EXAGERE RIVISTA - Ottobre - Novembre - Dicembre 2024, n. 10-11-12 anno IX - ISSN 2531-7334

Elogio del mostro

di Gianfranco Pecchinenda

 

I silenzi edificano i ponti attraverso cui i mostri, fatti di angoscianti o noiose verità, passano da un’anima all’altra con il loro cupo strisciare.

 

 

Mostri dentro

I mostri esistono. Talvolta ci parlano e con le loro silenziose parole ci comunicano qualcosa di oscuro e inquietante: ci ricordano, innanzitutto, che non siamo mai soli.

Un mostro è in ognuno di noi; è l’altro per eccellenza, il nostro doppio. È una componente ineludibile di ogni identità umana, uno stato dell’essere che possiede una percezione spaventosamente precisa della realtà e che ci sussurra dai meandri della nostra mente quelle cose che non vorremmo sapere, quelle verità di cui non vorremmo mai prendere coscienza.

Il mostro ci minaccia, manifestandosi innanzitutto come una potenziale alternativa a tutto ciò che percepiamo come normale, ricordandoci che i modi in cui regoliamo e orientiamo i nostri comportamenti, e a volte i nostri più intimi pensieri o desideri, altro non sono se non delle forme convenzionali a cui ci adattiamo per meglio orientarci nella realtà condivisa.

Ma i mostri non servono solo a questo. Forse la loro funzione socialmente più rilevante consiste nel confortante senso di rassicurazione che, attraverso la loro alterità e diversità, essi ci forniscono a proposito della nostra normalità. Essi sono la dimostrazione che il nostro essere, la nostra identità, è normale, mentre loro sono altro, si trovano al di fuori e ben distanti da noi: basta solo usare l’accortezza di tenere sotto controllo le loro incombenti minacce.

Insomma, se non incontrassimo di tanto in tanto i mostri fuori di noi, non sapremmo come prendere coscienza della nostra stessa normalità.

Quando incrociamo una persona per strada e gli stringiamo la mano, il nostro gesto seguirà un automatismo che potremmo assimilare quasi a un istinto. Sarà un gesto effettuato in modo inconsapevole. Se, però, la mano di quella persona avesse, ad esempio, tre dita, oppure sette, immediatamente avvertiremmo qualcosa di inatteso, di anormale. La sorpresa collegata a tale fenomeno ci porterebbe (anche in questo caso seguendo una sorta di automatismo) a prendere consapevolezza, unitamente alla a-normalità di quella “cosa” (la mano dell’interlocutore), anche della normalità, fino a quale momento non percepita, della cosa-mano di cui noi stessi siamo dotati.

Il che equivale a dire che possiamo prendere coscienza della normalità di una cosa (o di un qualunque essere vivente), solo grazie allo stupore suscitato dalla presa di coscienza della possibile anormalità che quella stessa cosa potrebbe assumere.

 

La forma mostruosa

È opportuno ricordare che nell’esistenza umana ogni cosa, ogni essere, ogni esperienza deve necessariamente essere definita. Il linguaggio, le parole, i nomi hanno innanzitutto questo compito: eliminare la possibilità stessa dell’indefinito. Nomos significa denominare, delimitare, regolamentare. L’atto di nominare definisce una norma e, con essa, ciò che è normale.

Una volta definita una cosa o una persona, un evento o un fenomeno, saremo in un certo senso condannati a doverci confrontare per sempre con una tale forma, con un tale modello stabilizzato di normalità.

Le cose diventeranno reali; gli esseri – nella loro rassicurante realtà – diventeranno prevedibili. La cosa o gli esseri anormali, saranno considerate invece imprevedibili: non corrisponderanno alle aspettative condivise. L’anormalità della loro forma si proietterà inconsapevolmente in una potenziale deformazione del loro agire; saranno esseri o cose che provocheranno ansia, inquietudine: la cosiddetta paura dell’ignoto.

Ogni rapporto umano sarà pertanto sempre preceduto da qualche forma di idealizzazione. In altri termini tendiamo a idealizzare tutto ciò che riusciamo a definire e a normalizzare. L’ideale è la forma estrema della normalità; in un certo senso si tratta di una delle principali concettualizzazioni ereditate, in modo peraltro filosoficamente impareggiabile, da alcune delle grandi dottrine platoniche.

Il bambino idealizza i suoi genitori; i genitori idealizzano i loro figli; gli innamorati si idealizzano reciprocamente. Tutti noi – chi più e chi meno – tendiamo a idealizzare coloro cui riconosciamo un certo grado di autorità.

Tutti gli organismi viventi però, prima o poi, manifestano un qualche difetto. Tutte le forme, per quanto idealmente perfette, sono destinate a trasformarsi, a deteriorarsi, ad allontanarsi dalla loro stessa forma ideale di riferimento.

Quando una tale deformazione diventerà particolarmente accentuata, saremo di fronte a una forma sempre più indefinita, a un modello assolutamente disorientante, a una mostruosità.

Essere mostruosi significa pertanto, innanzitutto, essere eccessivamente anormali.

 

L’oscuro ideale

Non a caso i mostri si manifestano soprattutto di notte. È il buio il loro habitat, o la penombra. In tal modo essi si rendono indistinguibili dal mondo circostante, si confondono e rivelano l’inatteso. Quando poi essi si lasciano intravvedere, appaiono talvolta in tutta la loro deformità. È una forma-anormale, non convenzionale; inattesa, ancora una volta.

Questa loro caratteristica deformità può anche essere non necessariamente percepibile attraverso i sensi. Non sempre l’anormalità del mostro si manifesta sotto una forma fisica; talvolta quella che si percepisce può essere una mostruosità esclusivamente interiore. Si tratterà, in questi casi, di un’anormalità ancora più insidiosa perché mimetica, ambigua, infida.

Gli esseri umani sono gli unici animali in grado di manifestare la loro mostruosità in un modo puramente simbolico, attraverso il pensiero, grazie al linguaggio.

D’altra parte una delle funzioni evolutive fondamentali del linguaggio umano è stata quella di contribuire a regolare e normalizzare l’altrimenti imprevedibile condotta umana. Nominare una cosa – come detto – significa distinguerla e identificarla rispetto agli altri. Significa rivelarne le qualità e le funzioni, le caratteristiche e le specificità. Significa, soprattutto, renderli prevedibili. Lo stesso vale anche per quelli che definiamo mostri.

Quando ci mancano le parole per denominare una persona o un’esperienza, ecco che allora si spalancano le possibili e potenzialmente terrificanti porte della mostruosità. Quando non si dispone delle parole per descrivere una persona, una sensazione, un’esperienza, fa capolino il mostro.

D’altro canto, definire la mostruosità sembrerebbe un’impresa paradossale; implicherebbe rendere prevedibile l’imprevedibile; rendere normale l’anormalità.

Tuttavia l’uomo non dispone di troppe alternative, tranne una: il silenzio.

 

Il silenzio dei mostri

Non avere le parole, non trovarle, produce silenzio. Il silenzio rappresenta il lato oscuro del linguaggio. Così come il buio è l’ambiente in cui possono liberamente aggirarsi gli esseri dall’aspetto fisico mostruoso, il silenzio costituisce il territorio più adatto per il manifestarsi del pensiero mostruoso, del linguaggio inespresso e non condivisibile.

Sorprendentemente, però, il silenzio è anche il luogo in cui maturano quelle strane creature linguistiche che chiamiamo verità.

Così come i mostri, la cui forma riesce abilmente a mimetizzarsi nella penombra dell’oscurità, anche la verità ha una sua forma, essa è una convenzione linguistica, il cui aspetto puramente strumentale si mimetizza al meglio quando coloro che la condividono restano in silenzio. La verità che non può essere condivisa attraverso il linguaggio, che viene schiacciata dal silenzio, perde la sua forma più genuina e si trasfigura in un’oscura e potenzialmente mostruosa certezza.

Le certezze – quando si dimentica il loro carattere puramente strumentale – sono infatti dannose per l’autonomia umana, e finiscono per erodere i legami sociali su cui si basa l’esistenza civile.

Contrariamente a quanto sentiamo ripeterci nelle pericolose litanie del senso comune, volgarmente riecheggiate dai media di massa, il pensiero scientifico su cui si è fondata tutta la cultura occidentale moderna – e le sue straordinarie e indiscutibili conquiste, prima tra tutte l’Umanesimo – ci ha tramandato una, e una sola, “verità”: quella di dover considerare tutti i dogmi, tutte le certezze e le acquisizioni prodotte dall’uomo (anche quelle scientificamente più fondate) come delle semplici ipotesi, mai definitive, che è necessario sottoporre continuamente alla prova del confronto collettivo.

Non sono state le verità scientifiche a guidare la cultura umanistica occidentale, ma la certezza di poterle sempre discutere e criticare liberamente.

La più straordinaria acquisizione della cultura occidentale moderna è stata quella di riuscire ad evitare che una verità (qualunque fosse l’autorità da cui essa derivava) potesse non essere messa in discussione. È stato questo il principio evolutivo che ha aperto il campo all’emergere di quel tipo d’intelligenza collettiva tipicamente umano, dei cui frutti oggi possiamo godere: la madre della libertà individuale riposa sulla certezza che nessuna verità potrà mai essere definitiva; che nessuna verità potrà mai evitare di essere sottoposta al vaglio critico e alla discussione collettiva. Non potrà mai calare un silenzio definitivo su nessuna verità.

 

Fenomenologia del mostro

Ogniqualvolta cala il silenzio su una qualunque, possibile verità, possiamo cominciare a scorgere nell’ombra il lento ma deciso avanzare dei mostri. I principi scientifici del dubbio vengono messi da parte, e qualche presunta verità assoluta comincia a manifestarsi e a espandersi, dilagando incontrollabilmente nel linguaggio di senso comune.

Edmund Husserl, uno dei più originali pensatori del secolo scorso, nonché maestro del pensiero fenomenologico, ci avvertiva in modo impareggiabile sul pericolo dell’insinuarsi di una tale mostruosità all’alba di quello che resta il più disumano degli episodi storici che hanno interessato la cultura europea del Novecento.

Rifarsi ai grandi maestri e alle loro riflessioni nei momenti di crisi, è un’altra delle lezioni che possiamo trarre dalla tradizione scientifica che caratterizza la storia della cultura occidentale. È pertanto utile ricordare il tema centrale di una conferenza tenuta nel 1935 a Vienna dallo stesso Husserl, dedicata appunto alla crisi delle scienze europee e ai pericoli dell’affacciarsi di alcune “verità” sulla scena a lui contemporanea, nonché dei mostri nascosti dall’ombra (e soprattutto dall’oscuro silenzio) di alcune iniziative sociali e politiche propagandate dai media dell’epoca.

La conferenza di Husserl prendeva spunto da una questione retorica di fondo: com’era stato possibile arrivare a quel punto? Com’era stato possibile che nel cuore dell’Europa, erede della grande tradizione filosofica greca, del razionalismo illuminista, della sete di verità e di progresso legati all’applicazione del metodo scientifico, si potesse essere arrivati al Nazismo?

Giova sottolineare che, fedele ai suoi principi fenomenologici, Husserl considerava l’Europa non un luogo fisico delimitato geograficamente, ma un’idea; l’idea della scienza, l’idea dell’Umanità e dell’Universalismo. Per Husserl c’era Europa laddove c’erano uomini che si facevano portatori di un’idea di scienza e di una verità oggettiva ritenuta universalmente valida. In una parola, ci sarebbe stata Europa solo laddove si poteva credere all’esigenza di un’universalità dei valori fondati sulla fiducia nella scienza. Com’era possibile, dunque, che una tale Europa potesse cedere a una mostruosità come quella di cui si facevano paladini i nazisti e i loro epigoni?

 

L’identità del mostro

Ed è nella risposta fenomenologica husserliana che noi ancora oggi possiamo trovare una guida filosofica, nonché una chiara indicazione sociologica, relativa alla questione più generale che concerne la mostruosità. E questo proprio perché il mostro non deve essere considerato un essere o una cosa che possiede un’identità, ma è bensì un processo, ovvero la conseguenza di una complessa dialettica fondata su un approccio non scientifico al concetto di Verità.

L’Europa – sosteneva Husserl – è un’idea indefinita: essa è un orientamento dello spirito. “Noi non ci indianizzeremo mai” – egli scriveva. E questo non per una sorta di disprezzo o per un senso di superiorità nei confronti dei popoli indiani, ma per rendere più chiaro che quando si parla di europeizzazione ci si riferisce appunto a un processo e non a uno stato identitario. E soprattutto per sostenere che una volta rivelato il carattere ideale di un tale “modello” o di una tale “forma” identitaria, non è più possibile fare marcia indietro.

Una volta acquisita una determinata visione del mondo, una coscienza fenomenologica della realtà, non ci è più possibile aderire – come sosteneva Spinoza – a concezioni del mondo che prevedano l’esistenza di verità assolute.

L’Europa come civilizzazione, come cultura o come modo di vedere e intrepretare il mondo, potrebbe anche sparire (e sprofondare in una mostruosa barbarie, come peraltro lasciava timorosamente presagire lo stesso Husserl verso la fine del suo testo), ma l’Europa “in quanto idea” non potrà mai morire, perché essa è fondata su un concetto di verità che la filosofia greca ci ha lasciato in eredità una volta e per sempre.

La tesi soggiacente al testo di Husserl era appunto che l’Europa fosse una creazione della filosofia e che una tale filiazione restasse l’unico criterio in grado di distinguere ciò che era europeo da ciò che non lo era: l’Europa è un’idea nel senso che possiamo dirci europei se, e solo se, coltiviamo una fiducia in un metodo che ci suggerisce che possano esistere delle verità oggettive, dimostrabili scientificamente, in grado di poter essere conosciute e riconosciute universalmente dovunque e in ogni epoca.

Husserl concludeva la sua conferenza con una diagnosi (il termine è utilizzato in relazione alla sua sua frase di apertura, in cui affermava che l’Europa fosse “malata”): il relativismo è il peggior nemico dell’Europa. Poi, al di là del riferimento ai fatti storici contingenti, l’idea della fenomenologia husserliana restava – come è noto – quella di dover sempre tener presente che la scienza di cui deve farsi portatrice la filosofia occidentale non deve mai perdere di vista il carattere teleologico della ragione, il suo pretendere di essere messa sempre in discussione criticamente, la sua (ostinata, per quanto irrealizzabile) ricerca di un universalismo di fondo.

Questa idea della scienza però è stata talvolta tradita – e qui il discorso husserliano torna a essere di impressionante attualità – dal suo orientamento limitato a fini esclusivamente pratici e strumentali, in cui la ragione diventa un fine e non un mezzo.

 

Il mostro e la cosa tecnologica

In sostanza Husserl riteneva che essere arrivati a “quel punto”, era stato possibile perché, invece di seguire il solco tracciato dalla nostra tradizione filosofica, le scienze erano diventate imperialiste. L’uomo, invece di godere della scienza da lui prodotta, si era inintenzionalmente trasformato esso stesso in un prodotto. L’uomo era stato ridotto a un oggetto determinato da fenomeni sociali o naturali, a seconda della tipologia dell’approccio scientifico. Il paradigma di riferimento restava sempre lo stesso, una sorta determinismo strutturalista.

Grazie alla grande sensibilità filosofica che lo contraddistingueva, Husserl percepiva il mondo in cui viveva come una realtà capovolta in cui, invece di lasciare agli individui la libertà di poter esprimere le loro grandi potenzialità (la grandezza delle singolarità delle loro coscienze), essi venivano schiacciati da un insieme di norme sociali sempre più rigide (con l’assurda pretesa che si trattasse di leggi naturali, esteriori, oggettive e immodificabili), da determinismi causali spiegati statisticamente, che finivano per ridurre gli esseri umani e i loro comportamenti a delle “cose”, senza comprendere quella che era e tuttora costituisce la principale lezione lasciataci in eredità dalla fenomenologia: che l’essere umano è fondamentalmente un processo, ovvero una “non-cosa”.

Ridurre il disordine stroncando tutto ciò che non è prevedibile, come in una Tana kafkiana; orientare l’azione all’interno di percorsi esistenziali prestabiliti con efficacia sempre maggiore grazie al controllo di macchine e strumenti tecnologici, avvalendosi a tal fine di una malinterpretata concezione della verità scientifica, è stato tuttavia l’orientamento che ha accompagnato la storia della cultura occidentale nel periodo che va dalla conferenza di Husserl ai giorni nostri.

L’idea che possano esistere solo verità scientifiche, ovvero solo verità mai definitive (per quanto essa mantenga la sua pretesa di oggettività e universalità), è diventata sempre più estranea alla riflessione propria delle scienze umane (costrette di volta in volta a dover rinchiudersi in settori disciplinari angusti e orientati al raggiungimento di un qualche improbabile fine pratico), per essere ingegnerizzata o, peggio, delegata al controllo di strumenti tecnologici la cui crescente raffinatezza coincide ogni giorno di più con una loro funzionalità puramente (e inutilmente) strumentale.

Lo stesso approccio scientifico che, insegnandoci innanzitutto a dubitare di ogni verità indiscutibile, ci aveva condotto alle più straordinarie conquiste dell’Umanesimo, oggi sembra volerci convincere che l’unica verità oggettiva e indiscutibile possa essere quella prodotta e legittimata dal controllo dei raffinatissimi strumenti tecnologici di cui ci siamo dotati. Tuttavia, come già la storia ha ripetutamente dimostrato, la verità, quando si trasforma in dogma, finisce per produrre i mostri peggiori.

 

La commedia del mostro

La fenomenologia husserliana ha fortunatamente avuto i suoi grandi eredi: Camus, Sartre e l’intero movimento esistenzialista, il Surrealismo e molte delle avanguardie artistiche del Novecento, e poi Ortega y Gasset, Miguel de Unamuno, Schapp o il nostro impareggiabile Pirandello, solo per citarne alcuni.

Com’è noto, uno dei temi centrali dell’opera pirandelliana è stato proprio la critica del concetto di Verità, condotta attraverso una minuziosa e articolata descrizione della fragilità dei confini tra finzione e realtà, tra menzogna e – appunto – “verità”.

Secondo Pirandello il fittizio prevale sulla realtà non grazie a un’illuminazione particolare che lo autorizza a cogliere l’essenza di quest’ultima, ma semplicemente perché, essendo la natura della finzione del tutto ideale, essa non è più tributaria né dell’imperfezione né della menzogna inerenti alla realtà empirica.

Pirandello sarà il primo a formulare quel postulato che diventerà, nel corso di tutto il XX secolo, uno dei fondamenti della psicologia letteraria: l’incapacità dell’uomo di essere se stesso.

L’uomo pirandelliano scoprirà, di volta in volta, e con un panico sempre crescente, di essere una sorta di mostro ipocrita, un essere al cui interno cova qualcosa di ineluttabilmente falso.

I personaggi pirandelliani sembrano ossessionati dalla loro stessa mancanza di sincerità e dalla falsità ad essa connessa; al peccato religioso si sostituisce la menzogna sociale; al peccatore subentra il mostro commediante: il problema della verità e della sincerità prende il posto del problema della purezza d’animo.

E così come il puritanesimo della carne metteva in questione il valore della vita terrena, il puritanesimo della sincerità metterà in questione quello della personalità umana.

L’essenza dell’opera di Pirandello è legata all’idea secondo cui l’uomo sarebbe imprigionato dal mostro della menzogna e che la sua vita consisterebbe in una continua lotta per provare a liberarsene. Il suo genio sta nell’aver immaginato che tra gli uomini, o al loro interno, ci sia sempre in agguato un mostro di fondo, la cui analisi costituirà il centro di tutta la sua opera; il relativismo della verità o la dissoluzione della personalità non saranno altro, in tal senso, che dei casi particolari di un malinteso fondato su una fragilità tipicamente umana di carattere più generale.

 

Il mostro incerto

Il malinteso sarebbe, raccogliendo la sfida interpretativa pirandelliana (e, più in generale, esistenzialista) quello di ritenere che la malattia sia l’ipocrisia, mentre la sincerità (fondata su dogmi o verità assolute) sarebbe invece la cura per guarire da quella peculiare malattia umana dovuta alla sua intrinseca fragilità.

La questione, in termini sintetici, potrebbe essere così schematizzata:

L’uomo è un animale malato. L’origine della sua malattia deriverebbe, secondo una celebre e insuperata teoria – i cui tratti fondamentali sono rintracciabili nell’antropologia filosofica tedesca della prima metà del Novecento – da un’innata fragilità organica, che lo avrebbe reso particolarmente debole. In sostanza l’essere umano sarebbe sostanzialmente privo degli istinti sufficienti a poter sopravvivere nell’ambiente circostante. Dal punto di vista organico saremmo cioè manchevoli ed evolutivamente inadatti. In altre parole, laddove gli altri mammiferi sarebbero sorretti nella scelta del loro comportamento adattativo da un apparato istintuale solido e stabilizzato nel corso dell’evoluzione, l’essere umano non potrebbe invece contare su un tale sostegno.

Per essere più precisi, si potrebbe anche dire che gli animali non si troverebbero neppure di fronte a una possibilità di scelta vera e propria; sarebbe l’istinto a imporgli di agire in un modo o in un altro. La scelta – come tra i primi intuirà agli albori della modernità occidentale il genio di Shakespeare con il suo Amleto – sarebbe una possibilità o caratteristica solamente umana, accentuata dallo sviluppo di un tipo di società che, a partire da una certa epoca storica, avrebbe visto progressivamente scomparire, a causa della secolarizzazione delle istituzioni, quello che era sempre stato il più efficace sostegno al debole istinto umano: il dogma sacro.

Considerata in tal senso, l’origine della malattia umana sarebbe dovuta alla sua congenita incapacità di scelta di fronte alle molteplici possibilità di azione nel suo rapporto con gli altri agenti (umani e non) presenti nell’ambiente, e la sua sopravvivenza come specie sarebbe dovuta principalmente al successo evolutivo dettato da una duplice attività compensatoria: da una parte, la creazione di azioni collettive via via sempre più stabilizzate, ovvero le azioni connesse a ruoli istituzionalizzati. Dall’altra, lo sviluppo di un apparato neurofisiologico particolarmente complesso, di straordinaria magnificenza ed efficacia: il cervello.

Ogni istituzione ha origine con la necessità di trovare modelli o forme di azione (patterns) condivisi che risolvano in modo permanente problemi relativi alla scelta del tipo di azione da intraprendere. L’uomo deve cioè agire concordando insieme al gruppo (in tal senso l’uomo è necessariamente un animale sociale) modelli di azione stabili e prevedibili; ogni cervello può a sua volta essere definito come un insieme di connessioni sinaptiche, stabilizzati in patterns, la cui funzione principale è quella di orientare l’azione dell’organismo in relazione all’ambiente circostante, tenendo però in considerazione l’equilibrio neruofisiologico adattativamente più efficace per l’organismo stesso.

A tal proposito i neuroscienziati più accreditati concordano sempre più nel definire il cervello umano innanzitutto come uno strumento orientato a ridurre le incertezze. L’incertezza – essi sostengono – è il problema fondamentale per la cui soluzione il nostro cervello si è evoluto. Risolvere l’incertezza è un principio unificante che permea tutta la biologia, ed è il compito insito nell’evoluzione, nello sviluppo di ogni individuo e nell’apprendimento.

Il cervello umano si sarebbe in altri termini evoluto allo scopo di trasformare in certezza tutto ciò che è intrinsecamente incerto, ogni istante di ogni giorno. La motivazione biologica di molte delle nostre abitudini e dei nostri automatismi sociali e culturali, compresi quelli religiosi e politici, persino l’odio e il razzismo, sarebbe quella di diminuire l’incertezza attraverso l’imposizione di regole e contesti rigidi, nel tentativo di disconnettersi da un mondo che vive proprio perché è interconnesso e in costante movimento.

Così facendo, questi automatismi ereditari – per una dinamica determinata dall’evoluzione – ci impediscono però di vivere un’esistenza più creativa, più appagante, più collaborativa, più coraggiosa. Nell’andare a costruire questo tipo di certezza – come a suo tempo Sartre descriveva con grande efficacia – perdiamo in creatività e libertà.

 

Accettare il mostro

Tornando al malinteso tanto caro al pensiero esistenzialista, forse potrebbe a questo punto essere utile provare a capovolgere il senso del nesso causale generalmente diffuso nel senso comune tra sincerità e ipocrisia, al fine di proteggere il nostro diritto alla libertà di scelta di fronte al controllo sempre più pervasivo dei dati e delle macchine.

La “verità” su cui si fonderebbe la sincerità così abilmente derisa da Pirandello, dovrebbe essere considerata per quello che empiricamente è: una convenzione sociale. Talvolta si confonde invece una questione di rispetto puramente formale di certe convenzioni (per quanto antropologicamente fondate), con un Valore considerato in termini assoluti, un dogma naturale (talvolta sacralizzato) e pertanto indiscutibile. L’ipocrisia, soprattutto in certe fasi storiche come quella in cui ci stiamo da anni addentrando, andrebbe forse considerata non tanto come una malattia sociale, quanto come un’auspicabile (per quanto parziale) forma di cura.

Tornando al nostro discorso di fondo, i mostri odierni sembrerebbero essere provocati sempre più dall’incapacità di comprendere un tale malinteso: in un’epoca in cui l’eccesso di dati e informazioni conduce a una crescente riduzione dell’incertezza, e in cui si tende a osannare il controllo delle azioni umane che si manifesta con uno spietato uso (e abuso) delle virtù certificatrici delle nuove tecnologie dell’informazione, il rischio sempre più realistico dell’avvento di una tanto decantata società della trasparenza, di una società controllata digitalmente e senza ombre o ambiguità, dovrebbe invitarci a soffermarci con un po’ più di attenzione sulle lezioni di alcuni grandi pensatori o artisti del passato.

 

Il mostro umano

Insomma – per concludere – il futuro dell’Umanesimo potrebbe essere strettamente legato alla nostra attuale capacità di riconoscere l’importanza del mostro (in quanto de-forme) che ci abita e ci rende umani; imparare ad accettare che il mostro si trova dentro e non fuori di noi; che esso appartiene all’essere umano e non a un’alterità estranea e minacciosa; che la diversità, la deformità che caratterizzano il paradigma del mostro, non va combattuta in nome di rigidi dogmatismi (come a suo tempo accadeva con i demoni), ma pazientemente metabolizzato; che le contraddizioni, le incertezze, le fragilità, le ambiguità (come la scienza tende a mostrarci) sono caratteristiche umane che ci costituiscono, ma sono anche fonte di grande ricchezza. Ovviamente si tratta solo di un’ipotesi, finora confermataci dalla storia evolutiva della nostra specie. Un’ipotesi che, partendo dal presupposto di voler combattere il rischio di atrofizzazione dei necessari gradi di libertà nei confronti delle regole istituzionali, nonché di ogni altra possibile forma di determinismo (da quello biologico a quello tecnologico), ci spinge però ad affidarci con rinnovata fiducia a un metodo scientifico di analisi del comportamento e delle relazioni umane, fondato sul riconoscimento dell’altro e del diverso – qualunque possa essere la forma in cui si manifesta – e mai su un suo rifiuto dogmatico.

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