EXAGERE RIVISTA - Gennaio-Febbraio 2024, n. 1-2 anno IX - ISSN 2531-7334

Finché martirio non ci separi. Il caso delle donne migranti nello Stato Isalmico

 

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di Primavera Fisogni

  1. Vittime o carnefici? Migranti o terroriste?

 

Nel complesso scenario dello Stato Islamico, la condizione delle donne migranti è un caso a sé[1], che resta aperto per il difficile inquadramento del ruolo di questa popolazione, dalla crescente consistenza numerica, sebbene manchino attendibili censimenti. A inizio 2015 erano 550 su 3400 foreign fighters di provenienza occidentale (Hoyle, Bradford, Frenett, 2015), mentre nel report anti-terrorismo Te-Sat di Europol 2016 risulta che «una significativa percentuale di tutti i terroristi stranieri diretti in Siria/Iraq è oggi femminile». Circa il 40% dei migranti olandesi è composto di donne.[2]

A fare problema, oltre ai fattori che spingono donne, spesso minorenni, ad abbracciare la causa del Califfato, è il profilo identitario rivestito una volta entrate in Da’ish: si tratta di vittime o di attive operatrici della violenza totalitaria del sedicente Stato, fondato il 29 giugno 2014 da Abu Bakr al Baghdadi? Non siamo di fronte a una mera  questione sociologica, ma a un’esigenza chiarificatrice necessaria, perché – come vedremo – la propaganda dell’Isis, veicolata soprattutto dal web e dal canale dei social network, vede le donne – a partire dalle teen agers – attivissime nella divulgazione dell’ideologia dell’odio. Inquadrarne il ruolo diventa anche un’esigenza legale, a fronte dei possibili capi di accusa da formulare nei confronti dei “migranti” in caso di loro ritorno in patria oppure nella prospettiva di un tribunale internazionale incaricato di giudicare i crimini contro l’umanità perpetrati dallo Stato Islamico. Sulla materia, ovvero sui blurring borders di questa spinosa questione – vittime o carnefici – non ci sono risposte nette. E se l’americana Mia Bloom[3] tende a cancellare ogni differenza tra le donne e gli uomini del terrorismo, assegnando piena responsabilità agli atti eversivi (ma lo studio in questione è del 2011, anteriore al fenomeno del Califfato) altri studiosi (Binetti, 2015; Rafik&Malik, 2015; Saltman and Smith, 2015) – evidenziano il sovrapporsi di meccanismi di seduzione e partecipazione, che giustificano la vittimizzazione dei soggetti più deboli: le donne, in primo luogo, e gli adolescenti adescati dal messaggio perverso dell’Isis.

In questa mia analisi, nei limiti di una breve esposizione, intendo focalizzare soprattutto la dimensione della 1) violenza subita da parte delle minorenni perché compiano l’hijra e si installino nel Da’ish e 2) la presenza di una violenza di genere, con messaggi ingannevoli, sulle donne migranti da parte dell’Isis. Il mio obiettivo è di mostrare come l’adesione all’odio e a forme estreme di violenza – massacri, terrorismo, esecuzioni – sia parte delle dinamiche cosiddette della “zona grigia”, in cui la vittima diventa carnefice e, nel caso della donna, alimenta la misoginia (le donne dell’Isis sono spesso guardiane e aguzzine delle “schiave”, per lo più appartenenti alla minoranza Yazida). Concludo affermando che lo studio delle modalità con cui questo si verifica nello Stato Islamico, specialmente tra le donne – insieme con i bambini la parte debole della società – può aiutare la comprensione della violenza domestica di genere in contesti sociali che nulla hanno a che vedere con l’Isis.

 

  1. L’hijra delle ragazze e delle donne. Alcuni esempi

 

Uno dei fattori attrattivi del Califfato che ha più presa sul pubblico femminile consiste paradossalmente da una liberazione dagli stereotipi e dalle forme di oppressione diffuse nell’Occidente maschilista. Saltman e Smith, autrici dello studio di riferimento sulle narrative femminili delle migranti occidentali, notano che «con la propaganda dell’Isis cresce il messaggio: le donne sono valutate non come oggetti sessuali, ma quali madri delle prossime generazioni e dei guardiani dell’ideologia dell’Isis»[4].

Non solo: la propaganda trasmette l’idea che tutti, donne comprese, siano chiamati «a partecipare», in quanto sostenere il Califfato vuol dire «farlo crescere e fiorire. È il lavoro di ognuno» (Rafiq & Maliq, 2015). Alle donne non è ufficialmente chiesto di combattere con le armi o di farsi esplodere in azioni suicide oppure di giustiziare[5], ma di partecipare all’ideologia dello Stato Islamico come madri e come mogli. Fa eccezione la brigata Al Khansa, un corpo militare femminile, per lo più costituito da migranti occidentali, con compiti di controllo e di punizione di donne ridotte in schiavitù o colpevoli di azioni contrarie all’ideologia Jihādista. Il concetto viene ribadito sui canali di propaganda e ricorre spesso su Dabiq, il magazine digitale dello Stato Islamico dove, fin dai primi numeri, compaiono articoli a firma femminile, rivolti alle donne dell’Isis o alle aspiranti “caliphettes”.

 

«La partecipazione femminile può essere resa con il supporto ai combattenti e provvedendo ai “cuccioli”». Lo stabilisce Umm Basir in Dabiq: «Sappi che i compagni non diffondono l’Islam in questi vasti territori eccetto in compagnia delle loro mogli  giudiziose dietro di loro». (Citazione da Rafiq&Maliq, 2015: 26)

 

La marginalizzazione rispetto alle azioni militari, nonché al ruolo attivo nelle esecuzioni dei kuffār colloca la quota femminile del Califfato in un ruolo sostanzialmente ambiguo, sia ridimensionandone il ruolo eversivo – Saltman e Smith ritengono improprio considerarle jihādiste e preferiscono il termine migranti – sia sfumandone la responsabilità nell’affermazione ideologica dello Stato Islamico, senza considerare quanto grande sia, in virtù del ruolo educativo e didattico a loro assegnato dalla cultura, non meno che dal regime. Per la filosofa politica Annarosa Buttarelli, la complessità del profilo delle donne dell’Isis può accompagnarsi, quanto meno, all’ipotesi di una certa emancipazione che il vagheggiamento della lotta introduce nella condizione, fortemente subordinata all’uomo, imposta dal takfir.[6] Tra le donne, spesso giovanissime, sono numerose quelle che nel Califfato ripongono aspettative di sorellanza, appartenenza, riguardando ad esso come il termine di un’avventura romantica, con tutti gli ingredienti della letteratura di genere (incontrare l’eroe, sposarlo, essere amate) integrati dalla condizione possibile di vedove del jihād.[7] Questo immaginario è reso esplicito da messaggi come quello della giovanissima migrante, di origine anglosassone, che posta su Tweet una foto in cui la mitragliatrice e la rosa rossa sono poste l’una accanto all’altra, con la scritta:

 

«Nella terra del jihād, io ho incontrato te, mio caro mujahid».[8]

 

Dalle risposte date suoi social dalle donne che hanno scelto di trasferirsi nello Stato Islamico si desumono anche le modalità delle relazioni uomo-donna. Chi non ha marito, è opportuno che si sposi al più presto, avvalendosi magari proprio dell’aiuto di una “sorella” nel jihād, fermandosi il minimo indispensabile nella foresteria per donne sole, la maqar.

 

  1. «È meglio sposarsi subito e trovare qualcuno prima, oppure fermarsi al pensionato e poi sposarsi?».
  2. «La cosa migliore è scegliere qualcuno che vuoi sposare attraverso la sorella di un mujahid che è sposata, così che suo marito può aiutarti a trovare qualcuno, che così hai il tempo di conoscere etc. Meglio seguire questa strada che stare al pensionato e aspettare».[9]

 

È il caso di Zahra Halane, fuggita con la gemella Salma da Chorlton, presso Manchester, nel luglio 2014 con destinazione Siria, per unirsi allo Stato Islamico. Nonostante la giovane età – si tratta di sedicenni – le due ragazzine portano a termine il loro viaggio rocambolesco e, dopo pochi giorni, diventano mogli di miliziani. Abilissime nel muoversi sui social network, fanno di Instagram e Twitter le finestre sul mondo da cui far filtrare esperienze, stati d’animo, emozioni, Jihādismo, diventando in brevissimo tempo protagoniste della propaganda globale. Zahra esalta l’11 settembre («Happiest day in my life»), lancia proclami nei confronti dei musulmani non impegnati nel jihād («Jihād is the most eccellent form of worship»), rende onore al marito, morto in battaglia («He was a blessing from Allah») testimoniando della precoce vedovanza, al pari della sorella Salma. Colpisce soprattutto il modo con cui Zahra si identifichi con la umma, rilanciando quello stesso concetto di “coscienza della comunità” alla base dell’esaltazione del jihād da parte di vari ideologi del Novecento, tra i quali il già citato Abdullah Azzam, il cui pensiero fu decisivo nell’eversione di Osama Bin Laden.[10] In un tweet, firmandosi Umm Ja’far (la madre di Ja’far) scrive così, enfatizzando con le maiuscole e con i punti esclamativi, nello stile di un’adolescente:

 

«Il non credente deve comprendere che siamo la comunità di Mohammed».[11]

 

È evidente che Zahra non percepisce se stessa come cittadina di uno Stato Islamico sganciato da una visione universalistica e proiettato ad inglobare l’intera comunità mondiale. L’identità singola assume un senso entro quella prospettiva unitaria. Parlare di sé e fare propaganda in modo spinto, con una spietatezza che sorprende a fronte della giovane età e della formazione culturale occidentale, forgiata ai valori della democrazia in una high school britannica, diventa uno strumento di lotta per la realizzazione di quel progetto. Meriem Rehally, 20 anni, studentessa di Padova, nata da una famiglia originaria del Marocco – che secondo gli inquirenti farebbe parte della brigata di sole donne Al Khansa – ha prestato giuramento al Califfo il 13 luglio 2015. Prima di approdare al campo di addestramento di Raqqa usciva con le amiche, beveva lo Spritz con la sua compagnia, ascoltava musica techno. Un’adolescente come tante. Poi, sigla così il suo congedo dall’Italia e da tutto quello che aveva rappresentato la normalità:

 

«Dio, ho promesso il mio pegno di fedeltà e lo rinnovo per il principe dei fedeli, il mio Cheick Abu Bakr al-Baghdadi».

 

L’indomani, il 14 luglio, è partita per la Turchia, per poi sconfinare in Siria, avvalendosi di un aiuto in loco. Una modalità consueta, specialmente per le donne e le ragazzine, come ben testimoniato dal reportage della giornalista francese Anna Erelle, che ha vissuto in prima persona quell’esperienza, fingendosi pronta alla hijra. Al liceo Meriem aveva chiaramente lasciato capire di essere vicina alla radicalizzazione, tra le righe di un tema. Un passo certamente compiuto con l’ingresso, anche fisico, nello Stato Islamico, visto che la ragazza scrive a un’amica italiana queste parole:

 

«Non puoi immaginare quanto ho goduto ieri, non vedo l’ora di piegare uno e togliergli la testa».

 

Difficilmente, a fronte di questa affermazione, si potrebbe definire Meriem una “vittima” anche se è evidente che l’adesione all’ideologia mortifera del takfir ne ha intaccato il senso di realtà. Lei stessa, per altro, ha consapevolezza del profilo eversivo che ha pienamente assunto:

 

«Qui c’è quello che ho sempre sognato. Se mi chiamate terrorista, ne vado fiera».

 

Lo slancio eversivo, almeno a parole, di Meriem, ricorda quello di Maria Giulia Sergio, la milanese convertitasi all’Islam con il nome di Fatima, che ha poi intrapreso la hijra nello Stato Islamico con il secondo marito. Non meraviglia questo atteggiamento delle neofite. Secondo la testimonianza di un Jihādista, raccolta in incognito dalla Erelle, le donne occidentali radicalizzate nello Stato Islamico vivono uno stato di esaltazione.[12] Meriem una volta in Siria, scrive così alla madre:

 

«Scusa, cara mamma, ci vediamo in Paradiso».

 

Nell’ultima telefonata alla famiglia, quella fatta al padre, si apprende che piangeva ma senza esprimere pentimento per la sua scelta. L’impressione è di una completa de-realizzazione.

 

«La guerra non c’è, credimi: c’è per loro».[13]

 

  1. Traffico di vite umane con modalità seduttive

 

A fronte della propaganda per favorire l’entrata nello Stato Islamico, si può ricavare l’impressione che nessuno, nemmeno la teen ager Zahra, con la sua passione per il piercing al naso, siano pedine inconsapevoli. Ma allora, possiamo sostenere che le donne – a qualunque età – siano delle vittime, o siano in parte vittime dell’ideologia Jihādista dell’Isis? Io credo di no, perché troppi sono i fattori di manipolazione.

La prima forma di sopraffazione, che accomuna i generi, ma risulta ancora più acuta per la componente femminile, riguarda il traffico di vite umane. Se la riduzione in schiavitù di individui appartenenti alle minoranze religiose ed etniche (gli Yazidi, ad esempio), con bambini addestrati a operazioni di martirio e donne destinate alla schiavitù sessuale e agli stupri di gruppo, è stata ampiamente testimoniata dai media, «minore attenzione è stata rivolta al reclutamento delle donne minorenni occidentali» (Binetti, 2015: 1). Eppure siamo pienamente nei termini di un reato che il Protocollo dell’Onu codifica nei termini di «reclutamento o sequestro… con minaccia, uso della forza o frode, inganno, abuso di potere … per sfruttamento». Sì, sfruttamento. Perché lo Stato Islamico, al suo stato nascente, ha bisogno di assicurarsi continuità nel progetto di martirio e supporto quotidiano ai miliziani. Come è stato rilevato, le tecniche di avvicinamento all’hijra sono improntate alla seduzione per scopi di adescamento (grooming o cura assillante[14]) e non si differenziano, nelle modalità comunicative, da quelle dell’adescamento pedopornografico.

 

«È molto simile in termini di piattaforma, processo, esclusione dei genitori (e) nel creare un ambiente di segretezza» (Bloom, 2015).[15]

 

In particolare:

 

«(le ragazzine) vengono indotte a fare amicizia on line, viene detto loro che sono amate e ciò viene mostrato con lodi e adulazione. Queste giovani, come le vittime dello sfruttamento sessuale non si vedono come vittime. Guardano a se stesse come a ragazze che si metteranno con uomini che sinceramente le amano» (Dearden, 2015)[16].

 

Almeno per quanto riguarda i minori, in altri termini, non c’è dubbio che l’Isis sia colpevole di traffico di vite umane, per riduzione in schiavitù. Entrare è relativamente facile, uscire dallo Stato Islamico, sganciandosi dalla radicalizzazione, risulta impossibile, come risulta dalle testimonianze di coloro che sono fuggiti da Raqqa e dintorni.

 

  1. Seduzione “femminista”, violenza di genere e sfruttamento

 

Per convincere le donne all’hijra nello Stato Islamico, specialmente in Occidente, la propaganda fa leva su principi per così dire “femministi”, mostrando come soltanto il Califfato possa restituire quella dignità e quel rispetto ormai estranei alla cultura degli altri Paesi. Tutt’altro che un messaggio rozzo e retorico. Si tratta invece di una modalità comunicativa molto raffinata, pensata per donne scolarizzate: studentesse, professioniste. Essa rinfocola un disagio diffuso, alimentato anche dai pregiudizi verso l’immagine femminile nell’Islam: uno stato d’animo fattosi acuto dopo episodi come il divieto del burkini (costume integrale) sulle spiagge, la scorsa estate.

La recente inchiesta del New York Times[17] dimostra quanto fragile sia il passaggio dal disagio al risentimento, pericolosa condizione trascendentale dell’odio e della radicalizzazione. Così possiamo condividere l’analisi di Sandip Verma, quando afferma che:

 

«La premessa rimane che, per questi reclutamenti, il modello occidentale per le donne ha fallito e che emigrare nei territori controllati dallo Stato Islamico è l’unica soluzione».[18]

 

Che le promesse “femministe” del sedicente Stato Islamico siano fasulle, è un dato di fatto, perché l’inquadramento femminile prevede una subordinazione totale della donna al marito[19] (e di entrambi al Califfo): per questo, oltre al traffico di vite umane, si può ipotizzare in pieno un reato di sfruttamento[20]. Il matrimonio è sostanzialmente un passo obbligatorio, sia per il duplice diktat di 1) far crescere lo Stato Islamico (generazione) e 2) di supportare gli uomini coinvolti in azioni di martirio. In questa rigida cornice, lo spazio di autonomia della donna migrante non soltanto è ridotto ai minimi termini, ma non consente neppure alternative ad assumere un ruolo attivo, diventando così operatrici a tutti gli effetti delle azioni di odio perpetrate dall’Isis. Il passaggio è oltremodo delicato, perché consente di argomentare – come consequenziale, se non inevitabile – il cambiamento di ruolo delle donne reclutate, da migranti a combattenti. Possiamo a questo punto parlare di vittime che diventano carnefici? Oltre ad essere state ingannate sul senso della propria “liberazione”, le migranti sono in una condizione di vulnerabilità assoluta[21]: hanno rotto i legami con la terra e la famiglia d’origine, si trovano sottomesse al marito e alle regole dello Stato Islamico. Se possibile, l’unico spazio in cui esse possono affermare la propria identità, pur assumendo nicknames o nomi di “battaglia” (generalmente sui social le troviamo con il prenome Umm, madre), è lo spazio pubblico. Che è, anzitutto, quello del web e dei social, dove le narrative possibili, per una migrante sono soltanto due: 1) l’esaltazione dello Stato Islamico, dall’ideologia alle operazioni militari e alle espressioni di odio verso i kuffar e 2) la consegna di momenti privati, come foto o commenti sul marito martire o su aspetti della quotidianità.

Sono questi frammenti di narrato a consegnarci, con il non detto, l’implicito e il sottinteso, il quotidiano delle donne che hanno scelto di vivere nel Califfato. Da alcuni passaggi possiamo desumere un diffuso disagio, che consiste essenzialmente nel contrasto tra le aspirazioni, i sogni, le illusioni sullo Stato Islamico e la realtà. L’adattamento al nuovo contesto, in soggetti migranti che hanno lasciato alle spalle il benessere della classe media, senza trovare un adeguato corrispettivo, è faticoso. Lo vediamo nella storia di Shams, la dottoressa originaria della Malesia, arrivata in Siria a 27 anni, da sola e rappresentante del piccolo gruppo di specialisti operanti nelle strutture statali del Califfato[22]. Su Facebook non nasconde le difficoltà degli inizi, la fatica di svolgere la sua professione in un ospedale poco attrezzato, la scarsa qualità nell’assistenza al figlio nato in Siria, dopo il matrimonio combinato. Sul piano antropologico il trauma dell’adattamento riconduce i Jihādisti nell’alveo della ordinarietà della condizione umana. Shams arriva a lanciare un monito, nei 10 Reminders for anyone who wants to make Hijra esortando a mettersi in viaggio solo per ragioni di fede, «non per la notorietà, non per il matrimonio, non per divertimento». Alle ragazze che sognano l’avventura romantica, la dottoressa fa intendere che è meglio lasciar perdere, perché alla fine prevale la delusione.[23]  Che questo passaggio possa indicare una critica al sistema totalitario retto da Al Baghdadi è fuori luogo, perché la dottoressa Shams – sempre che il nome corrisponda a una persona reale – fa trapelare emozioni profonde del suo essere parte dello Stato Islamico, come quella di scorrere l’elenco dei morti in azione – chiamata “la lista dei martiri” – nel timore, misto a gioia, di trovarvi il nome del marito.[24]

 

5.Da vittime passive ad attive operatrici di odio

 

Siamo arrivati al cuore del problema, cioè alla trasformazione del ruolo delle donne che si uniscono allo Stato Islamico. Chiunque faccia parte, in modo deliberato, di Da’ish non può non condividerne i progetti di annientamento di tutto ciò che non è conforme all’ideologia dello Stato Islamico. In questo senso, siamo indotti a riconoscere un grado rilevante di responsabilità personale nella scelta jihadista che segue all’hijra. La mia analisi non intende, però, esprimere giudizi, ma capire attraverso quali dinamiche le donne reclutate dall’Isis diventino attrici a pieno titolo dell’odio, in un contesto di indubbia sottomissione e violenza alla propria identità. Una violenza che, s’è notato prima, seppur brevemente, è esercitata in prevalenza da uomini, sulla base di diktat formulati da uomini rivolti a definire il ruolo femminile nella società e, in ragione di ciò, si inscrive nell’oppressione di genere, materia di questa giornata.

Per portare a tema il contagio della violenza occorre ritornare alle modalità con cui ragazzine e donne sono invogliate a optare per il Califfato: la forma seduttiva, nelle due forme dell’adulazione/adescamento (grooming) rivolta alle minorenni e delle suggestioni “femministe” per le più adulte e scolarizzate. Sedurre esprime, fin dalle sue radici semantiche, un portare-con-sé, che sul piano antropologico significa un progressivo svuotamento dell’identità di chi viene sedotto, rimpiazzata dalla presenza del seduttore. Oltre a rendere più vulnerabile la persona, il processo seduttivo innesca l’assoggettamento all’altro, la soggezione di un individuo debole a uno più forte. Sul piano identitario, questo tipo di interferenza fa sì che il soggetto più fragile si senta paradossalmente forte – in quanto amato/adulato –: uno stato fittizio, in realtà, che corrisponde alla sua facile manovrabilità. Il seduttore, ormai parte del sedotto, come un parassita, può disporne a proprio piacimento. Le parole utilizzate nella Rete che motivano la decisione dell’hijra – qui sei amata, qui ti aspetta il principe azzurro, qui sarai la moglie di un martire, qui darai la vita a martiri, qui sei rispettata, solo qui ti realizzi, qui sei importante, qui sei la più preziosa delle donne per la realizzazione dello Stato Islamico – finiscono per diventare strumenti di controllo identitario.

I meccanismi della sottomissione/soggezione sono ben noti agli studiosi degli abusi sessuali sui minori e della comunicazione dei pedofili: non a caso Leonard Shengold ha parlato di “soul murder”[25], assassino dell’anima a proposito del pedofilo. Ed è interessante notare che, in una prospettiva squisitamente teologica, padre Gabriele Amorth sia giunto alle medesime conseguenze[26]. Le dinamiche rilevabili nel contagio della violenza subito/agito dalle donne dell’Isis richiamano, per molti versi, quelle delle coppie e delle sette. Secondo Marie-France Hirigoyen, la fenomenologia di questo inaridimento interiore prevede i seguenti tratti essenziali[27]:

 

  • L’aprirsi di un varco nel soggetto più fragile (nel nostro caso la donna migrante vittima di seduzione), «che consiste nel penetrare nel territorio psichico dell’altro, nel buttare all’aria i confini e nel “colonizzarne” la sua mente».
  • L’aggressore «pensa al posto dell’altro, senza considerarlo».
  • È «come se non ci fossero più frontiere tra l’uomo violento e la sua compagna».

 

Il contagio della violenza parte quindi da questo “travaso” di odio e di mancanza di rispetto che il seduttore ha attivamente operato nei confronti della sua vittima. Personalmente non trovo soddisfacente la diagnosi della Hirigoyen che parla di «lavaggio del cervello»[28], sulla base di una consolidata corrente di studi psicologici, avallati – sul piano comportamentale – da episodi di dissociazione, citati nel DSM-IV.[29]La perdita o l’annullamento della coscienza sembra però difficile in un contesto come quello dello Stato Islamico. Con ogni probabilità, l’ingresso nel Da’ish porta al trasalimento della coscienza, nel confrontarsi con uno stato di cose molto diverso da quello sognato/immaginato nell’innamoramento seduttivo. La schiavitù psicologica, oltre che sociale – le migranti non possono lasciare la nuova comunità, per quanto è dato sapere, se non mediante una fuga ad altissimo rischio – induce allo slancio operativo. Si tratta dell’unico margine di autonomia, da parte di soggetti deprivati, ma che hanno deliberatamente scelto la strada dell’Isis, sebbene sull’onda di false suggestioni. Anche la violenza attivamente agita, come nel caso del controllo di altre donne ridotte in schiavitù, assume il carattere di uno smarcamento dai vincoli dell’assoggettamento, pur nel perverso ruolo di carnefici. Entriamo ora nella “zona grigia”.

 

6.La zona grigia in rapporto alla violenza di genere. Le migranti dell’Isis

 

 

Non sappiamo, come si è già detto, come vivano – realmente – le migranti nello Stato Islamico. Siamo a conoscenza, perché ne parlano loro stesse sui social network, di difficoltà logistiche – una su tutte, la connessione internet – ma ben poco si conosce del grado di vittimizzazione, di esposizione ad abusi, a obblighi sociali o familiari. La dottoressa Shams, sul suo blog, su Tumblr, sembra sincera quando scrive del disagio, fisico e psicologico, fronteggiato nei primi mesi nel Califfato, che le aveva persino fatto ipotizzare il rientro nel luogo d’origine:

 

«I was so hill. I had severe dehydration and the food make me sick. I was even thinking of going back, because I couldn’t handle the pressure in me». (Saltman and Smith, 2015: 42).

 

Il report Victims, Perpetrators, Assets. The Narrative of Islamic State Defectors[30] riunisce in forma anonima i racconti di 51 uomini e 7 donne, originari di 17 Stati, tra cui 9 occidentali (provenienti dall’America, dal Canada, dall’Australia). Purtroppo il report risulta carente nel chiarire i termini del fenomeno noto come “zona grigia”, che induce le vittime a diventare carnefici. Coniata da Primo Levi in I sommersi e i salvati (Torino, Einaudi, 1986) l’espressione rimanda all’ambiguità della condizione dei prigionieri dei lager nazisti – di cui egli aveva avuto diretta esperienza come testimone –: persone che, per terrore e ossequio, si prestavano a compiere su altri prigionieri, dunque loro pari, azioni di dominio, violenza, sopraffazione. Forma della degradazione del «sistema infero, qual era il nazionalsocialismo», la zona grigia produceva i ruoli dei “capi” e dei “kapò” del lager. Il secondo era una particolare prerogativa delle donne. Ripresa e approfondita soprattutto in rapporto a comportamenti criminali di donne soggiogate dal partner[31], la zona grigia è una questione aperta, di grandissimo interesse, anche per la filosofia morale e per l’antropologia. Nel primo caso, a fare problema è la questione della responsabilità personale, mentre nel secondo sono le dinamiche evolutive dall’amore all’odio o dal rispetto all’oltraggio ad essere portate a tema.

Il caso delle donne migranti nello Stato Islamico apre un terzo campo di analisi: il passaggio da vittime a carnefici non avviene in prigioniere (sebbene ciò si verifichi de facto), ma in persone libere che, scientemente hanno scelto di vivere nel Califfato, nonostante le modalità seduttive (grooming) o falso-femministe che le hanno fatto decidere in tal senso.

Per questa ragione io credo che la modalità della zona grigia, nelle Caliphettes si avvicini più a quella vissuta entro rapporti di coppia degenerati che agli esempi classici della prigionia nei lager. Comune a tutte le tipologie è la condizione di “collusione” con il nemico (Banwell, 2011: 7) e la misoginia, atteggiamento ostile delle donne verso le donne: nello Stato Islamico la brigata femminile Al Khansa vede convergere questo particolare odio di genere, facendo delle militanti esempi di spietatezza da manuale.

Se nella violenza di coppia la misoginia può derivare dalla reazione del proprio risentimento di vittima verso altre vittime, ancora più deboli e vulnerabili, nel caso delle soldatesse dell’Isis, appare piuttosto l’esito di un’esaltazione assai diffusa tra le neofite occidentali, rilevata spesso da attivisti dell’Isis (tratto comune alle teen agers Zehra, Meriem e alla ventenne migrante italiana Maria Giulia Sergio convertitasi all’Islam con il nome di Fatima). Più che nella brigata di sole donne, è nelle famiglie e nella vita quotidiana che la zona grigia opera facendo della componente femminile del Califfato la più robusta arma di guerra totalitaria. Perché si accetti di dare vita a figli destinati, fin dalla culla, alla morte in azioni di odio – questa è la perversa idea di martirio dello Stato Islamico[32] – significa che la persona si è svuotata di autonomia deliberativa, di sentire e di quelle capacità cognitive-reattive essenziali alla vita spirituale. Fare dei propri figli degli oggetti implica l’essere già, in buona parte, sulla strada dell’oggettificazione del sé. Si può controbattere che queste donne non hanno alternativa, né per sé né per la propria prole, alla consegna di sé all’odio.

Sul piano fenomenologico ci viene consegnata un’intuizione decisiva per lo studio sul contagio della violenza: ogni processo seduttivo, che attraverso una fasulla visione affettiva se-duce l’altro, ne fa un oggetto il cui vuoto di essere si esprime nello svuotare di senso la vita di altri, se-ducendoli con la medesima modalità con cui è avvenuta la vittimizzazione. Una forma di spersonalizzazione purtroppo diffusa nelle relazioni malate uomo-donna, con una misura preponderante a svantaggio della donna.

 

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[1] Tra gli articoli giornalistici recenti segnaliamo quello di A. Rettman, in https://euobserver.com/justice/134438

[2] «A significant percentage of all foreign terrorist travellers in Syria/Iraq are now female. Approximately forty percent of all Dutch travellers that are, or at some stage have been, in Syria/Iraq are female. Women have proven to be successful in facilitating and recruiting while still in the EU. Most of those who travel to Syria/Iraq marry fighters soon after arrival – or have already married fighters online before leaving – and give birth to children. Historical data suggest that women are less likely to (be able to) return then me». In “Europol (European Law Enforcement Agency)”, Te-Sat, 2016, pag. 7

[3] M. Bloom, Bombshell. The Many Faces of Women Terrorists, London, Hurst, 2011

[4] Ibidem, pag. 18.

[5] Tra le eccezioni, si ricordi una donna boia nella provincia di Homs, 2 aprile 2015.

[6] Intervista a P. Fisogni, pubblicata l’8 marzo 2016 sul quotidiano La Provincia di Como.

[7] E. M. Saltman, M. Smith, “Till Martyrdom Do Us Part”. Gender and the Isis Phemomenon”, ICSR, Institute of Strategic Dialogue, 2015.

[8] «In the land of jihād, I meet you, my dear mujahid». Tweet e immagine riportati in E. M. Saltman, M. Smith, “Till Martyrdom Do Us Part”. Gender and the Isis Phemomenon”, pag. 17.

[9] D. «Is it better to get married straight away and find someone before or stay at the maqar and then get married?». R. «It’s best for you to arrange someone that you want to get married trough a mujahid sister who is married so her husband can help find you a husband hence you’ll have time to know who he is etc. It’s better that way than staying at a maqar and waiting». Ibidem, pag. 23.

[10] Ne parlano E. M. Saltman e M. Smith in “Till Martyrdom Do Us Part”, op. cit., pag. 21.

[11] «The kuffār needs to understand we are the UMMA of MOHAMMED»

[12] La giornalista Anna Erelle, sotto l’identità fasulla di una giovane neoconvertita all’Islam, decisa a trasferirsi in Siria, ha intrattenuto un lungo scambio via Skype e social network con il jihadista Bilel. Ecco come quest’ultimo si esprime sulle donne europee approdate al Califfato: «Specialmente belghe e francesi… Sono le più numerose. Ti giuro, sono quasi peggio di noi. La loro moda del momento è la cintura di esplosivo intorno alla vita». «Per scatenare il terrore?», chiede la giornalista. «Sì, ma soprattutto per farsi esplodere, se occorre». A. Erelle, Nella testa di una jihadista. Un’inchiesta shock sui meccanismi di reclutamento dello Stato Islamico, Milano, Tre60, 2015, pag. 89.

[13] Le dichiarazioni sono tratte da “Non vedo l’ora di tagliare teste anch’io”, articolo di Andrea Priante, pubblicato sul Corriere della Sera il 3 settembre 2016, pag. 21.

[14] L’adescamento di un minore attraverso Internet è un reato, riconosciuto di recente anche nel nostro Paese (http://www.diritto24.ilsole24ore.com/art/dirittoPenale/2014-03-07/reato-grooming-cose-quando-111603.php). Con il termine “grooming” si fa riferimento ad una tecnica particolare in cui l’adulto potenziale abusante “cura” (dall’inglese “grooms”) la vittima, inducendo gradualmente il bambino o ragazzo a superare le resistenze attraverso tecniche di manipolazione psicologica.

[15] M. Bloom, “Women, Peace and Security”, INAF 587, Georgetown University, March 2, 2015. Il passaggio della lecture di Bloom è citato in A. Binetti, “A New Frontier: Human Trafficking and ISI’S Recruitment of Women from the West”, Georgetown Institute for Women, Peace and Security, pag. 2.

[16] L. Dearden, “Missing Syria girls: Parents must ‘keep passports under lock and key’ to stop children joining Isis”, The Independent, 23 February, 2015.

[17] “The Way People Look at Us Has Changed’: Muslim Women on Life in Europe”, Sept. 2, http://www.nytimes.com/2016/09/03/world/europe/burkini-ban-muslim-women.html?_r=0

[18] Baroness Sandip Verma, introduzione a “Caliphettes: Women and the Appeal of Islamic State”, di H. Rafiq & Nikita Malik, 2015, pag. 6

[19] «Recruiters lure girls by painting a “distorted view” of life inside the Islamic State, falsely advertising the “joys of sisterhood” and living for a higher purpose; in reality a “woman’s role is circumscribed for childbearing, marriage, cooking and cleaning, and they may not even be able to leave the house». In A. Binetti, “A New Frontier”, op. cit., pag 2, citazioni da K. Montgomery, “ISIS Recruits Brides to Solve the Middle East Marriage Crisis”, 8 May, 2015, www.syriadeeply.org.

[20] «While ISIS’ online recruitment techniques undoubtedly comport with the means required by the International Trafficking Protocol, the more complicated question is whether this recruitment is for the purpose of exploitation. Under the international definition, exploitation can be sexual in nature, slavery, or practices similar to slavery or servitude. When women and girls join ISIS, they might be forced into a marriage and/or find themselves in situations where an originally agreed-to marriage takes on nature of domestic servitude ore sexual slavery». A. Binetti, “A New Frontier”, op. cit., pag 3 e H. Sherwood et al. “Schoolgirls Jihadis: the femal Islamists leaving home to join ISIS fighters”, The Guardian, Sept. 29, 2014.

[21] «Recruiters frequently describe the glory and honor of being the wife of a jihadi living in utopia, without mention of the extreme violence perpetrated by ISIS, or the possibility that these girls will contribute to, and find themselves subject to, such violence». A. Binetti, “A New Frontier”, op. cit., pag. 3

[22] Fino dalla sua istituzione, il Califfato ha cercato di attrarre figure altamente specializzate, anche con inserzioni sul magazine di propaganda Dabiq: “A call to all Muslim. Doctors, engineers, scholars and specialists”, numero 1, pag. 11.

[23] «How can you get your pure intention distorted by messaging and talking about marriage to a stranger even to marry then? Please. Do it for the sale of Allāh. Because when you come here from any other reason than Allāh, you will be disappointed in the end (…) don’t make marrying a mujahid as your priority (…) not for fame, not for nikah (marriage) and not for fun». E. M. Saltman, M. Smith, “Till Martyrdom Do Us Part”. Gender and the Isis Phemomenon”, op. cit., pag. 42.

[24] «Nothing beats the palpitation that a Mujahid’s wife has whilst checking list names of Martyrs». Ibidem, pag. 35.

[25] L. Shengold, Soul Murder. The Effects of Childhood Abuse and Deprivation, New Haven, London: Yale University Press, 1989.

[26] Padre Gabriele Amorth (1925-2016), sacerdote paolino e celebre esorcista della Chiesa Cattolica, ha dedicato un’intensa riflessione al male agito dagli adulti nei confronti dei bambini. In L’ultimo esorcista. La mia battaglia contro Satana (Milano, Piemme, 2012, scritto con P. Rodari) ha affermato che gli stupri sui bambini, specie se operati da un genitore, inclinano a comportamenti malvagi. Una condizione, egli ha sostenuto, che espone questi giovanissimi alle suggestioni e alle possessioni demoniache.

[27] M.-F. Hirigoyen, Sottomesse. La violenza sulle donne nella coppia, Torino, Einaudi, 2006, pag. 90-91.

[28] Ibidem, pag. 90.

[29] Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, American Psychiatric Association, Washington D.C., 1994.

[30] A cura di P. R. Neumann del ICSR-The International Centre for the Study of Radicalisation and Political Violence

[31] Si veda: S. Banwell, “Women, Violence and Gray Zones: Resolving the Paradox of Female Victim-Perpetrator”, scaricabile da Internet Journal of Criminology, 2011, ISSN 2045-6743.

[32] Mi permetto di rinviare al mio “Postcards from the Hell. Evil and Islamic State”, capitolo 6 di Terrorism on Global Village, Nova Publishing, Usa, 2016.

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