di Maria Luisa Petruccelli
Io ero uno di quelli che mai andava in nessun posto senza un termometro,
una borsa d’acqua calda, un ombrello e un paracadute;
se potessi vivere di nuovo comincerei ad andare scalzo all’inizio della primavera e continuerei così fino alla fine dell’autunno.
L. Borges
Le parole di Borges hanno il sapore di promesse da fare a noi stessi, irrompendo nel nostro presente, fatto di attesa, speranza, nostalgia, paura. Un presente in cui il pensiero della morte ci accompagna ad ogni istante, rendendole impossibile sorprenderci mentre siamo intenti a piantare cavoli nel nostro orto, come Montaigne si augurava. Questo tempo sospeso con cui ci confrontiamo ci costringe a ridisegnare i confini, tra noi e il virus, tra noi e gli altri, tra noi e quel mondo che sembra aver perso i suoi tradizionali punti di riferimento, da cui ci sentiamo come sfrattati.
Confusi e smarriti, ci ritroviamo a dover ripensare l’esistenza, il come dell’“esser-ci” a partire dall’emergenza sanitaria, e così, alla ricerca di un nuovo modo di abitare il mondo, ognuno di noi prova a immaginare un percorso, ma ogni passo è incerto e la strada intrapresa sembra rimandarci sempre al punto di partenza: la nostra mappa si rivela labirinto.
Forse perché “Mappa” e “Labirinto” sono in fondo geografie esistenziali che si inseguono tra loro come a voler affermare ognuna la propria esistenza a scapito dell’altra: finito e infinito, certo e incerto, misurabile e incalcolabile.
Esatto contrario del “tutto concluso”, Labirinto è una parola che contiene e rimanda, costringe e sfugge, evocativa e claustrofobica al tempo stesso. Anche solo pronunciandola possiamo avvertire d’un tratto la sensazione di esserci infilati in un suono che ci obbliga a svoltare ora in una direzione, ora nell’altra, e che arriva alla mente con una architettura di significati che intrecciano immagini, altre parole, pensieri frammentari, in una continua interferenza tra struttura e vita.
Il labirinto dunque non è solo un luogo fisico, ma anche e soprattutto una dimensione mentale, è l’immagine del confuso e perciò in un certo senso l’unica in grado di rappresentare la complessità del periodo che stiamo vivendo. Tanti sono, dopotutto, i labirinti in cui ci infiliamo alla disperata ricerca di quella sicurezza che crediamo di trovare nella ripetizione.
Da un lato il virus, con la sua possibilità esponenziale di contagio, ha condizionato e ridefinito modi, abitudini e spazi del nostro vivere; ci costringe a cercare un equilibrio (sempre fragile nella sua oscillazione) tra una nuova distanza diventata sinonimo di protezione e un riscoperto bisogno di vicinanza reale ai tempi del virtuale. Dall’altro scopriamo di non essere immuni nemmeno all’influenza che il sovraccarico di informazioni ha su di noi: dati, statistiche, grafici, tabelle aggiornate in tempo reale su contagi e morti, ipotesi sul dopo, analisi mediche, politiche e sociologiche sul prima; teorie alternative e scenari apocalittici sovraffollano gli unici canali di contatto che ci sono rimasti col mondo esterno. Questa bulimia di informazione (unita al bisogno di esserci, di partecipare in qualche modo all’“evento”) che non si dà tempo e non dà tempo, ha come effetto quello di innalzare muri, tracciare sentieri senza inizio né fine, costruire finte porte e finte uscite. Se la casa, il solo spazio che possiamo abitare in questo momento, in ragione di ciò può rivelarsi claustrofobica come un labirinto, è quello mentale il vero labirinto con cui dobbiamo fare i conti oggi.
Avere a che fare con l’ignoto ci fa sentire inquieti, un’inquietudine amplificata dalla sensazione di essere stati privati di quelle libertà che abbiamo sempre dato per scontate: ma è davvero così? Pensiamo al paradosso dei labirinti, quello di essere allo stesso tempo sofisticate prigioni e luoghi di infinite possibilità. Cos’è questa condizione se non quella vertigine di libertà provocata dall’angoscia della scelta su cui già Kierkegaard e Heidegger si erano interrogati? E se Kierkegaard ci ricorda che è però impossibile non scegliere, perché non scegliere è comunque una scelta, Heidegger, sempre in questo intreccio di angoscia e libertà, ci avverte che ne va del nostro esser-ci, del nostro rapporto col mondo, un rapporto che ci pone allo stesso tempo dentro e fuori dal mondo, dentro come corpi e fuori come coscienza di ciò che siamo. Per non perderci nel mondo (nel doppio significato di “smarrirsi” e “diluirsi”), per non farci stordire dal labirinto, non ci resta che essere autentici, dando valore e senso, perché no, anche al labirinto stesso. Ma essere autentici significa decidere. Il labirinto non può perciò essere un rifugio, una zona franca in cui l’illusione di un tempo fermo ad un eterno presente toglie responsabilità alle nostre decisioni che, in assenza di futuro, appaiono così spogliate delle conseguenze.
Come possiamo abitare un tempo sospeso in uno spazio privo di punti di riferimento, come possiamo fare chiarezza nella confusione, dal momento che è impossibile avere una visione di insieme del labirinto standoci dentro? In questa ripetizione come metafora di eternità siamo di nuovo e sempre chiamati a scegliere: in fondo ciò che caratterizza i labirinti è il costringerci a “tornare sui nostri passi” (che poi significa aprirci al dubbio come possibilità di conoscenza).
Se non vogliamo che la nostra permanenza in questo non-luogo si trasformi in una coazione a ripetere, dobbiamo dotarci di un nuovo sguardo, a partire dalla consapevolezza che non possiamo che avere solo una prospettiva sulle cose, sugli eventi, che mai coglierà l’interezza del mondo.
Stare, restare nel labirinto, in un unico e preciso punto, farsi per un attimo completamente corpo, un corpo che diventa guscio, conchiglia, simbolo dell’essere dentro e fuori allo stesso tempo, e concede così una tregua all’esilio, per ricordarci che, pur nella irriducibile separazione tra noi e il mondo, facciamo comunque parte del quadro, che il mondo in qualche modo ci guarda e ci “riguarda”.
Ri-trovarsi così, in uno spazio costruito per perdersi, può spezzare l’incantesimo sotto cui il labirinto ci tiene e trasformarlo in incanto, nel nostro incanto di fronte alla sua architettura, dove perdersi non è più un timore ma una speranza, non un pericolo ma una opportunità.
Questo gioco di specchi e rimandi senza direzione, in cui memoria e desiderio si mescolano, ci ricorda d’un tratto che “siamo fatti di labirinti”, come ci suggerisce Gospodinov; siamo relazioni, e le relazioni sono strade vecchie e nuove, ma anche secondarie e quindi cariche di possibilità, vicoli ciechi di cui abbiamo conservato le tracce, sentieri nascosti da scoprire, curve che sfidano l’abitudine dello sguardo che vuole cogliere tutto, angoli in cui raccoglierci, stanze da arredare, corridoi che ci insegnano l’attesa, ripostigli che nascondono segreti e in cui a volte nascondiamo noi stessi, cantine e soffitte che disegnano la nostra verticalità fatta di gradini per metterci alla prova, porte da aprire, chiudere o lasciare socchiuse. Il labirinto è la prova della nostra empatia col mondo e abitare uno spazio lineare in un tempo senza intrecci significherebbe essere indifferenti a quel mondo che ora è un riassunto di nostalgia.
Siamo questo, esitazione e predisposizione allo smarrimento, ma anche e quindi allo stupore, che è vero, può essere un “angosciante stupore”, come ci dice il significato originario della parola Thauma, per via delle dure prove cui la vita ci sottopone senza preavviso, ma pur sempre uno stupore, che ci allena alla lentezza, alla sospensione del giudizio, all’accoglienza, e può donarci innumerevoli “prime volte”, proprio come il labirinto. Lo stupore può allora diventare la nostra bussola in un labirinto che sembra non averci mai abbandonato, perché generato da quel connaturato senso di abbandono che ci caratterizza. Ecco che il labirinto traduce la nostra malinconia, si fa specchio, oggi, al tempo del virus, dell’incapacità di vivere tutte le nostre possibili vite, rivelandoci che, come ci direbbe Gospodinov, siamo fatti di desideri non accaduti.
Labirinto non è “per sempre” ma “di continuo”: cercare la strada di continuo, ricostruirla passo dopo passo, ritrovarla se l’abbiamo smarrita, dotandoci di uno sguardo attento e paziente che sappia cogliere il senso della sua insensatezza se impariamo a conviverci.
Convivere col labirinto equivale allora a convivere con la malinconia, quella malinconia che per Gospodinov “non possiede una consistenza e una forma propria, ma assume la forma e la consistenza del recipiente e dello spazio che occupa.” Scopriamo così che il labirinto è la forma della nostra malinconia. Ma proprio per questo può rappresentare la nostra aspirazione ad essere più di quanto possiamo essere. E dopo esserci fatti unico corpo col labirinto, ecco che arriva lo stupore nello scoprire che se quel corpo è limitato nel tempo, la nostra immaginazione non lo è, e ciò che non è mai accaduto può essere importante quanto, e qualche volta più, di ciò che è già accaduto.