contatto fisico (si pensi ai casi di uso del vetro divisorio). I temi affrontati dalla Raccomandazione sono particolarmente delicati, perché riguardando una situazione – quella della genitorialità del detenuto, e più in generale dei rapporti col nucleo familiare – che può causare traumi, stigmatizzazioni, e conferma l’attenzione che il Consiglio d’Europa manifesta costantemente verso la situazione delle persone recluse e dei loro familiari.
- 2. L’evoluzione temporale delle misure adottate.
In merito alla sospensione dei colloqui dei detenuti con i familiari, le misure precauzionali adottate dall’amministrazione penitenziaria, sono state di volta in volta individuate in coerenza alle indicazioni ed alle disposizioni emanate dal Governo, che come notorio sono state differenti e man mano sempre più stringenti dal momento delle prime notizie di contagio in Italia, alla successiva dichiarazione di pandemia da parte dell’Organizzazione mondiale della sanità, per arrivare ai giorni nostri .
Con ordinanza del Ministro della Salute Roberto Speranza del 21 febbraio, si prevedono misure di isolamento quarantenario obbligatorio per i contatti stretti con un caso risultato positivo, e si dispone la sorveglianza attiva con permanenza domiciliare fiduciaria per chi è stato nelle aree a rischio della Cina, interessate dall’epidemia, negli ultimi quattordici giorni, con obbligo di segnalazione da parte del soggetto interessato alle autorità sanitarie locali. A seguito di tale ordinanza, il giorno seguente, il Capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria emana delle raccomandazioni organizzative per la prevenzione del contagio del coronavirus, stabilendo la prima importante misura restrittiva. Riferisce infatti che in relazione a quanto deciso dal Ministro della Salute, d’intesa con il Presidente della Regione Lombardia, con ordinanza del 21 febbraio, “si dispone che tutti gli operatori penitenziari residenti o comunque dimoranti nei Comuni di Codogno, Castiglione d’Adda, Casalpusterlengo, Fombio, Maleo, Somaglia, Bertonico, Terranova dei Passerini, Castelgerundo e San Fiorano siano esonerati dal recarsi in servizio presso le rispettive sedi fino a nuove disposizioni. Parimenti dovrà escludersi l’accesso agli istituti di chiunque altro provenga, abbia residenza o domicilio nei suddetti Comuni (personale esterno, insegnanti, volontari, familiari, ecc.). Saranno inoltre sospese, fino a nuova disposizione, le traduzioni dei detenuti verso e dagli istituti penitenziari rientranti nella competenza dei Provveditorati di Torino, Milano, Padova, Bologna e Firenze”.
Il 22 febbraio il Ministero della Salute emana e diffonde tra tutte le pubbliche amministrazioni, una circolare per fornire nuove indicazioni e chiarimenti, e il 25 febbraio il Capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria emana a sua volta una circolare che recepisce le indicazioni ricevute e le declina per la concreta applicazione presso gli istituti penitenziari, specificando, tra l’altro: “particolare attenzione da parte del personale addetto all’area esterna e all’ufficio colloqui dovrà essere posta in relazione agli accessi in istituto da parte di persone non appartenenti all’Amministrazione penitenziaria o alla ASL, ivi compresi gli addetti agli approvvigionamenti e rifornimenti. A tale proposito, si ritiene indispensabile che i visitatori osservino un comportamento responsabile, mediante autodichiarazione in cui attestino di non presentare sintomi (temperatura 37,5; mal di gola, rinorrea, difficoltà respiratoria e sintomatologia simil-influenzale/simil COVID-19/polmonite), di non provenire o di non aver soggiornato negli ultimi quattordici giorni in paesi ad alta endemia o territori nazionali sottoposti a misure di quarantena, di non essere comunque a conoscenza di aver avuto contatti con persone affette da COVID19. In caso di dichiarazione positiva, dovrà essere interdetto l’accesso in Istituto, definendo con l’unità di crisi locale il percorso di invio alle ASL di riferimento”. Fino a questo momento resta quindi intatta la possibilità di sostenere colloqui con i familiari, salvi i casi di contagiosità potenziale degli stessi, dipendente dalle condizioni suddette, comunque autocertificabili. Ciò al fine di preservare la salute dei detenuti, giacché è evidente che il fattore di contagio in carcere può provenire solo dall’esterno. Vengono ovviamente previsti e disciplinati anche ulteriori aspetti, tra i quali i rapporti con il dipartimento della protezione civile, l’adozione di misure di prevenzione, e l’approvvigionamento di presidi sanitari. L’attenzione dell’amministrazione penitenziaria si mantiene costante, ed anche il 26 febbraio viene emanata una ulteriore circolare in cui si ribadiscono le misure igieniche da adottare a livello personale, le indicazioni per la pulizia e la disinfezione dei locali, e anche in questo caso le cautele relative alle modalità di accesso del pubblico dall’esterno, evidenziando la necessità di “evitare assembramenti, provvedendo eventualmente, ove necessario, a rimodulare gli orari ed a scaglionare gli accessi”.
Nella stessa data vengono fornite specifiche indicazioni per la prevenzione del contagio da corona virus nelle regioni sino a quel momento colpite, ovvero Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige, Emilia Romagna, Marche, Toscana e Sicilia. Per la prima volta, e limitatamente alle regioni predette, esclusivamente al fine di contenere il contagio da coronavirus a livello nazionale, e prevenirlo negli istituti penitenziari, viene suggerito (e non ancora disposto) che “può risultare funzionale ed idoneo assumere provvedimenti che tendano a: sospendere le attività trattamentali, per le quali sia previsto o necessario l’accesso della comunità esterna; contenere le attività lavorative esterne e quelle interne per le quali sia prevista la presenza di persone provenienti dall’esterno; sostituire i colloqui con familiari o terze persone, diverse dai difensori, con i colloqui a distanza mediante le apparecchiature in dotazione agli istituti penitenziari (Skype) e con la corrispondenza telefonica, che potrà essere autorizzata oltre i limiti”.
Con l’inizio del mese di marzo, e specificamente a seguito della emanazione del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri n. 59 dell’8 marzo, che – tra l’altro – sospende i colloqui visivi dei detenuti, hanno purtroppo inizio le rivolte in numerosi penitenziari della nazione.
L’articolo 2, lettera u), del decreto, in tema di misure per il contrasto e il contenimento sull’intero territorio nazionale del diffondersi del virus, prevede che “i colloqui visivi si svolgono in modalità telefonica o video, anche in deroga alla durata attualmente prevista dalle disposizioni vigenti”.
Alla sospensione dei colloqui visivi disposta dal Governo, segue la concessione di colloqui telefonici straordinari. Ogni detenuto è pertanto ammesso alla fruizione di colloqui telefonici straordinari, ulteriori rispetto a quelli già previsti e autorizzati. Viene inoltre attivata la piattaforma Skype per l’effettuazione di videochiamate con familiari e conviventi. La videochiamata è da considerarsi, da questo momento, come un colloquio visivo, dalla cui normativa dipende.
Il 12 marzo, per effetto del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri sopra citato, eccezionalmente, viene concesso ai detenuti appartenenti al circuito alta sicurezza, l’esecuzione dei colloqui telefonici anche attraverso l’uso di telefoni cellulari, l’utilizzo della piattaforma skype per l’effettuazione di videochiamate coi propri familiari aventi diritto, ed ugualmente l’utilizzo della medesima piattaforma per i colloqui con i propri difensori senza alcuna limitazione. Per i detenuti sottoposti al regime di cui all’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario, viene previsto che gli stessi continuino a fruire dei colloqui visivi coi propri familiari tenuto conto dell’uso del vetro divisorio che garantisce la separazione tra i soggetti.
Sempre dalla medesima data, viste le limitazioni introdotte in data 8 marzo con decreto legge n. 11, viene concesso ai detenuti di utilizzare per motivi di studio le videoconferenze o i collegamenti tramite skype; viene altresì concesso l’uso della posta elettronica sia per motivi di studio che per contattare i familiari.
Seguono ovviamente ulteriori circolari dell’amministrazione penitenziaria, che continua – si ribadisce, coerentemente alle indicazioni ed alle disposizioni di volta in volta diramate dal Governo e dal Ministero della Salute – a declinare per il contesto penitenziario, e per tutti i servizi interni ed esterni agli istituti penitenziari che le competono, misure di prevenzione e procedure operative, compresi i comportamenti di profilassi igienica ambientale.
Viene reso noto che è stata consolidata con TIM un’importante partnership che consentirà di mettere a disposizione degli istituti penitenziari, 1600 apparati mobili utilizzabili per le telefonate e per le videochiamate tra i ristretti e i loro familiari.
Viene emanato il decreto legge del 17 marzo n. 18 “Misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19”, che all’art. 86, comma XIII, dispone “Negli istituti penitenziari e negli istituti penali per minorenni, a decorrere dal 9 marzo 2020 e sino alla data del 22 marzo 2020, i colloqui con i congiunti o con altre persone cui hanno diritto i condannati, gli internati e gli imputati a norma degli articoli 18 della legge 26 luglio 1975, n. 354, del decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 2000, n. 230, e 19 del decreto legislativo 2 ottobre 2018, n. 121, sono svolti a distanza, mediante, ove possibile, apparecchiature e collegamenti di cui dispone l’amministrazione penitenziaria e minorile o mediante corrispondenza telefonica, che può essere autorizzata oltre i limiti di cui all’articolo 39, comma 2, del predetto decreto del Presidente della Repubblica n. 230 del 2000 e all’articolo 19, comma 1, del decreto legislativo n. 121 del 2018”.
Il Ministero della Salute, nella serata del 20 marzo, emana un’ordinanza contenente ulteriori prescrizioni limitative, finalizzate al contenimento del contagio sull’intero territorio nazionale, in conseguenza della quale la possibilità di spostamento delle persone sul territorio è circoscritta e resa ammissibile in casi molto più limitati (casi connessi alle esigenze lavorative, nei limiti delle attività produttive e lavorative che ancora si svolgono in presenza, casi connessi alle esigenze di carattere sanitario, e casi connessi a situazione di necessità). Risulta evidente che i familiari non possano più recarsi presso gli istituti penitenziari per effettuare i colloqui visivi con i propri congiunti detenuti perché tale eventualità non rientra tra quelle consentite per gli spostamenti sul territorio.
Il Comitato tecnico scientifico della protezione civile, interpellato dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria con specifico quesito, il 21 marzo conferma che – in coerenza a quanto disposto dal decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 8 marzo 2020 – il divieto di movimento generale, valido per tutti i cittadini, è applicabile anche allo spostamento dei familiari dei detenuti.
Anche il Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, con lettera indirizzata ai Garanti locali il 20 marzo, evidenzia come “questi provvedimenti … ridefiniranno i casi di necessità e non potrà presumibilmente essere incluso tra essi lo spostamento per recarsi in visita a parente che si trovi in una struttura chiusa e privativa della libertà … il punto non è quello della gestione penitenziaria, ma quello del controllo sugli spostamenti urbani ed extraurbani, indispensabile per fermare il dilagare dell’epidemia”.
Il citato decreto legge n. 18 del 17 marzo, contiene inoltre due importanti articoli volti a ridisegnare, alleggerendola, la capienza complessiva degli istituti penitenziari, concedendo – per l’effetto – misure deflattive della detenzione: l’articolo 123 (disposizioni in materia di detenzione domiciliare) e l’articolo 124 (licenze premio straordinarie per i detenuti in regime di semilibertà).
I colloqui visivi sono con chiarezza, in via definitiva, sospesi e “tramutati” in un numero maggiore di colloqui telefonici e in colloqui tramite videochiamata o videoconferenza.
Lo scorso 1 aprile, il Ministro della Giustizia ha accordato ai detenuti sottoposti al regime ex articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario, un secondo colloquio telefonico mensile secondo le prescrizioni specifiche dettagliate dal direttore generale dei detenuti e del trattamento del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria.
La “trasformazione” della modalità nella fruizione dei colloqui dei detenuti coi familiari è nota oramai non solo agli addetti ai lavori o ai diretti interessati, ma anche al grande pubblico, non solo per quanto disposto dai decreti governativi, ma anche per le notizie riportate dalla stampa.
Su Il Mattino.it del 21 marzo si legge: “‘Sono 194 i cellulari che sono stati distribuiti negli istituti penitenziari della Campania e il provveditorato sta valutando alcune iniziative di potenziamento della dotazione che consentirà ai detenuti di potersi mettere in collegamento ancora più agevolmente con i propri familiari’. Lo rende noto il provveditore per le carceri della Campania Antonio Fullone. ‘Le normative nazionale e regionale tese a fronteggiare l’emergenza coronavirus – sostiene Fullone – hanno indotto il Ministero della Giustizia ad armonizzarsi’”.
Sulla nuova modalità comunicativa e sulla reazione dei detenuti al riguardo, significative le dichiarazioni della direttrice del carcere di Bari, riportate dall’ANSA il successivo 24 marzo: “‘Dopo una iniziale diffidenza ora sono contenti di collegarsi via Skype con le famiglie perché è come se tornassero a casa per qualche ora’. Sono le parole della direttrice del carcere di Bari, Valeria Piré, che nei giorni scorsi, nell’ambito delle misure di contenimento del rischio contagio da coronavirus e la conseguente sospensione delle visite in carcere dei familiari, ha disposto i colloqui via Skype. ‘Adesso abbiamo centinaia di richieste’ racconta la direttrice, assicurando che ‘nei prossimi giorni aumenteremo le possibilità di colloqui, attualmente limitati ad una volta a settimana per ciascun detenuto. Vedendoli parlare da remoto con le famiglie ci siamo commossi anche noi, perché in quegli schermi tornano a vedere il loro cane, le loro case, come è stato ristrutturato il bagno. Certo il contatto fisico e umano è diverso, ma in questo momento non sarebbe comunque possibile’”.
Con ultimo decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, “Ulteriori disposizioni attuative del decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6, recante misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19, applicabili sull’intero territorio nazionale”, dello scorso 26 aprile, all’articolo 1 rubricato “Misure urgenti di contenimento del contagio sull’intero territorio nazionale”, alla lettera y) viene previsto: “tenuto conto delle indicazioni fornite dal Ministero della salute, d’intesa con il coordinatore degli interventi per il superamento dell’emergenza coronavirus, le articolazioni territoriali del Servizio sanitario nazionale assicurano al Ministero della giustizia idoneo supporto per il contenimento della diffusione del contagio del COVID-19, anche mediante adeguati presidi idonei a garantire, secondo i protocolli sanitari elaborati dalla Direzione generale della prevenzione sanitaria del Ministero della salute, i nuovi ingressi negli istituti penitenziari e negli istituti penali per minorenni. I casi sintomatici dei nuovi ingressi sono posti in condizione di isolamento dagli altri detenuti, raccomandando di valutare la possibilità di misure alternative di detenzione domiciliare. I colloqui visivi si svolgono in modalità telefonica o video, anche in deroga alla durata attualmente prevista dalle disposizioni vigenti. In casi eccezionali può essere autorizzato il colloquio personale, a condizione che si garantisca in modo assoluto una distanza pari a due metri. Si raccomanda di limitare i permessi e la semilibertà o di modificare i relativi regimi in modo da evitare l’uscita e il rientro dalle carceri, valutando la possibilità di misure alternative di detenzione domiciliare”.
Pertanto, per ciò che strettamente pertiene ai colloqui, nulla sostanzialmente muta in merito all’obbligo di continuare a sostenerli in modalità telefonica o video, anche in deroga alle disposizioni vigenti circa la mobilità sul territorio nazionale, salvo la nuova eventualità introdotta ma non meglio specificata, concernente l’ipotesi in cui, in casi eccezionali può essere autorizzato il colloquio personale, a condizione che si garantisca in modo assoluto una distanza pari a due metri. È da presumere, nel silenzio del legislatore, che sarà affidata all’amministrazione penitenziaria la individuazione della possibilità concreta di fruire del colloquio in presenza, probabilmente sia in ragione di fattori tecnico-logistici afferenti ciascuna struttura penitenziaria, e sia in ragione di esigenze “eccezionali” di carattere personale e familiare da vagliare caso per caso.
In conclusione, fermo restando l’obbligo generalizzato del rispetto delle norme che impongono restrizioni per il contenimento del contagio, resta l’interrogativo, affidato alla sensibilità umana e giuridica ed alla riflessione di ciascuno di noi, circa l’equiparabilità in tale momento storico della modalità comunicativa e relazionale dei colloqui visivi con quella dei colloqui telefonici o anche tramite videochiamata.
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[1] Le norme di diritto internazionale e le norme dell’Unione Europea trovano ingresso nel nostro ordinamento, rispettivamente grazie all’articolo 10 e all’articolo 11 della Costituzione. L’articolo 10 prescrive all’ordinamento giuridico italiano di conformarsi alle “norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”, che sono le norme consuetudinarie della Comunità internazionale che assumono rango di norme costituzionali salvo che siano contrarie ai principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale (Sentenze della Corte Costituzionale n. 68/1961, n. 75/1993, e n. 48/1979). L’articolo 11 prescrive all’Italia di consentire “in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni”.
[2] Tra le principali si ricordino la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York il 10 dicembre 1948; la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, adottata a Roma il 4 novembre 1950 e resa esecutiva in Italia con legge 4 agosto 1955, n. 848; il Patto internazionale sui diritti civili e politici, adottato a New York il 16 dicembre 1966 e reso esecutivo in Italia con legge 25 ottobre 1977, n. 881.
[3] Art. 18 della legge 26 luglio 1975, n. 354 “Colloqui, corrispondenza e informazione”
I detenuti e gli internati sono ammessi ad avere colloqui e corrispondenza con i congiunti e con altre persone, anche al fine di compiere atti giuridici. I detenuti e gli internati hanno diritto di conferire con il difensore, fermo quanto previsto dall’articolo 104 del codice di procedura penale, sin dall’inizio dell’esecuzione della misura o della pena. Hanno altresì diritto di avere colloqui e corrispondenza con i garanti dei diritti dei detenuti. I colloqui si svolgono in appositi locali sotto il controllo a vista e non auditivo del personale di custodia. I locali destinati ai colloqui con i familiari favoriscono, ove possibile, una dimensione riservata del colloquio e sono collocati preferibilmente in prossimità dell’ingresso dell’istituto. Particolare cura è dedicata ai colloqui con i minori di anni quattordici. Particolare favore viene accordato ai colloqui con i familiari. L’amministrazione penitenziaria pone a disposizione dei detenuti e degli internati, che ne sono sprovvisti, gli oggetti di cancelleria necessari per la corrispondenza. Può essere autorizzata nei rapporti con i familiari e, in casi particolari, con terzi, corrispondenza telefonica con le modalità e le cautele previste dal regolamento. I detenuti e gli internati sono autorizzati a tenere presso di sé i quotidiani, i periodici e i libri in libera vendita all’esterno e ad avvalersi di altri mezzi di informazione. Ogni detenuto ha diritto a una libera informazione e di esprimere le proprie opinioni, anche usando gli strumenti di comunicazione disponibili e previsti dal regolamento. L’informazione è garantita per mezzo dell’accesso a quotidiani e siti informativi con le cautele previste dal regolamento. Salvo quanto disposto dall’articolo 18-bis, per gli imputati fino alla pronuncia della sentenza di primo grado, i permessi di colloquio, le autorizzazioni alla corrispondenza telefonica e agli altri tipi di comunicazione sono di competenza dell’autorità giudiziaria che procede individuata ai sensi dell’articolo 11, comma 4. Dopo la pronuncia della sentenza di primo grado provvede il direttore dell’istituto.
Art. 37 del Decreto del Presidente della Repubblica 30giugno 2000, n. 230 “Colloqui”
I colloqui dei condannati, degli internati e quelli degli imputati dopo la pronuncia della sentenza di primo grado sono autorizzati dal direttore dell’istituto. I colloqui con persone diverse dai congiunti e dai conviventi sono autorizzati quando ricorrono ragionevoli motivi. Per i colloqui con gli imputati fino alla pronuncia della sentenza di primo grado, i richiedenti debbono presentare il permesso rilasciato dall’autorità giudiziaria che procede. Le persone ammesse al colloquio sono identificate e, inoltre, sottoposte a controllo, con le modalità previste dal regolamento interno, al fine di garantire che non siano introdotti nell’istituto strumenti pericolosi o altri oggetti non ammessi. Nel corso del colloquio deve essere mantenuto un comportamento corretto e tale da non recare disturbo ad altri. Il personale preposto al controllo sospende dal colloquio le persone che tengono comportamento scorretto o molesto, riferendone al direttore, il quale decide sulla esclusione. I colloqui avvengono in locali interni senza mezzi divisori o in spazi all’aperto a ciò destinati. Quando sussistono ragioni sanitarie o di sicurezza, i colloqui avvengono in locali interni comuni muniti di mezzi divisori. La direzione può consentire che, per speciali motivi, il colloquio si svolga in locale distinto. In ogni caso, i colloqui si svolgono sotto il controllo a vista del personale del Corpo di polizia penitenziaria. Appositi locali sono destinati ai colloqui dei detenuti con i loro difensori. Per i detenuti e gli internati infermi i colloqui possono avere luogo nell’infermeria. I detenuti e gli internati usufruiscono di sei colloqui al mese. Quando si tratta di detenuti o internati per uno dei delitti previsti dal primo periodo del primo comma dell’articolo 4-bis della legge e per i quali si applichi il divieto di benefici ivi previsto, il numero di colloqui non può essere superiore a quattro al mese. Ai soggetti gravemente infermi, o quando il colloquio si svolge con prole di età inferiore a dieci anni ovvero quando ricorrano particolari circostanze, possono essere concessi colloqui anche fuori dei limiti stabiliti nel comma 8. Il colloquio ha la durata massima di un’ora. In considerazione di eccezionali circostanze, è consentito di prolungare la durata del colloquio con i congiunti o i conviventi. Il colloquio con i congiunti o conviventi è comunque prolungato sino a due ore quando i medesimi risiedono in un comune diverso da quello in cui ha sede l’istituto, se nella settimana precedente il detenuto o l’internato non ha fruito di alcun colloquio e se le esigenze e l’organizzazione dell’istituto lo consentono. A ciascun colloquio con il detenuto o con l’internato possono partecipare non più di tre persone. È consentito di derogare a tale norma quando si tratti di congiunti o conviventi. Qualora risulti che i familiari non mantengono rapporti con il detenuto o l’internato, la direzione ne fa segnalazione al centro di servizio sociale per gli opportuni interventi. Del colloquio, con l’indicazione degli estremi del permesso, si fa annotazione in apposito registro. Nei confronti dei detenuti che svolgono attività lavorativa articolata su tutti i giorni feriali, è favorito lo svolgimento dei colloqui nei giorni festivi, ove possibile.
[4] La previsione è stata introdotta con la legge n. 663 del 1986, c.d. legge Gozzini; tuttavia, l’attribuzione della competenza al rilascio dei permessi di colloquio all’autorità amministrativa anziché a quella giudiziaria, è stata criticata da chi vi ha visto un mutamento di rotta rispetto alla tendenza di presidiare con le garanzie della giurisdizione la fase dell’esecuzione penale. Viepiù risulta evidente il contrasto tra la citata previsione e l’articolo 15 della Costituzione che attribuisce all’autorità giudiziaria il potere di limitare la libertà e la segretezza di ogni forma di comunicazione.
[5] La Corte Costituzionale con la nota sentenza n. 26/1999 ha dichiarato la illegittimità costituzionale degli artt. 35 e 69 della legge 26 luglio 1975, n. 354 nella parte in cui tali disposizioni non prevedono una tutela giurisdizionale piena nei confronti degli atti della amministrazione penitenziaria lesivi di diritti di coloro che sono sottoposti a restrizione della libertà personale, contestualmente chiedendo al legislatore l’esercizio della funzione normativa in attuazione dei principi della costituzione al fine di colmare le lacune dell’ordinamento. La Corte di Cassazione, riunitasi a sezioni unite, con sentenza n. 25079/2003 è tornata sulla questione, rilevando che, in materia di lesione di diritti soggettivi e specificamente, nella materia concernenti i colloqui (visivi e telefonici) di cui all’art. 18 dell’ordinamento penitenziario, nel silenzio del legislatore, il mezzo procedimentale da adottare non può che ricondursi – proprio per le esigenze di garantire l’effettività della giurisdizione e la speditezza della procedura – a quello di cui agli articoli 14-ter e 69 dell’ordinamento penitenziario, che prevede la procedura del reclamo al magistrato di sorveglianza.
[6] Circolare del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria n. 3478/5928 del 8 luglio 1998 in materia di colloqui e corrispondenza telefonica: cit. … In particolare, pur ritenendosi che le due espressioni potrebbero avere significati diversi (in quanto il termine “congiunti” farebbe riferimento alle persone legate da un rapporto di parentela o di affinità, mentre il termine “familiari” indicherebbe i congiunti conviventi), si conclude che “la legge e il (vecchio) regolamento utilizzano promiscuamente le due espressione, con accezioni sostanzialmente equivalenti”. In effetti, tale opzione interpretativa appare obbligata e trova fondamento nell’art. 37 del nuovo reg. es. (ma anche negli artt.39, 62, 63) che, riservando un identico trattamento giuridico ai congiunti e ai conviventi, non menziona i familiari (se non nel comma XI, che tuttavia pone una regola che non attiene, in senso stretto, alla disciplina dei colloqui). Contraria alla lettera della norma (oltre che inutile) sarebbe, invece, la tesi di una tripartizione, in cui vi sarebbe la categoria dei congiunti” (parenti e affini non conviventi), quella dei conviventi (le altre persone che coabitavano con il ristretto prima della detenzione e dell’internamento) e la categoria dei “congiunti conviventi” (parenti e affini che coabitavano con il detenuto, cioè i familiari ai sensi dell’art. 18, comma III, o.p.). … “in senso sociologico, la famiglia è un gruppo sociale o una unità fondamentale dell’organizzazione sociale, caratterizzato dalla residenza comune, dalla cooperazione economica e dalla
riproduzione”; mentre, nel linguaggio comune, il termine famiglia assume un senso più vasto ed è inteso “come l’insieme di tutti coloro che sono legati da un vincolo di parentela o di matrimonio, ma anche i figli naturali, gli adottivi e gli affiliati”. Ed allora, combinando i due significati, può dirsi che la locuzione familiari (e congiunti, data l’equivalenza) indica l’esistenza di un rapporto di parentela, ovvero “il rapporto che esiste tra tutti quei soggetti legati da un affectio familiare equiparabile alle categorie civilistiche dei parenti (in linea retta e collaterale) e degli affini”.
[7] Il regolamento di attuazione dell’ordinamento penitenziario è contenuto nel Decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 2000, n. 230 che ha natura regolamentare e pertanto subordinata alla legge primaria. Ciò ha sollevato dubbi di legittimità delle previsioni regolamentari restrittive del numero dei colloqui (articolo 37, comma VIII D.P.R. 230/2000 “I detenuti e gli internati usufruiscono di sei colloqui al mese. Quando si tratta di detenuti o internati per uno dei delitti previsti dal primo periodo del primo comma dell’articolo 4-bis della legge e per i quali si applichi il divieto di benefici ivi previsto, il numero di colloqui non può essere superiore a quattro al mese”) rispetto alla previsione della legge (art. 18 L. 354/1975). Dirimente dei contrasti ermeneutici è stata la Corte di Cassazione, secondo cui “le disposizioni limitative dei colloqui che riguardano i detenuti sottoposti al regime carcerario di cui all’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario, previste dall’art.37, comma VIII, e 39, comma II, del D.P.R. n.230 del 2000, sono pienamente legittime e si integrano con il regime differenziato stabilito, per esigenze di sicurezza pubblica, nei confronti di quei reclusi che, in relazione al titolo di reato, si presumono particolarmente pericolosi” (Cass I, 13079/2002; nello stesso senso Cass. SS. UU. 10.6.2003).
[8] Le sezioni detentive di alta sicurezza sono istituite con circolare del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria n.3359/5809 del 1993.
[9] L’amministrazione penitenziaria introduce il concetto di circuito penitenziario, quale riferimento logistico di ubicazione dei detenuti in carcere in considerazione del tipo di reato commesso, con la circolare n. 3359/5809 del 21 aprile 1993, avente quale oggetto “Regime penitenziario. Impiego del personale di polizia penitenziaria. Gestione decentrata democratica e partecipata dell’Amministrazione penitenziaria”. Si distingueva, allora, tra circuito penitenziario di primo livello, ossia di alta sicurezza, destinato ai detenuti più pericolosi; circuito penitenziario di secondo livello, ossia di media sicurezza, destinato alla maggioranza di detenuti che non rientrano né nel primo né nel terzo circuito; e circuito di terzo livello, ossia di custodia attenuata, destinato ai detenuti tossicodipendenti non particolarmente pericolosi. L’amministrazione penitenziaria è intervenuta nuovamente nel corso degli anni, modificando l’impianto originario. Con circolare n. 3479 del 9 luglio 1998 ha istituito il circuito ad elevato indice di vigilanza (E.I.V.). L’assegnazione a tale circuito è stata prevista per quanti rispondono dei delitti commessi con finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico mediante compimento di atti di violenza, nonché per i soggetti provenienti dal circuito di cui all’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario a seguito di revoca. È seguita la circolare n. 20 del 9 aprile 2007 relativa al “circuito penitenziario per detenuti A.S.”, integrata e richiamata dalla successiva circolare n. 3619/6069 del 21 aprile 2009, che ha eliminato il circuito ad elevato indice di vigilanza, ed ha differenziato all’interno del circuito alta sicurezza, tra “A.S. 1, A.S. 2, e A. S. 3”. Il primo sotto-circuito è dedicato al contenimento di detenuti e internati appartenenti alla criminalità organizzata di tipo mafioso, nei cui confronti sia venuto meno il decreto di applicazione del regime di cui all’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario. Il secondo sotto-circuito è dedicato ai soggetti imputati o condannati per delitti commessi con finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza (delitti di cui agli artt. 270, 210 bis, 270 ter, 270 quater, 270 quinquies, 280, 280 bis, 289 bis, 306 del codice penale). Il terzo sotto-circuito è invece dedicato alla popolazione detenuta ai sensi della precedente circolare n. 20 del 9 gennaio 2007.
La circolare 0445732 del 25.11.2011 ha trattato il circuito di media sicurezza, e il “regime ordinario aperto” ossia la detenzione in sezione aperta quale misura di favore concessa dall’amministrazione in base a valutazione discrezionale fondata sulla pericolosità del soggetto e sulla sua condotta intramuraria.
[10] La circolare del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria n.3592/6042 del 2003, in materia di colloqui visivi stabilisce che questi “si continueranno ad effettuare in appositi locali muniti di vetri o altre separazioni a tutta altezza, che non consentono il passaggio di oggetti di qualsiasi natura, tipo o dimensione”. In ogni caso deve essere garantito il chiaro ascolto tra i soggetti ammessi al colloquio e il detenuto, a tal fine si farà ricorso agli opportuni e idonei meccanismi.