di Giacomo Dallari
Quando si parla di educazione, soprattutto quando questa assume i connotati dell’interculturalità, si deve necessariamente muovere da una consapevolezza: l’attività educativa è culturalmente condizionata. Essa, cioè, trasmette, tramanda e rispecchia determinati valori che caratterizzano una cultura di riferimento. Questo fatto, ovviamente, implica un rischio congenito a tale condizione: il pericolo di una forma di educazione monoculturale che cristallizza e alimenta stereotipi, favorisce l’intolleranza e rallenta la sviluppo di una società più giusta, inclusiva e democratica.
L’educazione interculturale si può definire come quel settore dell’educazione che cerca di trasmettere tutti quei codici culturali, diversi e “altri” rispetto alla cultura dominante, con lo scopo di favorire la convivenza tra culture diverse e, soprattutto, in ottica di rispetto e tutela delle diverse identità che entrano in gioco. Come tale l’educazione interculturale non appare come un qualcosa di possibile o secondario rispetto allo sviluppo sociale e umano di un popolo, ma come una necessità che si avverte indipendentemente dalle opinioni su quella specifica cultura o su un’altra.
Le scienze umane, da sempre, hanno avvertito la necessità di interrogarsi sull’incontro con l’altro, sui contenuti che si mettono in gioco, sulle dinamiche che si instaurano e sulle strategie che possono implementare e aiutare il processo di accoglienza e convivenza. Nel mondo occidentale è prevalso un atteggiamento di assimilazione che prevede l’attivazione di percorsi di inserimento progressivo di individui immigrati nella cultura dominante, soprattutto per quanto riguarda i bambini. La scuola, infatti, è il luogo privilegiato per costruire l’impalcatura di una società multiculturale, accogliente e dinamica. «Sono le condizioni di vita – scrive a questo proposito Anna Oliverio Ferraris – e i messaggi che provengono dagli adulti e dai media , che poi vengono filtrati e trasmessi anche attraverso i coetanei, ad influire sui bambini ed è la cultura, e quindi la scuola, il grande strumento di lotta contro il razzismo» (Oliverio Ferraris, 1994, p.33).
Secondo la psicologa italiana, infatti, è possibile combattere il razzismo e i pregiudizi di cui si nutre proprio partendo dalla prima linea di battaglia, cioè la scuola nella quale è opportuno agire su più direzioni. L’esempio e l’imitazione, in quanto forme di apprendimento forti e durature, possono dimostrarsi utili strumenti per combattere le forme di discriminazione e di intolleranza. L’autrice, quindi, riconosce un ruolo basilare all’esempio che il mondo degli adulti fornisce ai bambini attribuendo all’imitazione di comportamenti inclusivi una funzione di primo piano nella costruzione di una società realmente interculturale. «I pregiudizi – scrive ancora Anna Olivero Ferraris – nascono in assenza di conoscenze corrette» (Oliverio Ferraris, 1994, p.33). È opportuno quindi combattere il razzismo attraverso percorsi educativi e pedagogici che sappiano rispondere alla necessità di una forma di sapere e di conoscenza corretta circa la questioni fondamentali quali, ad esempio, l’assenza di prove che giustifichino la superiorità di un gruppo rispetto ad un altro, l’esistenza di prove a favore del fatto che tra gli individui provenienti da etnie differenti esistano più similitudini che differenze e l’interesse che può scaturire nel comprendere i diversi usi e costumi di un gruppo rispetto al proprio. Tutto ciò, ovviamente, prevede che tra i gruppi ci sia un contatto ed una forma di cooperazione che «dà i suoi frutti migliori quando i bambini e i ragazzi, impegnati in un obiettivo comune, devono congiungere le loro energie e i loro sforzi» (Oliverio Ferraris, 1994, p.33). Le direzioni che la psicologa e psicoterapeuta italiana indica non possono certo trovare la loro piena realizzazione se non inserite in un’ottica educativa e pedagogica in grado di offrire momenti di incontro e confronto basati sull’empatia, cioè su momenti che consentano ai bambini e ai ragazzi di “vedere” il problema da più punti di vista e da più angolazioni diverse ma non per questo inconciliabili.
La necessità dell’interculturalità ha così incoraggiato la presenza, nei curricoli scolastici, di attività mirate all’accoglienza quali, ad esempio, l’introduzione nel nuovo ambiente di un bambino proveniente da una cultura differente, l’attenzione al suo processo di adattamento e al suo benessere psicologico, il sostegno al suo cammino di crescita, l’apertura verso l’altro e gli altri e l’assunzione, da parte di tutti, di una cittadinanza multiculturale che presuppone necessariamente una forma mentis multiculturale. Una buona educazione presuppone la creazione di un clima all’interno del quale le differenze non siano solo compensate, ma inserite in un sistema di significati che possano essere compresi e trasportati, modificati e reinseriti in nuovi contesti accettando così i racconti diversi e le narrazioni insolite. Ciò richiede innanzitutto una capacità di ascolto che sappia porre l’attenzione alle tante domande di accoglienza che nascono dalle tante e diverse storie di vita vissuta. L’educazione interculturale è portatrice di una cultura delle differenze, in virtù della quale la scuola e le diverse agenzie educative si fanno responsabili dell’effettiva attuazione del diritto alla differenza, basato sulla capacità di entrare in contatto con l’altro, sulle capacità di dialogo e di scambio, sulla conoscenza e sulla comprensione tra i membri di una cultura differente.
Secondo il pedagogista Duccio Demetrio, infatti, l’interculturalità è una condizione che nasce quando un gruppo, dotato dei propri codici culturali, entra in contatto volontariamente con un altro gruppo per una conoscenza reciproca, senza la quale non è possibile immaginare un apprezzamento ed un rispetto reciproco. Duccio Demetrio, a questo proposito, elenca una serie di possibili approcci alla differenza culturale, al fine di offrire agli insegnanti, agli operatori sociali, agli educatori e ai genitori una gamma di proposte e di percorsi educativi e didattici volti a promuovere non tanto e non solo l’accoglienza come fatto a se stante, ma un vero e proprio scambio di rappresentazioni del mondo, di storie e di racconti che possono condurre alla scoperta di inaspettate e impensate affinità. «Il racconto di storie – scrive il pedagogista, filosofo e accademico italiano – stimola attenzione, curiosità, genera quel senso del lontano, del mitico e del fiabesco che prepara al riconoscimento ed evoca lo scambio di storie» (Demetrio, 1997, p.37). La narrazione è un prerequisito, o come preferisce definirlo Demetrio il primo momento che stimola la conoscenza reciproca, che struttura e prepara all’incontro con l’altro: «potrà variare il contenuto o farsi più impegnativo, ma l’interculturalità entra in classe quando le storie, raccontate a turno, arricchiscono tutti di un po’ di sapere in più» (Demetrio, 1997, p.37). Tra educazione e narrazione, dunque, non esiste una vera e propria differenza se non stilistica e formale: sia l’educazione che la narrazione, infatti, prima di essere solo arti, tecniche o mestieri, rivestono un ruolo sociale. In ogni cultura si narra per educare, si raccontano e si leggono storie di altre persone, di altri luoghi in cui gli eventi si susseguono e si intrecciano all’interno di cornici concettuali molto diverse. È altresì vero che la narrazione altro non è che un tentativo di rendere noto uno o più unità di significato (Demetrio, 2012) dotate di un ordine interno e l’educazione, in questa dimensione, aggiunge alla narrazione e al narratore uno scopo puramente pedagogico che, da semplice attività di intrattenimento, diviene stimolo per apprendimenti cognitivi, affettivi e relazionali grazie alla sua particolare facoltà di coinvolgere, indirizzare, attrarre, muovere e provocare imitazioni. L’educazione e la narrazione sono pertanto due tensioni generative di cambiamento (Demetrio, 2012) e sono opportunità conoscitive, accumunate da una funzione pedagogica.
L’autore va ben oltre e supera l’atteggiamento meramente interculturale per approdare ad un movimento transculturale che, di fatto, attraversa ogni cultura. Emigrare, infatti, è sinonimo di transitare, cioè passare da una condizione ad un’altra e in questo movimento vi è, naturalmente, una forma di educazione spontanea che nasce o per necessità o per adattamento. Transitare è passare attraverso, oltrepassare e, in ultimo, sopravvivere. Tale trasformazione non può essere garantita unicamente dagli eventi e dalle circostanze, ma necessita di una forma intenzionale di educazione che possa facilitare e generare il cambiamento. «I nostri bambini – scrive Duccio Demetrio – devono trovare occasioni significative per imparare ad entrare , a mettersi nei panni, a capire in profondità con chi stanno studiando e giocando, con persone che studiano e giocano in altro modo» (Demetrio, 1997,p.40). L’educazione tranculturale implica sforzo e una progettualità che sappia mettere in gioco non solo le strategie atte all’inclusione, ma anche le identità che sono in gioco le quali, a differenza degli usi e dei costumi, non conoscono differenze né confini.
Bibliografia
– Anna Oliverio Ferraris, Il razzismo tra bambini, In Insegnare, Milano, 1994.
– Duccio Demetrio (a cura di), Educare è narrare. Le teorie, le pratiche, la cura, Mimesis, Milano, 2012.
– Duccio Demetrio, Agenda interculturale. Quotidianità e immigrazione a scuola. Idee per chi inizia, Maltemi, Roma, 1997.