di Caterina Fratesi
La questione della rielaborazione della memoria ebraica della Shoah è inevitabilmente connessa con i delicati meccanismi psicologici di elaborazione del lutto, individuale e collettivo. Questi processi, tuttavia, s’aggrovigliano con le vicende politiche e storiche del post-guerra. La questione è quindi complessa e coinvolge il problema dell’oblio, dibattito storiografico, dinamiche di potere, lutto comunitario[1].
All’indomani della guerra non si trova alcuno spazio per la memoria ebraica: le vicende della Shoah diverranno oggetto di discussione e rappresentazione molto tardi. Questa primissima fase si contraddistingue per l’attuarsi di una serie di meccanismi del diniego, di difesa e di rimozione, individuale e collettiva. In Italia rallentamenti e resistenze caratterizzato il processo giuridico d’abolizione della legge razziale, effettiva col decreto del 20 gennaio 1944[2]. Nel 1947 l’Editrice Einaudi nega a Primo Levi (1919-1987) la pubblicazione di Se questo è un uomo[3], per poi ritornare sui suoi passi solo dieci anni più tardi[4]. Solo nel 1951 verrà organizzata una prima manifestazione in memoria delle vittime della Shoah a Roma, città che al tempo ospitava il 43% della popolazione ebraica italiana[5]. Comincia così una primissima fase di rielaborazione che sollecita la comunità alla celebrazione dei nomi delle vittime: è qui che «la memoria si fa memoriale»[6].
Contestualmente la costituzione dello Stato d’Israele, fortemente incentivata dall’Unione Sovietica – che a tal proposito si pronunciò favorevolmente alla conferenza dell’ONU del 1948 – fu intesa come degna ricompensa alla strage.
Con il passare naturale del tempo la strage diventa passato e i nomi delle vittime si perdono nel mito. Trascorso un decennio, la fase di incubazione della memoria comincia la sua fine e si inaugura una tradizione di studi sociologici, psicanalitici e filosofici sul trauma della Shoah, sull’irrazionalismo e sulla natura umana: a quest’ultimo tema si riferiscono una serie di opere che riflettono la necessità di riconoscere nelle vicende naziste il comportamento umano, di integrare la natura della strage nella natura dell’umanità. Risale al 1961 il famoso esperimento dello psicologo Stanley Milgram (1933-1984) sull’obbedienza, capace di dimostrare come la sottomissione all’autorità funga da alibi per la coscienza, legittimando l’individuo a compiere violenza sul prossimo[7]. Di due anni posteriore (1963) la pubblicazione de La banalità del male di Hannah Arendt (1906-1975)[8]. Particolarmente significative per questo discorso sono però le raccolte di testimonianze, racconti, storie di vita, che compaiono a partire dalla fine degli anni 1970 e poi per il resto degli anni 1980, fino ad oggi. Un esempio valga per tutti: al 1986 risale la pubblicazione di Memorie ebraiche, il magistrale lavoro degli storici Lucette Valensi (1936-) e Nathan Wachtel (1935-). Il testo consiste in una raccolta di interviste a cinquanta personaggi anonimi finalmente emigrati in Francia dai luoghi più disparati. Solo secondarie risultano in realtà le vicende della Storia, talvolta appena distinguibili sullo sfondo delle singole storie di vita: Memorie ebraiche è in realtà un lavoro di «fenomenologia della quotidianità»[9] ove racconto personale e familiare si mescola ed entra in relazione con la più ampia memoria collettiva. In questi racconti risaltano le migrazioni (anche interiori) e soprattutto le festività, le ricorrenze religiose e con esse le tradizioni alimentari; quasi sempre un ruolo importante è riconosciuto alla solidarietà che lega gli abitanti del quartiere. Memorie ebraiche mostra al lettore che la memoria – lungi dall’identificarsi con la mera autobiografia (o nostalgia) – si configuri come attività rivitalizzante che ha in sé potenzialità di guida per il futuro. La memoria è in perpetua relazione sinergica con il suo contrario: la storia ebraica riesumata è soprattutto speranza, e contiene in sé i germi dell’avvenire[10]. A questo proposito può essere individuato ciò che essenzialmente differenzia il “lavoro della memoria” dal lavoro storiografico il quale, piuttosto, mira a ricostruire il passato nella maniera il più possibile oggettiva, limitando le facili influenze dello sguardo retrospettivo; le due posizioni rimangono però in stretto legame, influenzandosi l’un l’altra con gli immaginari che riescono a produrre[11]. Il lavoro di Wachtel e Valensi si conclude con il ricordo del genocidio, il quale costituisce il punto di convergenza di tutte le storie ma anche momento di assoluta divergenza, esso segna un divario, la fine del “mondo di prima”[12]. D’altra parte l’elaborazione del lutto comporta anche la perdita di una parte di se stessi[13].
Nei casi di genocidio l’elaborazione del lutto risulta drammaticamente complessa. Il Dizionario di psicologia definisce il lutto «uno stato psicologico conseguente alla perdita di un oggetto significativo che ha fatto parte integrante dell’esistenza. La perdita può essere di un oggetto esterno, come la morte di una persona, la separazione geografica, l’abbandono di un luogo, o interno, come il chiudersi di una prospettiva»[14]. Elaborare il lutto significa metabolizzare una separazione assoluta, definitiva e necessaria; può in gran parte essere definito come un processo di adattamento alla mancanza[15]. Come sistematizzato dalla psichiatra svizzera Elisabeth Kübler-Ross (1926-2004) nel suo lavoro-guida sui malati terminali[16], tale processo comincia da una prima fase di negazione e procede attraverso quattro ulteriori fasi che non devono necessariamente susseguirsi, ma possono scavalcarsi, coesistere, finire e ricominciare[17]. Lo stesso Freud (1856-1939) definiva diniego il primo stadio del «lavoro del lutto»[18], che sempre principia dall’incapacità di leggere adeguatamente la realtà, dalla repulsione verso la perdita, dal disconoscimento della separazione; questo può anche significare il desiderio manifesto di entrare a propria volta nel regno dei morti[19]. Così accade nei primi anni del post-guerra, quando la questione ebraica appare negata, dimenticata. Secondo Freud la morte è qualcosa di incomprensibile di cui l’uomo non fa mai esperienza, se non attraverso l’immaginazione e l’esterna osservazione; ne conclude che ognuno di noi sia fondamentalmente convinto della propria immortalità[20]. Jaspers (1883-1969) la definisce una situazione decisiva ospitata dall’esistenza[21]. Per Heidegger (1889-1976) la morte è la «possibilità dell’impossibilità»[22], ossia la possibilità di esperire qualcosa proprio nel momento in cui è impossibile ogni esperienza, nel momento del trapasso; e l’uomo – l’esserci – sarebbe pienamente consapevole della propria finitezza– del suo essere-per-la-morte –: morire non è la sua fine ma un suo momento[23]. Emmanuel Lévinas (1906-1995) – filosofo di origine ebraica, vittima di persecuzione – inverte i termini dell’equazione heideggeriana e definisce la morte «l’impossibilità di ogni possibilità»[24], un evento imprevedibile, assoluto, che detta la fine angosciosa del tempo proprio, qualcosa che «è sempre uno scandalo e in tal senso, sempre trascendente il mondo»[25]. La morte è il momento esperienziale della non-esperienza assoluta e nessuno ne può portare testimonianza; essa coinvolge solo la propria fatticità. Ne consegue, però, che nessuno fa veramente esperienza della propria morte, ma solamente del suo sentore e della certezza della morte altrui: in Lévinas «è la morte dell’altro di cui io sono responsabile al punto di includermi nella morte»[26]. Ma anche la morte altrui non dà senso al morire, che rimane sempre, più che un problema, un mistero[27]. Dall’impossibilità di considerare la morte in sé parte una riflessione antropologica che fa del trapasso un atto interumano di cesura, il quale dunque necessita per sua natura di essere pensato in rapporto agli altri, anche se è vero che “si muore soli”. Nel Dizionario si afferma appunto che «Dal punto di vista psicologico, la morte non è interessante come evento fisico finale, ma come anticipazione»[28]: sono le immagini della morte, i suoi intendimenti culturali, attraverso i quali l’uomo la rappresenta, la pensa, la organizza e la decide. È dal repertorio culturale e religioso che si seleziona quel prezioso materiale – un alfabeto del senso – attraverso il quale vivere, manifestare e rielaborare il lutto. Imprescindibile dunque la presenza di una comunità di appartenenza che ne riconosca la natura, partecipi ai rituali, si faccia testimone della perdita.
Ma le circostanze del genocidio sono eccezionali e impediscono il «lavoro del lutto»: esso acquisisce una dimensione collettiva[29]. Dopo la guerra non c’è praticamente famiglia ebraica, in Europa, che non sia stata in qualche modo colpita. Si è inoltre ignoranti rispetto il luogo e la circostanza della morte dei cari, di cui non si è mai visto nemmeno il cadavere: così ricorda Mathilde R., nome fittizio di una delle intervistate di Valensi e Wachtel, a proposito di una parente: «Avevamo una vaga speranza [del suo ritorno]; devo dire che non ho mai portato il lutto per quella zia; del resto, penso che non ci sia niente di più difficile che essere in lutto per qualcuno di cui non si è visto il cadavere»[30]. Per i primi anni post-bellici è forte anche la prospettiva del ritorno dei familiari, una speranza illusoria, un «segreto indicibile»[31] che condanna le comunità ebraiche ad una temporanea nevrosi collettiva e ostacola profondamente ogni processo di rielaborazione (una condizione analoga a quella dei desaparecidos argentini[32]). Quando il “lavoro del lutto” è impedito in principio – e i superstiti continuano a vivere l’ultimo momento in cui hanno visto i cari («non gli ho neppure detto arrivederci»[33]) – è destinato a proiettarsi in eterno: questo è il caso della melanconia[34]. La perdita è inaccettabile e l’unica prospettiva è quella della negazione continua.
Il ritorno dei superstiti e la circolazione di informazioni immagini costituiscono la prova di verità di un sospetto che superava la capacità di comprensione umana. I redivivi portano con loro anche alcuni segni dei parenti, oppure la certezza della loro dipartita («ti posso dire che Avrom non tornerà. […] L’ho sotterrato io stesso»[35]).
Se rielaborare è impossibile e ricordare troppo doloroso, è allora necessario dimenticare: di questo s’illudono molti sopravvissuti, vinti e vincitori, all’indomani della guerra, tentando come possono di tornare alle loro vite. Sottostimare la portata psicologica dei fatti, pur non negandoli nella loro storicità, è ciò che più si avvicina alla negazione ed ha l’esito di rendere più sopportabile la degradazione dell’Io. Ma la reale integrazione – del proprio Io, della comunità, di un intero gruppo etnico – è possibile solo a seguito della realizzazione della gravità del proprio trauma, solo se si guarda in faccia la realtà. Coloro che tentano la cecità, sebbene sembrino condurre una vita regolare, sono in verità profondamente paralizzati e privi di forze vitali[36]: a riprova di quanto detto sopra, la mancanza di ricordi coincide con l’assenza di progettualità, di fiducia nel futuro. Il trauma non elaborato – dunque non detto, indicibile – risulta inoltre involontariamente ereditabile, acquisendo le forme psicosomatiche degli incubi e di sindromi non solo psicologiche. Secondo l’approccio psicogenealogico, il segreto indicibile diviene una traccia familiare che rischia di manifestarsi sui discendenti, come una colpa[37].
Il fatto che sia stato causato da un agente umano, direttamente o indirettamente, influenza in modo peggiorativo la gravità del trauma psicologico[38]. Chi ricorda ne avverte la profondità e sembra costretto a fare i conti con il senso di colpa e di responsabilità. Nei racconti dei redivivi l’elemento essenziale è la fortuna: un contatto, un nascondiglio, la propria assenza al momento giusto («io non andavo mai in quella piazza. Per questo l’ho scampata»[39]). Qualunque ne sia la natura, di questa fortuna il sopravvissuto si sente immeritevole: essa si accompagna alla certezza che la propria vita, ingiustamente salva a discapito di altre, debba avere un senso. I superstiti sono tormentati dal “perché” del loro vivere, una domanda che s’incide nella personalità del soggetto e causa pensiero ossessivo[40]. I sensi di colpa dei sopravvissuti sono completamente irrazionali e dunque particolarmente complicati da combattere[41]. Essi inoltre impediscono di realizzare l’autenticità delle cose[42] e prendono la forma dell’omaggio ai morti, una prova di dedizione[43]. L’incapacità di estinguerli può anche spingere a trovare sollievo nel suicidio.
Questa responsabilità/senso di colpa è quella che spingerà Lévinas a costruire un interno impianto filosofico-metafisico incentrato sulla natura etica dell’uomo. Egli fu profondamente colpito dalle vicende della guerra e sentirà sempre l’onere di essere sopravvissuto al campo di prigionia, in cui venne internato nel 1941, tanto da fare dell’ebreo una vera e propria stato dell’essere, una categoria dell’umano. Nella filosofia lévinasiana la via verso il Dio ebraico passa per la relazione etica, la relazione in cui l’uomo, guardando in faccia l’altro, trova nel suo volto l’infinito. Tale infinito impedisce la violenza, l’omicidio; ma la condizione per il rivelarsi dell’infinito è di guardare l’altro “in faccia”, ponendosi “di fronte”: in guerra l’altro si guarda solamente di lato[44]. È forse un altro modo per postulare la presenza di Dio nell’Esodo, ma la sua completa assenza ad Aushwitz[45]: la stessa sopravvivenza dell’ebraismo alla Shoah è in sé un fatto eccezionale, che difficilmente si sarebbe verificato senza il culto delle memorie e la nascita dello Stato d’Israele[46].
Per i superstiti è necessario non solo ricordare, ma anche perdonare. La questione è evidente nella storia di Robert S., professione dentista, che appena saputa certa la morte dei propri genitori ad Aushwitz immagina di operare un prigioniero tedesco senza anestesia: «Mi sono ripreso. Ho fatto l’iniezione e poi l’intervento. Per mio padre non avrei fatto lavoro migliore»[47]. Il perdono è reale solo vincendo la fase della rabbia, ma soprattutto è possibile solo se il ricordo non diventa a sua volta una colpa: il 34% degli italiani sostiene che gli ebrei soffrano di vittimismo[48]. La difficoltà e responsabilità di ricordare è un compito di tutti, mentre il “cannibalismo delle memorie” rischia sempre il ritorno del passato; rischia, cioè, una rinnovata identificazione di un altro che diventa altro dall’essere umano: un’alterità che nel 1942 era già confezionata e oggettivata in alcuni segni materiali riconoscibili.
La costituzione dello Stato d’Israele è riuscita effettivamente a riempire un vuoto. I fatti, anche recenti, della guerra arabo-israeliana, scatenano tuttavia una serie di reazioni pubbliche che alimentano la retorica delle «vittime che si fanno carnefici»[49]. Questi atteggiamenti largamente diffusi, oltre che denunciare il mancato superamento della confusione tra Stato israeliano ed ebraismo, rischiano di legittimare lo stereotipo negativo dell’ebreo “come tipo umano”, uno stereotipo ormai definitivamente riabilitato dopo il periodo di “tabù dell’antiebraismo” caratteristico dei primi anni post-bellici. «lo Stato degli ebrei e diventato l’ebreo degli Stati»[50] significa non già discutere sul dovere di critica, ma riflettere sulle forme che assume[51]. La questione problematizza certe posizioni di revisionismo storico il cui rischio latente è sempre quello di minimizzare un massacro[52].
Con la rielaborazione della memoria e del lutto nascono non solo grandi raccolte di autobiografie, cronache e racconti, ma anche i Yisker-biher, i “libri del ricordo”. Questo genere letterario (una «biblioteca di pietre tombali»[53]) raccoglie più di cinquecento testimonianze spontanee dei sopravvissuti, scritte soprattutto in yiddish, e conosce l’apice di produzione tra il 1965 e il 1975[54].
L’ultima fase del lutto è quella dell’accettazione: l’individuo realizza la gravità del proprio trauma e “sceglie” di tornare a vivere. Il defunto, di cui si è definitivamente realizzata la scomparsa, viene tuttavia interiorizzato nella sua essenza, in modo che esso possa continuare a vivere attraverso pensieri e azioni dei suoi cari[55]. È una strategia di esorcizzazione della morte che conferma l’inestinguibilità della solidarietà umana: anche colui che trapassa è chiamato in comunione e non abbandona la società dei vivi. Esiste un concetto ebraico per questo: il dibbuk è l’anima di quel morto che, non trovando pace nell’aldilà, s’immerge nel corpo dei vivi; la sua intenzione può essere il tormento, ma anche la rivelazione[56].
Ascoltare e ricordare (shemà e yiskòr) – i due poli della testimonianza – sono due attitudini strutturali dell’ebraismo[57]. Il ritardo nell’elaborazione del lutto ebraico non riguarda solo gli ebrei, ma una generazione tutta fino all’intero mondo occidentale. Non a caso con la memoria ebraica comincia anche la rivitalizzazione di altre memorie. Sebbene detta memoria riguardi una minoranza etnica, è chiaro che per sua natura coinvolge e continua ad interrogare l’intera umanità.
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Biografia e Sitografia
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[1] La presente riflessione nasce dal ciclo di seminari Memoria ‘Ufficiale’, Scrittura Storica e Processi Identitari in età Contemporanea tra Rimozione e Ipertrofia tenuto dall’Università di Bologna.
[2] Archivio Storico della Comunità Ebraica di Roma (a cura di), La comunità ebraica di Roma nel secondo dopoguerra – Economia e società (1945-1965), Roma: Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura di Roma 2007, pp. 23-35.
[3] P. Levi, Se questo è un uomo, Torno: F. de Silva 1947.
[4] D. Meghnagi, “La memoria del trauma della Shoah nella costruzione dell’identità europea”, International Journal of Psychoanalysis and Education, vol. 1 n. 2 (2009), pp. 187-188.
[5] Archivio Storico della Comunità Ebraica di Roma (a cura di), La comunità ebraica di Roma, op. cit., p. 98.
[6] L. Valensi – N. Wachtel, Memorie ebraiche, Torino: Einaudi 1996, p. 350 [ed. or. Mémoires juives, Paris: Éditions Gallimard 1986].
[7] Enciclopedia Britannica – Stanley Milgram, URL: https://www.britannica.com/biography/Stanley-Milgram [ultimo accesso: 29-06-2021].
[8] H. Arendt, La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme, Milano: Feltrinelli 1964 [ed. or. Eichmann in Jerusalem: a Report on the Banality of Evil, London: Faber and Faber 1963].
[9] A. Cavaglion, Introduzione, in (Lucette – Valensi) Memorie Ebraiche, op. cit., p. IX.
[10] Ivi, p. VIII.
[11] A. Castaldini, “Nuove Prospettive per la storiografia sull’ebraismo in età moderna”, Studia Universitatis Babes-Boyai. Studia Europea, Vol. 53 Fasc. 2 (2008), p. 5.
[12] L. Valensi – N. Wachtel, Memorie ebraiche, op. cit., p. 316.
[13] A. A. Schützenberg – E. Bissone Jeufroy, Uscire dal lutto. Superare la propria tristezza e imparare di nuovo a vivere, Roma: Di Renzo Editore 2011, p. 73 [ed. or. Sortir du deuil – Surmonter son chagrin et réapprendre à vivre, Paris: Editions Payot & Rivages 2005].
[14] U. Galimberti, Dizionario di Psicologia 2 (edo-pan), Roma: L’Espresso 2006, p. 486.
[15] A.A. Schützenberg – E. Bissone Jeufroy, Uscire dal lutto, op. cit., p. 54.
[16] E. Kübler-Ross, La morte e il morire, Assisi: Cittadella 1976 [ed. or. On Death and Dying. What the Dying have to Teach Doctors, Nurses, Clergy and their own Families, New York: Macmillan 1969].
[17] A.A. Schützenberg – E. Bissone Jeufroy, Uscire dal lutto, op. cit., p. 54.
[18] Cfr. S. Freud, Lutto e Melanconia, in Metapsicologia, Torino: Boringhieri 1978 [ed. or. 1915].
[19] D. Meghnagi, “La memoria del trauma della Shoah”, op. cit., p. 181.
[20] P. Lembo, “Sul nesso tra la morte ed immagine: tre ipotesi partendo dalle letture derridiane di Marin, Freud, Heidegger”, Ediciones Complutense, Vol. 15 (2019), p. 95.
[21] Cfr. K. Jaspers, Psicologia delle visioni del mondo, Roma: Astrolabio 1950 [ed. or. Psychologie der Weltanschauungen, Berlin: Julius Springer 1919].
[22] M. Heidegger, Essere e tempo, Milano-Roma: Bocca Editori 1953, p. 314 [ed. or. Sein und Zeit, Halle: M. Niemeyer 1927].
[23] B. Callieri, “Sulla Morte. Note psico-antropologiche”, Attualità in psicologia, anno IX n. 2-3 (1994), p. 7.
[24] E. Lévinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Milano: Jaca Book 1995, p. 241 [ed or. Totalité et Infini. Essai sur l’exteriorité, La Haye: Nijhoff 1961].
[25] E. Lévinas, Tra noi. Saggi sul pensare-all’altro, Milano: Jaca Book 1998, p. 130. [ed. or. Entre nous: essais sur le penser-à-l’autre, Paris: Bernard Grasset 1991].
[26] Ibidem.
[27] B. Callieri, “Sulla Morte”, op. cit., p. 9.
[28] U. Galimberti, Dizionario, op. cit., p.558.
[29] D. Meghnagi, “La memoria del trauma della Shoah”, op. cit., p. 183.
[30] L. Valensi – N. Wachtel, Memorie ebraiche, op. cit., p. 350.
[31] Ivi, p. 349.
[32] D. Meghnagi, “La memoria del trauma della Shoah”, op. cit., p. 178.
[33] L. Valensi – N. Wachtel, Memorie ebraiche, op. cit., p.347.
[34] D. Meghnagi, “La memoria del trauma della Shoah”, op. cit., pp. 182-183.
[35] L. Valensi – N. Wachtel, Memorie ebraiche, op. cit., p. 368.
[36] D. Meghnagi, “La memoria del trauma della Shoah”, op. cit., pp. 180-181.
[37] A. A. Schützenberg, La sindrome degli antenati. Psicoterapia transgenerazionale e i legami nascosti nell’albero genealogico, Roma: Di Renzo Editore 2013, pp. 176-177 [ed. or. Aïe, mes aïeux! Liens transgénérationells, secrets de famille, syndrome d’anniversaire, transmission des traumatismes et pratique du génosociogramme, Paris: Desclée de Brouwer. La Méridienne 1993.]
[38] G. Bartocci – S. Rullo, “Le apocalissi culturali ed individuali: reazioni psichiche di fronte alla morte”, Attualità in Psicologia, Anno IX n. 2-3 (1994), p. 79.
[39] L. Valensi – N. Wachtel, Memorie ebraiche, op. cit., p. 329.
[40] G. Bartocci – S. Rullo, “Le apocalissi culturali ed individuali”, op. cit., p. 79.
[41] D. Meghnagi, “La memoria del trauma della Shoah”, op. cit., p. 179.
[42] A. A. Schützenberg – E. Bissone Jeufroy, Uscire dal lutto, op. cit., p. 38.
[43] Ivi, p. 69.
[44] Cfr. E. Lévinas, Totalità e infinito, op. cit.
[45] D. Meghnagi, “La memoria del trauma della Shoah”, op. cit., p. 186.
[46] Ivi, pp. 177-178.
[47] L. Valensi – N. Wachtel, Memorie ebraiche, op. cit., p. 352.
[48] D. Meghnagi, “La memoria del trauma della Shoah”, op. cit., p. 189.
[49] S. Levi Della Torre, “Fine del dopoguerra e sintomi antisemitici”, Rivista di Storia Contemporanea, Vol. 13 Fasc. 3 (1984), p. 437.
[50] D. Meghnagi, “La memoria del trauma della Shoah”, op. cit., p. 191.
[51] Ivi, p. 193.
[52] S. Levi Della Torre, “Fine del dopoguerra”, op. cit.,p. 443.
[53] L. Valensi – N. Wachtel, Memorie ebraiche, op. cit., p. 380
[54] Ivi, pp. 379-381.
[55] D. Meghnagi, “La memoria del trauma della Shoah”, op. cit., p. 181.
[56] L. Valensi – N. Wachtel, Memorie ebraiche, op. cit., p. 390.
[57] A. Cavaglion, Introduzione, op. cit., p. V.