di Primavera Fisogni
Il diverso siamo noi. Per quanto paradossale possa sembrare questa affermazione, il concetto di ciò che diverge rispetto alle nostre coordinate si modella sulla base di chi noi siamo, della cultura che ci appartiene, delle consuetudini che consolidano le relazioni tra pari o tra abitanti di una stessa realtà politico-sociale, di una nazione. Se l’inquietudine della diversità, alla base di ogni tipo di conflitto e di stereotipo, appare impossibile da eradicare dall’animo umano, ciò dipende dall’essere una “categoria” che trova dimora nell’identità. In questo breve contributo, desidero portare a tema il disagio del trovarsi di fronte all’altro. L’altro è il diverso per eccellenza e, nel contempo, è soltanto accogliendo l’alterità dell’altro che prende forma l’incontro, l’antidoto più efficace contro la vertigine della differenza. Base del dialogo, esso è una sorta di ponte tra l’identità e la diversità. Grazie all’incontro si verifica, per usare un’immagine, il travaso delle qualità individuali, che dà vita a un “meticciato” interiore attraverso il quale – riconoscendo l’altro come parte di noi e noi stessi proiettati all’interlocutore – il divario dell’originaria diversità che ci appartiene, origine dell’angoscia originaria, va smussandosi. Prenderò brevemente in esame il pensiero di Sartre e l’episodio dell’incontro di Ulisse e Nausicaa nell’Odissea. L’incontro impossibile con l’altro in Sartre
La diversità può annientare l’identità, nella prospettiva di Sartre, uno dei paradigmi più potenti dell’antropologia del Novecento. “L’‘être-vu-par autrui’ est la vérité du ‘voir autrui’ – L’essere visto dall’altro è la verità del vedere l’altro”[1].
Se in Lévinas[2] il rapporto con l’altro si costruisce sulla base di un rovesciamento relazionale, tutto sbilanciato dalla parte dell’Autrui, in Sartre il soggetto che guarda dice “io”, ammutolendo l’altro soggetto che gli sta difronte.
L’autore di L’Être et le Néant rivendica la soggettività dell’individuo sulla base dell’intenzionalità della coscienza (Pour-Soi) e del suo non essere alcun oggetto[3], ma solo finché non si accorge di essere nello sguardo dell’altro; perché a quel punto la situazione gli sfugge di mano, finendo per destabilizzarlo.
Proviamo a figurarci la dinamica sartriana. Se prima, nel guardare qualcuno venire verso di me, vedevo un oggetto del mio mondo, ora che sono visto, non oggettivo l’altro, sono al contrario reso “oggetto” da chi mi sta guardando. Per l’imprevedibilità di quello che può succedere – dice Sartre – “io sono in pericolo – Je suis en danger”[4]. Si può capire in che senso il soggetto guardato viva questo stato di paura: fino a che si guarda negli occhi l’altro, lo si oggettivizza, e quindi si può avere una signoria nei suoi confronti; quando invece si è guardati, non si vedono più gli occhi dell’altro, almeno fino quando, il soggetto guardato, escogitando una strategia di difesa, fa dell’altro a sua volta un oggetto[5]. Ma fintanto che perdura il fenomeno dell’essere guardato, l’altro è per principio un termine che non può essere oggetto. Qui si inserisce una condizione spaziale del tutto particolare, definita la tras-mondità dell’altro. È l’esperienza di non avere mondo, non solo perché ogni oggettivazione – finché dura lo sguardo dell’altro – è impossibile a chi è guardato; ma anche per una questione spaziale. Nel non consentirmi di costituirmi gli oggetti che danno corpo alla mia esperienza del mondo, lo sguardo dell’altro mi nega la possibilità di prendere le distanze dalle cose, presupposto minimo per orientarmi e situarmi, potremmo altrimenti dire, nell’ambiente[6]. Anche chi mi sta guardando, per tutte le ragioni che abbiamo detto, è una presenza incombente, una “présence sans distance”[7]. La diversità dell’altro è dunque un pericolo. Più che mai il diverso incarna l’insieme degli attributi del nemico.
Se per Lévinas di Totalitè et Infini si apre, nell’essere ostaggio dell’altro e nella nudità del volto, realtà irriducibile, il varco della trascendenza e dell’infinito, per Sartre il soggetto guardato esperisce la libertà. Non la propria, ma quella dell’altro. “Ainsi, par le regard, j’éprouve autrui concrétement comme sujet libre et conscient qui fait qu’il y a un monde en se temporalisant vers ses propres possibilités”[8] (“Anzi, attraverso lo sguardo, sperimento l’altro concretamente come soggetto libero e cosciente che fa che ci sia un mondo, nel temporalizzarsi verso le sue proprie possibilità”). In tutti i limiti della situazione in cui il soggetto caduto nella rete del regard-regardant, si trova, affiora un margine di superamento della propria alienazione. “Et la présence sans intermédiaire de ce sujet est la condition nécessaire de toute pensée que je tenterais de former sur moi-meme”[9] (“E la presenza senza intermediario di questo soggetto è la condizione necessaria di ogni pensiero che io tenterò di formarmi su di me”).
Tutto quello che posso sapere di me, è possibile dunque attraverso lo sguardo dell’altro, che – nel guardarmi – rivela la sua assoluta libertà e, di rimando, anche i margini del mio possibile riscatto. Ciò sulla base del legame essenziale che si sperimenta in rapporto all’autrui. Se “autrui, c’est ce moi-même dont rien ne me sépare – scrive Sartre -, absolument rien, si ce n’est sa pure et totale libertè, c’est-à-dire, cette indetermination de soi-meme que seul il a à etre pour et par soi”.[10]
Cosa può succedere, a questo punto? Misrahi ha ragione quando dice che l’essenza della relazione con l’altro, in Sartre, è all’insegna del conflitto[11]. Perché, se il sorgere dell’altro – come si legge in L’Etre et le Néant – attenta il Per-sé in pieno cuore, è anche vero che il soggetto guardato, quando fa l’esperienza della libertà (dell’altro) che lo trascende, cerca di piegarla in qualche modo a sé stesso, in un atteggiamento interessato. Le vie sono note: la prima è quella che tenta di volgere a proprio profitto la libertà[12] dell’altro, attraverso l’amore; la seconda mira alla sua oggettivazione, mediante l’indifferenza o il desiderio sessuale.
Riscontriamo nell’antropologia sartriana l’impossibilità di parlare di incontro in senso proprio, se consideriamo l’incontro come uno stare di fronte in relazione. Non c’è alcuna distanza tra chi è guardato e chi guarda; benché chi guarda possa dirsi soggetto, in quanto coscienza (Per-sé), si trova a perdere questa dimensione nel momento in cui si rende conto di essere guardato. Non vi è mondo, e neppure propriamente intenzionalità, durante l’esperienza del regard-regardant. Questo rende improbabile una relazione, circostanza che richiede la sussistenza di due termini. Il guardato e il guardante sono propriamente termini? Lo sono, ci sembra di poter dire, nel loro rapporto agli oggetti: anche l’altro lo diventa quando finisce nella rete del regard altrui. In questo senso, però, il termine è spersonalizzato e la relazione interpersonale è sostanzialmente impossibile. Nemmeno l’amore, prima strategia di risposta all’altro che “attenta il Per-sé in pieno cuore”, può considerarsi autentica, perché i piani mutano ma resta identico il disequilibrio.
La forza dell’analisi di Sartre, ancora molto viva, sta nell’aver colto il rischio che l’altro – ma, si badi, un generico altro, non un Tu soggetto di relazione e protagonista di un possibile incontro – può rappresentare, in ogni istante, per l’Io. Dunque, l’aver evidenziato le forme inautentiche della relazione – di fatto non relazioni –: la sopraffazione, l’avere in ostaggio, la mancanza di rispetto. Per certo l’incontro assume, come potenzialità, anche l’andare-contro, lo scontro. Questa eventualità è certamente inscritta nella relazione.
Incontro, apertura comunicativa
Tratto originario della condizione umana, la diversità come fattore angoscioso e come ostacolo alla libertà dell’Io viene superata soltanto nella sua piena accoglienza. Quando, cioè, si di-verge da sé verso l’altro in un atteggiamento di apertura comunicativa: è sempre la domanda “chi sei?”, resa esplicita dalla parola o implicita nello sguardo, a portare il diverso alle nostre latitudini, nella modalità dell’incontro.
Nell’Odissea di Omero, Nausicaa, la figlia del re dei Feaci, incontra Ulisse non tanto in quanto lo scorge sulla spiaggia, nella confusione delle sue ancelle che hanno invece solo veduto quel naufrago, bensì quando gli si pone davanti e gli rivolge la parola. Dietro gli uomini ci sono gli dei, in Omero, e anche Nausicaa non fa eccezione; anche lei è indotta da una dea a parlare con il barbaro Ulisse (tutti i diversi lo sono, nella classicità greca e romana), tuttavia nel brano di Omero rimane intatto il senso di sorpresa che si accompagna all’incontro e che, nondimeno, rende tale quel reciproco imbattersi sulla spiaggia dei Feaci. Con molta sensibilità fenomenologica si individuano, nei versi del poeta greco, i momenti dell’incontro: il vedere, la sorpresa, l’intenzione di rivolgersi all’uomo che le sta a poca distanza.
Fatale, nel senso di cui è impregnata la tragedia classica, in cui il destino degli uomini resta pur sempre nelle mani di un manipolo di dei-burattinai, si presenta anche l’incontro di Nausicaa e di Ulisse, nel VI canto dell’Odissea. Entrambi i personaggi sono guidati da una stessa dea, Atena, che offre all’eroe di molti espedienti un lido su cui naufragare e alla figlia giovinetta del re dei Feaci, ormai nell’età delle nozze, il coraggio di esprimersi senza timori e tremori davanti a uno straniero che, seminudo, scarmigliato e coperto di salsedine, ha tutte le carte in regola per presentarsi come un pericolo. La descrizione dell’incontro vive di un’essenzialità radicale (“Si trattenne e gli stette davanti”), che nel testo greco si scarnifica ancora di più, essendo affidata a una manciata di parole: stè d’ànta skoméne[13]. A ben guardare, la dinamica dell’evento si trova tutta quanta concentrata nel primo emistichio, in quel “gli stette davanti” (stè d’ànta), che enuncia il trovarsi al cospetto di qualcuno, faccia a faccia.
Proprio per questo implicito rinvio al reciproco volgersi degli sguardi, contenuto della formula greca, non era in fondo necessario aggiungere altri riferimenti ai volti o agli occhi dei protagonisti. Stare dinanzi a qualcuno – come si coglie per altro dal verbo greco stè, a cui fa riferimento anche il nostro stare – rinvia a una postura retta, non servile o genuflessa in atto di reverenza, in cui traluce un senso di parità comunicativa, se non di ruoli sociali. Più ancora che nell’espressione greca, questa idea di “stare dinanzi” come guardarsi in faccia è presente nella formula ebraica biblica “lifnè adhonai”, tradotta generalmente come “stare al cospetto del Signore”. Quel “lifnè” significa letteralmente “alla bocca” (l, a; fnè da pe, bocca) e, nel rinviare alle labbra di chi sta davanti, in questo caso Dio, porta con sé l’idea del volto comunicativo dell’altro, che, manifestato metonimicamente in uno tratto specifico (la bocca), annuncia la disponibilità alla comunicazione.
Lo scaltro Ulisse, nel rendersi conto di essere approdato su una spiaggia straniera, aveva già iniziato a pianificare una strategia per ottenere acqua, cibo, protezione (“così s’accingeva Odisseo ad andare, benché fosse nudo/ tra le fanciulle dai riccioli belli: lo premeva il bisogno”), tuttavia egli la esprime quando incontra lo sguardo di Nausicaa. E non sceglie di manifestare il suo stato di bisogno e di disperazione nella forma dell’implorazione, abbracciandole le ginocchia, come potrebbe fare un povero nei confronti di un potente. Ulisse opta per il discorso. Quello stare dinanzi a lui della giovinetta, che si esprimeva nel guardarsi negli occhi, lo conferma nella possibilità di rivolgersi a lei con la parola, sia pure nella forma – dovuta, considerate le sue condizioni di naufrago – della preghiera.
“Si trattenne e gli stette dinanzi: e Odisseo fu incerto
se implorare la bella fanciulla prendendole le ginocchia,
o pregarla con dolci parole, così (…)”
Oltre la diversità: lo stupore dell’incontro
Ma come si supera il muro della diversità, attraverso l’incontro? È al grado zero della relazione Io-Tu che dobbiamo andare, al fattore della sorpresa.
La matrice del sorprendersi – nelle sue linee macroscopiche – consiste nella visione, di qualcosa o qualcuno; una visione rivelatrice, che nel mostrare svela tratti nuovi, non colti o compresi in precedenza. Questo particolare modo di vedere intrattiene un legame con la novità e con l’impensato (implicitamente con lo straordinario[14]). Da un lato, esso è un modo di cogliere in una veste nuova qualcosa di abituale o di già visto, o di immaginato (qualcosa che “apparendo sorprende”[15]), dall’altro il sorprendersi si accompagna a una forma di conoscenza in cui un dato inatteso irrompe azzerando o integrando ogni precedente sapere.
Proprio la dimensione comunicativa, per questo non appartenere unilateralmente all’uno o all’altro soggetto della relazione, ma a entrambi insieme, all’essere con (Jacques, Nancy) e per la propria essenziale circolarità, è deputata a superare le antinomie del rapporto interpersonale (in-contro; Io-Tu; io che ti guardo-tu che mi guardi), attingendo però ad esse il proprio vitale nutrimento.
Solo assumendo in pienezza la naturalità della dimensione comunicativa all’interno di un rapporto interpersonale, a cui perviene l’osservazione fenomenologica, si può comprendere alle radici l’intuìto legame tra l’incontro e il dialogo, il quale a sua volta mette radici nell’intesa come tensione all’altra persona (rivelatasi più originaria dello scontro) e come sforzo di comprendere, insieme, il senso stesso del trovarsi al mondo, di cui i Dialoghi di Platone restano una delle testimonianze più alte. Comunicare, essendo nei suoi tratti minimi un reciproco rivolgersi, richiede anzitutto la presenza di almeno due soggetti che si trovino a condividere un tale atteggiamento. Non generici enti, ma soggetti in senso personale, capaci di agire in modo non meccanico o istintuale, ma creativo, frutto di autodeterminazione. Posta la situazione dell’incontro, così come è emersa nel corso dell’indagine fenomenologica, ovvero come un trovarsi faccia a faccia in un atteggiamento di apertura comunicativa, soffermiamoci sul possibile fattore “meraviglia”. È evidente che l’incontro con una persona che conosco da tempo o con la quale condivido un legame di familiarità, susciterà in me una sorpresa ben diversa dall’incontro – poniamo – con un attore come George Clooney, che conosco solo per averlo visto al cinema o sui giornali.
Nel contempo, lo stupore prodotto dall’attore potrà avere un colore emotivo e un esito comunicativo diverso dalla prima situazione citata. Di questo torneremo ad occuparci. Una domanda ben più urgente richiede, a questo punto, un tentativo di risposta. Da che cosa muove la meraviglia? È chiaro che la mia vista, la mia attenzione contano parecchio. Ma non basta. Che io veda Clooney o uno sconosciuto al centro commerciale che riesce a trasmettermi, in positivo o in negativo, qualcosa, costituisce solo metà dell’esperienza dello stupore. L’altro cinquanta per cento vi entra per cooperazione dell’altro soggetto, non per il suo generico esserci, quanto per il suo tendere a me che guardo. Petrosino distingue, nella fenomenologia dello stupore: 1) l’apparire 2) dall’animarsi di ciò che appare, nel senso proprio di “venire incontro”[16]. A questo punto si può obiettare: ma come, io provo un senso di infinita meraviglia quando contemplo il mare al tramonto, e certo il mare non è una persona, né mi viene incontro come potrebbe farlo un essere. Come la mettiamo?
Nel trattare della componente dello stupore nell’incontro non si vuole affatto affermare che tale evento sia il luogo esclusivo della meraviglia, situazione emotiva, per dirla con Heidegger[17], sperimentabile anche di fronte ai propri pensieri. Il nostro obiettivo è semmai di mostrare quanto il meravigliarsi appartenga all’incontro (evento interpersonale) e quanto esso alimenti quell’atto eminentemente umano che è la comunicazione. Detto questo, una ragione nemmeno troppo misteriosa dello stupore suscitato dal mare risiede proprio nella vitalità della massa d’acqua (quasi un venirmi incontro, che potrebbe tradursi in un venirmi contro, come nel caso dello Tsunami o del maremoto di New Orleans).
Perché, dunque, la meraviglia è così peculiare dell’incontro, come abbiamo intuito e vogliamo argomentare? Perché se è vero che qualsiasi cosa, anche una crepa nel muro può farmi vedere la realtà in modo diverso, una persona è il “mondo” più prossimo a quello che sono io. Se questo individuo umano non si limita ad essere visto, come una delle tante entità che lo sguardo può comprendere, ma vi irrompe nella pienezza delle sue possibilità, cioè in modo attivo, come interlocutore, io entro in quel mondo così simile e così distante al mio. E viceversa. Nella dinamica della meraviglia si ritrovano gli stessi elementi costitutivi dell’incontro. Mosso dal vedere, lo stupore delinea un’alterità; non si darebbe stupore senza un andare verso questo “altro”, ma neppure senza la reciprocità di un simile movimento (venire incontro). Nello stupore si manifesta la tensione intenzionale riconosciuta come costitutiva della relazione e dell’incontro e in esso si svela la componente dello scontro, che ad ogni tendere si accompagna[18]. L’esame fin qui condotto configura un’idea di meraviglia non riconducibile necessariamente a ciò che è “meraviglioso”, nel senso di immenso o straordinario, né come proprio di qualcosa di fuori dal comune. Più che la portata o la stranezza di un evento o di un’entità, nell’incontro, il fattore-sorpresa consiste nella scoperta di un altro me stesso diverso da me, al quale tendo e che tende a me. L’epifania di un’alterità intenzionalmente rivolta verso il soggetto conoscente, che cos’è se non un interlocutore, un altro soggetto con il quale interagire anzitutto visivamente? Per quanta meraviglia io possa provare di fronte a un tramonto sull’Adamello o sul mare Egeo, debbo ricorrere alla mediazione del mito o della poesia per immaginare un dialogo con questi “interlocutori”.
Di fronte a questi straordinari elementi naturali, lo stupore si esprime in formule esclamative (Oh!) o in enunciati del medesimo sapore (Che spettacolo! Che meraviglia!). Che cosa succede, dal punto di vista strettamente comunicativo? Il ghiacciaio e il mare muovono il pensiero, che si articola verbalmente in proposizioni per lo più esclamative, tipiche spesso e per lo più nella pienezza di un’esperienza quanto della difficoltà di farne concetto. Enunciati di questo tipo indicano uno stato di sospensione che è tipico di un meravigliarsi suscitato da oggetti a cui appartengono i tratti del “sublime”[19].
La meraviglia che si origina nell’incontro e da esso procede nella forma della domanda, può in qualche modo presentarsi come la sorpresa originaria, in cui l’Io si ferma al Tu, riflettendosi, e viceversa. Ciascun Io conosce l’opposto Tu riconoscendolo come in parte simile e in profondità diverso da se stesso. Questo atteggiamento, alla base di una quantità di rapporti con il mondo, assume nell’incontro – come si è riconosciuto – una salienza se possibile ancora maggiore, essendo l’altra persona più vicina a me di qualsiasi altra cosa del mondo (in virtù di una consonanza essenziale, oggetto del reciproco riconoscersi) e, allo stesso tempo, meno oggettivabile di qualsiasi altra, poiché dipende da lei/lui aprirsi a me, rivelandosi. Si può a questo punto obiettare che si può provare questo genere di sorpresa anche nel caso di un incontro non interpersonale, come davanti a un quadro di De Kooning o Van Eyk, o in cima a una vetta. È certamente vero che anche un’opera d’arte interpella chi vi dirige uno sguardo intenzionale[20]. Lo stesso vale per le manifestazioni della natura: quante riflessioni sul senso dell’essere nel mondo e del rapporto con il male hanno sollecitato le catastrofi ambientali ripetute. Tuttavia la produzione di senso suscitata da questo tipo di sorpresa si ferma alla risposta che può venire da chi contempla o viene urtato dai fenomeni in questione. Ciò che rende unica la sorpresa dell’incontro interpersonale è la capacità di sviluppare un’interazione autenticamente comunicativa (essere con l’altro), di sollevare una domanda[21] e di corrispondere una risposta, che a sua volta può sollecitare un’altra riflessione e così via, potenzialmente all’infinito.
Conclusioni
Viviamo in un contesto locale che non prescinde più da quello globale. Migrazioni continue, dai fronti di guerra e dell’estrema povertà, ci inducono a confrontarci sempre di più con il diverso da noi, perché parla un’altra lingua, professa un’altra religione, vive secondo consuetudini che non ci sono familiari. La pandemia ha ulteriormente allargato lo spettro della diversità, accrescendo le distanze anziché ispirare solidarietà. Siamo più inclini a comportarci secondo il paradigma angoscioso di Sartre anziché orientarci all’accoglienza, come Nausicaa. Eppure queste due polarità consegnano un insegnamento comune, che è poi l’antidoto al conflitto. Abbiamo bisogno di farci diversi per dare senso alla nostra identità.
Bibliografia
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S. Petrosino, Lo stupore, Novara, Interlinea, 1996.
J.-P. Sartre, L’Être et le Neant, Paris, Gallimard, 1970
A. Schopenauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, Bari-Roma, Laterza, 1994.
[1] J.-P. Sartre, L’Être et le Neant, Paris, Gallimard, 1970, pag. 298.
[2] E. Lévinas (1982), Le dieu qui vient à l’idée, Vrin, Paris.
[3] Nella fenomenologia husserliana, la coscienza è presenza delle cose alla coscienza.
[4] J.-P. Sartre, L’Être et le Neant, op. cit. pag. 313.
[5] Ibidem, pag. 315
[6] Ibidem, pag. 316 (“En particulier, le regard d’autrui – qui est le regard-regardant et non le regard-regardé – nie mes distances aux objects et déplie ses distances propres”.
[7] Ibidem
[8] Ibidem, pag. 317
[9] Ibidem
[10] Ibidem
[11] R. Misrahi, Qui est l’autre?, Paris, Armand Colin, 1999, pag. 23.
[12] La libertà è assoluta se non esiste un termine di riferimento, se l’altro non è termine di riferimento, come accade nella teoria di Sartre.
[13] Al verso 141, si legge: sth d’anta scomenh, tradotto in “Si trattenne e gli stette dinanzi”, in Omero, Odissea, traduzione di G. A. Privitera, Fondazione Lorenzo Valla, Milano, Mondadori, 2007, vol. II, canto VI.
[14] Scrive Heidegger: “Lo stupirsi, piuttosto, fa sì che l’inconsueto salga all’altezza dello straordinario, all’altezza di quel che sta al di sopra delle capacità abituali e che porta in sé l’esigenza di una propria determinazione di rango”. In Domande fondamentali della filosofia. Selezione di ‘problemi’ della ‘logica’, Milano, Mursia, 1988, pag. 122.
[15] Così Petrosino: “(…) ciò che si manifesta nello stupore non solo appare, ma apparendo sorprende; vi è qui una luminosità che coglie di sorpresa e colpisce, come se all’improvviso, in seno alla manifestazione, si aprisse una breccia e ciò che appare si animasse venendo inaspettatamente incontro al soggetto”. In S. Petrosino, Lo stupore, Novara, Interlinea, 1996.
[16] “Il ‘venire incontro’ è quanto definisce, a questo primo livello, il fattore più sorprendente della sorpresa (…): nello stupore infatti non vi è il solo apparire, ma anche l’animarsi di ciò che appare nel suo stesso apparire, vi è come un suo avanzamento che determina un’inversione inattesa della direzione abituale che dal soggetto va verso l’oggetto, un’inquietudine nell’approccio abituale alla realtà: la sorpresa è qui essenzialmente un esser sorpresi”. In S. Petrosino, Lo stupore, op. cit. pag. 70
[17] La Befindlickheit, o “situazione emotiva” (traducibile anche con “sentirsi situato” e “situatività”) è tematizzata nei § 29, 30 e 40 di Sein und Zeit.In M. Heidegger, Essere e tempo, Milano, Longanesi, 2005 (nuova edizione italiana a cura di F. Volpi).
[18] “Lo stupore, lungi dall’essere quell’esperienza prevalentemente rassicurante e positiva che pareva configurarsi in un primo momento, reca con sé una potenziale insidia: nell’improvviso manifestarsi di qualcosa, infatti, si coglie un effetto-sorpresa che sfugge al controllo e alla previsione”. In P. Fisogni, Il dolore e la sofferenza, Firenze, Firenze Libri, 2002, pag. 61.
[19] Si veda il concetto di “sublime”, oltre che nella Critica del giudizio di Kant (Kritik der Urtheilskraft, Köln, Könemann, 1995), anche nel trattato dello Pseudo-Longino, Del sublime, Milano, Rizzoli, 2004 e in A. Schopenauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, Bari-Roma, Laterza, 1994.
[20] Per J.-L. Nancy, un ritratto dipinto configura una situazione paradossale. Infatti, è vero che in un senso esso mi guarda, ma in quanto “presenza di un’assenza” – in quanto sguardo vuoto, o fisso si potrebbe dire – di fatto il ritratto non guarda niente e nessuno. Un’idea, questa, che Nancy propaga allo stesso soggetto, quando afferma: “regarder rien est au premier abord la contradiction intime du sujet”. In Le regard du portrait, op. cit., pag. 74.
[21] Per Petrosino la domanda originaria dello stupore è la seguente: “perché io?” e nasce da un’esperienza di dismisura (“Lo stupore è una forma di illuminazione secondo dismisura (…) coglie la dismisura come assolutamente inaspettata rispetto alla propria misura”. In S. Petrosino, Visione e desiderio, op. cit., pag. 201-202.