di Alberto Basoalto
Certo che per Italo Svevo, come in tanti scrittori valenti, e non, che si trovarono a percorrere le strade della letteratura post unitaria, il cammino non dovette essere dei più facili. L’Italia, come la maggior parte degli stati europei affrontarono, com’è noto, il problema della costituzione di uno stato-nazione, con tutte le relative problematiche, non ultima quella linguistica. Per Italo Svevo la situazione sin dalla nascita, lo evidenziano le numerose note biografiche, appariva ancor più complessa, venendo a intrecciarsi anche con le problematiche relative all’appartenenza religiosa. Fu per questo, forse, che Aron Hector Schmitz lavoro a numerosi mediazioni e compromessi mutando, in primo luogo, il suo nome di nascita in Italo Svevo.
Antonio Gramsci in quel meraviglioso testo, forse da riscoprire compiutamente, Letteratura e vita nazionale, (parte di Quaderni dal carcere composti agli inizi degli anni ’30) così scriveva a proposito del carattere non nazional-popolare della lingua italiana:
“Forse è vero che non si è avuto il coraggio di impostare esaurientemente la quistione, (quella, in buona sintesi, dell’unità della lingua) perché da una tale impostazione rigorosamente critica e consequenziaria si temeva derivassero immediatamente pericoli vitali per la vita nazionale unitaria; questa timidezza di molti intellettuali italiani deve essere a sua volta spiegata, ed è caratteristica della nostra vita nazionale.”
In letteratura e vita nazionale, per inciso, Gramsci entra nel merito delle polemiche (tra cui quella con Montale) aperte dalla scoperta, a livello europeo, di Svevo, considerato da Joyce un autore italiano a nostra insaputa.
Gramsci, in altri passi delle Lettere, si fa poi attento linguista e antropologo:
(…) c’è una differenza di stile tra gli scritti dedicati al pubblico e gli altri, per esempio tra le lettere e le opere letterarie. Sembra spesso di aver che fare con due scrittori diversi tanta è la differenza. Nelle lettere (salvo eccezioni, come quella di D’Annunzio che fa la commedia anche allo specchio, per se stesso), nelle memorie e in generale in tutti gli scritti dedicati a poco pubblico o a se stesso, predomina la sobrietà, la semplicità, la immediatezza, mentre negli altri scritti predomina la tronfiezza, lo stile oratorio, l’ipocrisia stilistica. Questa «malattia» è talmente diffusa che si è attaccata al popolo, per il quale infatti «scrivere» significa «montare sui trampoli», mettersi a festa, «fingere» uno stile ridondante, ecc., in ogni modo esprimersi in modo diverso dal comune; e siccome il popolo non è letterato, e di letteratura conosce solo il libretto dell’opera ottocentesca, avviene che gli uomini del popolo « melodrammatizzano».
Per scrivere l’italiano nazionale occorre quindi, secondo Gramsci, salire sui trampoli, melodrammatizzare. Nell’Italia, nazione da costruire linguisticamente, per scrivere occorre fingere, non si può essere se stessi. Occorre camuffare, forzare la lingua naturale, pena, ci dice sempre Gramsci, la messa in discussione dello statu nascendi geografico, politico e linguistico. La lingua, costi quel che costi, deve corrispondere con il territorio (e qui non ci addentriamo in problematiche che hanno avuto – ed hanno – risvolti anche tragici in altre realtà). Lo stato-nazione si deve fare, anche a rischio di divenire uno stato-finzione.
Se così è, se questo è l’approccio, la tecnica e insieme lo spirito, con i quali affrontare la prosa (e lo scrivere in genere), allora, ci diceva qualche anno prima il nostro Italo Svevo:
Con ogni nostra parola toscana noi mentiamo! Se egli sapesse come raccontiamo con predilezione tutte le cose per le quali abbiamo pronta la frase e come evitiamo quelle che ci obbligherebbero di ricorrere al vocabolario! E’ proprio così che scegliamo dalla nostra vita gli episodi da notarsi. Si capisce come la nostra vita avrebbe tutt’altro aspetto se fosse detta nel nostro dialetto” .
In uno stato-nazione-finzione deve corrispondere una letteratura-nazionale-mentitrice.
Il problema di una letteratura minore in Gilles Deleuze e Félix Guattari si pone a proposito degli scritti di Kafka. Kafka sceglie di scrivere in tedesco pur essendo ceco. Kafka, secondo questi autori, si scontra con le problematiche di una letteratura, ad esempio, ebraica in Polonia o a Praga.
Sul termine minore, occorre precisare che Deleuze e Guattari intendono che “ una letteratura minore non è una letteratura d’una lingua minore, ma quella che una minoranza fa in una lingua maggiore”
Il primo carattere di questo tipo di letteratura è la sua deterritorializzazione. Kafka, ci dicono gli autori, “definisce in questi termini il vicolo cieco che impedisce agli ebrei di Praga l’accesso alla scrittura e dà alla loro letteratura qualcosa d’impossibile; impossibilità di non scrivere, impossibilità di scrivere in tedesco. Impossibilità di scrivere in un’altra lingua”.
Impossibilità di non scrivere perché la coscienza nazionale passa necessariamente attraverso la letteratura. Impossibilità di scrivere in un altra lingua è dovuta per gli ebrei praghesi alla distanza irriducibile rispetto alla primaria territorialità ceca. Infine l’impossibilità di scrivere in tedesco è la deterritorializzazione della popolazione tedesca stessa che parla una lingua staccata dalle masse. Una lingua di carta, la stessa che per Svevo mente e non è adatta ad esprimere la verità.
Il secondo carattere della letteratura minore è quello di essere una letteratura in cui tutto è politica.
Ogni atto individuale, muovendosi in spazi esigui, non può che essere anche immediatamente politico. Per Kafka anche un problema come il conflitto edipico tra genitori e figli, pur essendo un fatto individuale, assurge a collettivo.
Si tratta di “una letteratura che produce una solidarietà attiva malgrado lo scetticismo; e, se lo scrittore resta ai margini, o al di fuori della sua fragile comunità, questa situazione lo aiuta ancor più ad esprimere un’altra comunità potenziale.”
Una comunità, un individuo marginale (chissà se pensare qui all’inetto di Svevo) che si esprime dall’interno dei canoni linguistici e che potenzialmente appare rivoluzionarli.
Un passaggio successivo qui ci permettiamo di segnalare nel caso di Svevo e che ci appare di grande interesse. Ci muoviamo nei primi decenni del novecento in presenza di una novità che ha segnato la storia dell’individuo moderno: la nascita della psicanalisi. Occorre andare al fondo dell’individuo, scoprire meccanismi non coscienti per comprendere e curare. Eppure, ci dice Svevo nella Coscienza di Zeno, la psicanalisi nasce con quello che oggi definiremo un bug. Non si pone (forse perché destinata ad una platea borghese) adeguatamente il problema della lingua. I meccanismi linguistici, alla base della comunicazione tra psicanalista e paziente, e che, per forza di cose, sono al centro dell’analisi, della terapia e della cura, vengono considerati sostanzialmente neutri. L’individuo coincide con la lingua (così come il territorio nazionale) nella quale si trova ad esprimersi e, questa espressione, è diretta espressione di stati profondi dove non è prevista la possibilità di finzione. La lingua, l’associazione tra espressioni verbali non può essere altro che l’espressione autentica dell’individuo.
Ma, Zeno ci testimonia che la terapia e la cura cambiano verso se costrette ad una lingua e una scrittura omologante. Parlando e scrivendo si può fingere, ma non perché si è bugiardi: esprimendosi in dialetto, le cose avrebbero un altro aspetto, produrrebbero altre immagini. L’utilizzo di un linguaggio non naturale, imposto, in ambito terapeutico, rischia d’inserire elementi che mettono in crisi il terapeuta e inficiano il percorso di cura. Fino a far divenire la cura un ostacolo alla guarigione stessa.
Lasciamo qui, con questa considerazione finale, il genio di Italo Svevo: Svevo utilizza la letteratura minore per esprimere, un altro individuo potenziale e che sfugge ai meccanismi sociali e della cura per metterli in ridicolo, ribaltarli, farli esplodere.