EXAGERE RIVISTA - Luglio - Agosto - Settembre 2024, n. 7-8-9 anno IX - ISSN 2531-7334

Della qualità della comunicazione

di Alessandro Bozzato

 

Un paradigma da ricercare.

La comunicazione educativa rientra nell’ambito delle buone pratiche professionali del Pedagogista. In realtà la comunicazione educativa è buona pratica di per sé riferita a qualunque ambito professionale e, va detto, è davvero difficile riuscire a differenziare la comunicazione educativa da qualunque altro tipo di comunicazione nella relazione tra umani. Nonostante l’esistenza di precise scuole e correnti disciplinari che vedono nella comunicazione stessa il fine della comunicazione, di grande interesse e con un certo seguito soprattutto nella seconda metà del ventesimo secolo – “il medium è il messaggio” sentenziava non senza ragioni Marshall Mc Luhan – si tende comunemente a differenziare il “contenuto” dalla “forma”, cioè si ritiene che ci si debba occupare e preoccupare di ciò che si vuole comunicare, indipendentemente dallo strumento usato per farlo. Come se il mezzo condizionasse l’oggetto (il “fine”) in modo superficiale e trascurabile.

E’ buona norma conoscere il mezzo per usarlo nel modo migliore, ma conoscere il mezzo il primo passo da fare è comprenderne le peculiarità e non fingere che vi sia indifferenza strumentale.

Lo stesso utilizzo di strumenti si connota, rispetto al non utilizzo, come scelta mediata. Per rendere confrontabili o verificabili (o anche falsificabili) i dati, ci si dota dotarsi di indicatori, ma gli indicatori non possono essere su basi quantitative, visto che l’oggetto è legato all’ambito educativo: ha quindi a che vedere con la qualità e la sua natura ermeneutica, spesso soggettiva.

Il valore delle scelte comportamentali viene compreso sulla base della percezione degli eventi che ci riguardano; non possiamo contare su una percezione oggettiva, non possiamo affidarci alla corretta interpretazione di ciò che accade.

È importante la capacità di discernere, ma altrettanto importante è la capacità di comprendere la possibilità che allo stesso evento (allo stesso gesto, alle stesse parole) ci sia una diversa attribuzione. L’educatore sa che la comunicazione ha un’importanza strategica nell’azione: nella definizione dei tempi, dei ruoli, e nel riconoscimento della giusta attenzione che si decide di dedicare a un argomento, a un’idea o a una persona.

L’azione educativa è azione consapevole, così come la comunicazione educativa è comunicazione finalizzata a uno o più scopi.

Nel periodo che va tra la primavera del 2020 e il momento attuale, è circolata insistentemente l’idea che la comunicazione a distanza fosse efficace quanto la comunicazione in prossimità. È chiaro che si trattava di una forzatura. Altrettanto chiara la strumentalità della comunicazione, ma come pedagogisti e comunità scientifica abbiamo il dovere di non aderire a un’idea (qualunque essa sia) senza aver esercitato prima una forma di critica nella pertinenza specifica.

L’efficacia della comunicazione

L’efficacia della comunicazione è difficilmente quantificabile: torno a sottolineare il bisogno di identificare parametri qualitativi, cioè di indicatori descrivibili, apprezzabili anche senza essere misurabili (o comunque a bassa vocazione misurativa). Questo consente un certo margine di critica da parte di chi analizza, ma non fa venir meno la ricerca di indicatori più o meno condivisi e confrontabili: le scienze del comportamento hanno il proprio terreno privilegiato nell’esperienza, e quindi nel confronto empirico si sottolinea che il racconto di un’esperienza ha un valore limitato. La Pedagogia è una scienza del comportamento e suggerisce che l’esperienza singola vale quando è in grado di consentire un raffronto dialettico e dinamico con altre esperienze condivise dalla comunità di ricerca. Il sapere ha bisogno di confronto e di mettere in circolo conoscenze e progressi.

Un’azione educativa a distanza, sia anche soltanto un’azione finalizzata alla comunicazione, non è come un’azione educativa “in presenza”. Mai. Per svariati motivi: ad esempio perché a livello di comunicazione di base ci sono differenze sostanziali tra inviare una serie di parole (espresse, scritte in lettere, cantate con o senza suoni, ripetute) e comunicarle direttamente a un interlocutore che possa cogliere – coscientemente o meno – i monimenti involontari, i cambi di dinamica e i gesti che sono parte del linguaggio non verbale e che coinvolgono attivamente tutti i partecipanti dei terreni di interazione.

Diversa efficacia.

Va detto che in alcuni casi, per alcune situazioni e avendo in mente obiettivi specifici, esiste la possibilità di valutare come più efficace una comunicazione a distanza rispetto a una comunicazione ravvicinata. È vero: in caso di comunicazioni che necessitano di impersonalità o che hanno un carattere prescrittivo e disimmetrico in senso verticale, la comunicazione telefonica, da piattaforma online o addirittura registrata, è perfetta. La distanza riduce la possibilità di un confronto e di fatto diminuisce le occasioni di interazione attiva. Diversamente da certa retorica sulla democratizzazione ottenuta con la “rivoluzione digitale”, la comunicazione a distanza non annulla le differenze, spesso tende a dare l’illusione che non ci siano. Cosa che impone quantomeno una riflessione – da effettuarsi in altri ambiti critici ed epistemologi – sulle possibili conseguenze e in definitiva anche sul presunto miglioramento che apporterebbe nella sfera delle relazioni tra individui e individui e tra persone e istituzioni.

Ad ogni modo non è nella mancanza di differenze che si misura l’efficacia di una comunicazione educativa. L’educazione contempla le differenze, tende a riconoscerle e dove possibile a valorizzarle. Per questo fingere che non ci siano differenze sostanziali tra prossimità e distanza è come fingere che presenza e assenza siano equivalenti – cosa onestamente insostenibile – mentre ammettere la differenza consente di valutarne le caratteristiche.

Apprezzare la diversa qualità è il primo passo necessario per potersi concentrare su una effettiva valutazione dei portati positivi o negativi.

Il riconoscimento di una differenza non è, di per sé, riconoscimento di maggiore o minore efficacia, così come il riconoscimento di maggiore o minore efficacia non è, di per sé, esprimibile in termini assoluti e decontestualizzabili. La comunicazione educativa è un argomento delicato che non va banalizzato da slogan o da dichiarazioni ideologiche che mischiano l’urgenza storica alla ridondanza apodittica.

Una delle difficoltà principali del Pedagogista, nell’ultimo periodo, è stata legata alla chiarezza necessaria per veicolare comunicazioni e tranquillizzazioni in merito all’uso degli strumenti deputati alla comunicazione virtuale: come per tutti gli strumenti vale il principio che “lo strumento è il medium”, e non il contenuto; ma d’altra parte si è ritenuto poi importante spiegare che non si può credere che il contenuto sia svincolato dallo strumento usato per comunicarlo, soprattutto quando uno dei contenuti è la comunicazione stessa. Il Pedagogista si adatta: questa è la verità. Ci si adatta alla situazione e al contesto, perché il ruolo lo richiede. Si rende dinamica la realtà cercando dialettiche possibili tra gli obiettivi e gli strumenti a disposizione.
E’ un compromesso con la realtà, come ogni azione educativa seria e coerente.

Esserci.

Nel corso di un gruppo di lavoro con adolescenti di mezza Europa, provenienti da situazioni di degrado (Youth with challenging background) avevo avuto l’occasione di uno scambio fitto e strutturato in modo minuzioso con una mezza dozzina di colleghi di diversa formazione. Il lavoro era piuttosto serio e si svolgeva sotto l’egida della Comunità Europea (in transizione con l’Unione Europea). Al termine di ogni giornata e di ogni laboratorio, c’era un gruppo di discussione con partecipazione democratica e con la possibilità di esprimere tutto ciò che si pensava.

Alcuni ragazzi partecipavano sempre, altri fumavano e chiacchieravano tra loro. Alcuni miei colleghi si stizzivano e richiamavano all’ordine, altri mantenevano un atteggiamento liberale al limite del lassismo.

Nel corso dei mesi si è potuto assistere a tutte le solite dinamiche dei gruppi: la creazioni di gruppi, amicizie, divisione dei ruoli, cristallizzazione di alcuni status e estrema fluidità nelle relazioni. I soliti leader, i capri espiatori, le sopraffazioni e le manifestazioni di solidarietà. Lo spirito dei gruppi. Gli adulti di riferimento (noi) erano di volta in volta i nemici, gli alleati, i controllori, le guide, gli esperti, i bastardi, “quelli che sanno”, “quelli che credono di sapere”, i superbi, gli invidiosi. Era una situazione difficile, di grande impatto emotivo e che aveva richiesto un certo investimento anche in termine di raccolta di dati e di comunicazione scientifica agli enti e alle istituzioni committenti.

Al termine dell’esperienza erano stati somministrati vari questionari a risposta e a risposta aperta. Compilati con diligenza da tutti i ragazzi e da tutti gli operatori. Non ho mai invidiato i ricercatori che si sono poi trovati a dover raccogliere quei dati e che hanno dovuto ricavarne delle linee: io sono stato presente alla prima scrematura, quella che ammucchiava i grandi gruppi sulle linee pedagogiche introiettate e le influenze formative più evidenti. I risultati ottenuti restituivano senza possibilità di fraintendimento una realtà poco mediata e immediatamente palpabile: le esperienze sedimentate e le relazioni significative erano caratterizzate dalla vicinanza e dalla partecipazione.

La richiesta verso gli adulti, declinata nei vari modi – dal desiderio all’auspicio – era che ci fossero. Molto semplicemente.

D: Qual è il compito dell’adulto?

R: Esserci

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