di Francesca Rifiuti
“Ho scritto questa prefazione alle quattro del mattino nel cinquantesimo anniversario del giorno in cui vidi mio padre morire in un letto d’ospedale. Come mi ha trattato la vita? Cosa posso fare affinché mi tratti meglio? Spero che a voi riservi molto di più.”
(Carl Whitaker – Considerazioni notturne di un terapeuta della famiglia)
Se è vero che ogni terapeuta ha il suo testo classico di riferimento e per il quale sente un’attrazione irresistibile, un testo a cui torna ogni volta in cui la motivazione si allenta e la rinuncia fa capolino dietro l’angolo, ogni volta in cui un caso clinico particolarmente complesso genera difficoltà nel gestire la propria emotività, allora per chi scrive quel testo è senza ombra di dubbio Considerazioni notturne di un terapeuta della famiglia, di Carl Whitaker. Pubblicato nel 1989, anno di nascita dell’autrice dell’articolo, letto per la prima volta nel 2020 durante il primo lockdown, in un momento di massima e obbligata distanza dalla stanza di terapia, questo testo rivela, ogni volta che si apre sotto agli occhi, strade sempre nuove per nutrire la motivazione professionale e umana del terapeuta.
Whitaker, da sempre schivo e riservato (questo, scritto all’età di 77 anni, è il suo primo vero libro), inizia a scrivere questa opera durante una notte insonne, in un momento che lui stesso definisce di autoipnosi non prevista. La notte che lo avvolge e lo protegge rende chiari, più di quanto possa fare la luce del giorno, alcuni pensieri sulla sua vita, sulla sua carriera e diventa teatro di un racconto intimo, quasi privato, in cui al lettore potrebbe sembrare di essere quasi un intruso se non fosse per il senso di grande familiarità e accoglienza che caratterizza tutte le pagine del libro. La notte per Whitaker si presta come occasione di confessione e di svelamento, dopo più di cinquant’anni di carriera psicologica a contatto con la sofferenza. In questa opera il terapeuta si mette in gioco in prima persona raccontando la storia della propria famiglia d’origine, mostrando le proprie fragilità umane e mettendole al servizio della professione. Attraverso episodi e aneddoti, riflessioni profonde sulle modalità di lavoro, sui progressi teorici e sui casi clinici incontrati nel corso della sua lunga carriera, Whitaker sottolinea come sia importante per il clinico non solo padroneggiare le tecniche di intervento ma anche, forse soprattutto, essere capace di mettere in campo se stesso, i propri pensieri e i pregiudizi relativi alla propria famiglia d’origine.
Respirare l’amore, come un doppio a tennis
Racconta di sé, Carl Whitaker, permettendo a chi legge di entrare in punta di piedi nella sua vita, di seguirlo nei suoi studi e nella sua esperienza clinica ma anche di “respirare l’amore” che circolava tra lui e la moglie Muriel, per anni anche sua coterapeuta. Per Whitaker il matrimonio è quel legame che genera il noi, che è sempre più potente della somma dei due individui che formano la coppia. Parlando in termini metaforici, l’autore mette in parallelo la scelta di essere sposati a una situazione in cui si è imparato a giocare a tennis e scegliamo esplicitamente di giocare in doppio anziché individualmente, perché lo riteniamo più divertente, perché lo sforzo fisico è minore e il bisogno individuale di essere un eroe è “meno ipnotizzante”. Mentre giocare il singolo può essere, secondo Whitaker, una scelta guidata dal delirio di diventare campione mondiale, scegliere di giocare il doppio è mosso da un bisogno diverso ed è caratterizzato dal dover tenere in mente la presenza dell’altra persona accanto a noi, prevedendone le mosse e i bisogni, accettandone le fragilità, mettendosi talvolta in secondo piano, facendo scelte sulla base di ciò che sta accadendo in quel preciso momento. Sicuramente, Whitaker ne parla ampiamente nel suo testo, ci troviamo di fronte a una complessità maggiore e al rischio di incorrere in grandi sofferenze, ma con la consapevolezza che in coppia si può diventare una squadra forte, reale, solida.
Esercitarsi a morire
In Considerazioni Notturne, Whitaker parla spesso di quanto possa essere gravosa la gestione di aspettative troppo alte e irrealistiche nei confronti di se stessi e di quanto i deliri di onnipotenza siano ipnotizzanti e possano impedire agli esseri umani di gioire di ogni singolo giorno nel modo più pieno possibile.
Whitaker si svela così nella sua umanità, riflettendo attraverso esempi personali sull’importanza di smitizzare se stessi e di accettare che non tutto ciò che ci aspettiamo e desideriamo può avere riscontro nella realtà; imparare a riconoscere i nostri stessi limiti favorisce la capacità di rieducare se stessi e, citando Platone, di esercitarsi a morire. Questo per Whitaker significa liberarsi attraverso un processo di elaborazione del lutto (“seppellire dignitosamente”) di tutti quei fardelli che sono generati dall’illusione e dall’irrazionalità e delle parti di noi che sono creazioni della nostra fantasia, “sogni infranti e cocenti delusioni”. Questo non significa certo rinunciare ai propri progetti, semmai ha a che fare con il focalizzarsi di più sul qui e ora, su ciò che può risultare per noi più raggiungibile e tangibile. Esercitarsi a morire significa in fondo godersi la vita giorno dopo giorno, pienamente.
Gli scontri dialettici nella famiglia “sana”
Oltre a trattare brevemente alcuni casi clinici interessanti, Whitaker presenta all’interno del testo molte riflessioni generali che riguardano il funzionamento fisiologico delle famiglie, che lui stesso ammette di aver appreso attraverso lo studio, il confronto tra colleghi ma anche e soprattutto attraverso la relazione terapeutica con le famiglie che sono comparse di fronte a lui negli anni di carriera e con le quali si è spesso creato un legame di forte empatia e connessione, attraverso la grande attenzione al canale non verbale e al clima emotivo presente in seduta.
Whitaker elabora una riflessione sui molti “scontri dialettici” che permettono di comprendere la crescita familiare. In queste dialettiche troviamo due polarità che secondo l’autore devono necessariamente essere allenate e integrate tra loro, alla ricerca di un equilibrio sano che permetta la crescita individuale e relazionale. La dialettica più significativa è senza dubbio quella tra appartenenza e individuazione. Una persona completamente “individuata”, nonostante possieda una certa maturità, finisce per fondare la propria esistenza sulla negazione del bisogno di appartenenza e ciò può portare a un isolamento. Al contrario, l’invischiamento (Minuchin, 1974) rende schiavi della propria appartenenza al nucleo familiare e impossibilitati a svilupparsi come individui differenziati. Una persona che è libera di muoversi e di oscillare tra questi due poli riesce ad acquisire forza e competenza, può sentire di appartenere senza rinunciare alla propria individualità.
Fare psicoterapia, essere psicoterapeuti
Cos’è la psicoterapia? Secondo Whitaker una metafora utile per comprendere che cosa succede all’interno di un processo terapeutico è quella della genitorialità. Il terapeuta assume la funzione di genitore perché si prende cura ma è anche efficiente, permette alla persona che ha davanti di crescere in modo sempre più libero e completo, di esprimere liberamente le proprie emozioni, anche quelle più scomode, in un contesto protetto in cui il terapeuta-genitore tiene sotto controllo la situazione e fornisce sicurezza e conforto, ma anche una certa struttura.
Whitaker ci spiega che, nel corso delle nostre vite, molte esperienze anche apparentemente poco significative possono essere terapeutiche senza essere necessariamente psicoterapie. Il fatto che alcuni eventi possano ritenersi terapeutici per la persona non dipende infatti dall’avvenimento in sé, ma dal significato che quella persona gli attribuisce. La psicoterapia professionale si differenzia invece per essere un intervento strutturato e intenzionale, regolato da un setting preciso e che avviene in presenza di un clinico specializzato e pagato. I vantaggi della psicoterapia professionale riguardano sicuramente il lavoro verso l’eliminazione del sintomo, che è però sempre un’arma a doppio taglio, da maneggiare con cura e nel rispetto dei tempi di crescita del paziente. Altri vantaggi hanno a che fare con una progressiva liberazione dalla repressione e una sempre maggiore libertà creativa, che stimola nuovi modi per esprimere se stessi, riducendo le censure e le limitazioni che derivano anche dal contesto in cui viviamo. Questa nuova condizione permette di poter affrontare in modo più sereno tutte quelle situazioni che generano ansia positiva, ovvero il timore dell’inadeguatezza e dell’incapacità di raggiungere un obiettivo. Ogni processo terapeutico, per essere tale, ha bisogno di una intimità psicologica e di un divario generazionale psicologico (definito da Freud “regressione al servizio dell’Io”), che permettano alla persona in fase di cambiamento di sperimentare una libertà assimilabile a quella provata durante il gioco: una responsività senza responsabilità. Il terapeuta-genitore si assume la responsabilità del controllo e della protezione, co-costruendo col paziente uno spazio sicuro in cui è possibile giocare con le proprie parti di sé, scoprirne di nuove, ritrovare quelle silenziate o perdute.
Per Whitaker un terapeuta principiante deve prima imparare qualcosa sulla psicoterapia, poi imparare come fare psicoterapia e solo successivamente, se tutto va come dovrebbe, può diventare uno psicoterapeuta, ma non potrà mai essere un professionista solitario e isolato, dovrà sempre essere aperto al confronto sia in supervisione che con i propri colleghi. Solo attraverso connessioni professionali continue si potrà proseguire nella formazione, che non incontra mai una vera fine. La condivisione permette anche di proseguire il lavoro su di sé, sulle proprie fragilità, sulle proprie risonanze, attenuando e tollerando il timore di far emergere i propri difetti e la propria patologia. Fare esperienza significa quindi, per l’autore, soprattutto “imparare facendo”, piuttosto che imparare da un maestro. E imparare facendo significa, nel suo aspetto più profondo, che nella clinica possiamo apprendere da chi abbiamo di fronte solo se riusciamo in alcuni momenti ad abbandonare il ruolo e accettiamo che quello che avviene all’interno della relazione terapeutica è anche una relazione tra persone, non solo tra paziente e professionista. Eccoci di fronte a un nuovo “scontro” dialettico, stavolta quello che caratterizza la psicoterapia: la sfida sta nella capacità di trovare un equilibrio sano e funzionale al processo terapeutico in atto tra la struttura del rapporto professionale e il calore e l’accoglienza della relazione tra esseri umani.
Carl A. Whitaker (1990). Considerazioni notturne di un terapeuta della famiglia. Editore Astrolabio. Roma.