EXAGERE RIVISTA - Gennaio-Febbraio 2024, n. 1-2 anno IX - ISSN 2531-7334

Finzioni. Menzogne della scienza e verità dell’arte

di Gianfranco Pecchinenda

 

 

Prima la verità

La menzogna è un concetto il cui significato deve necessariamente essere riferito al concetto, ad esso correlato, di verità.

“In verità, in verità ti dico” – diceva Gesù – “noi parliamo di quel che sappiamo e testimoniamo quel che abbiamo veduto; ma voi non accogliete la nostra testimonianza…”. È opportuno ricordare che la verità a cui faceva riferimento il figlio di Dio, in questa e non poche altre circostanze, era legata a un concetto già da secoli stabilizzato, parte integrante di un lungo e complesso processo storico attraverso il quale una ben determinata visione del mondo, quella occidentale, stava legittimando la sua rapida diffusione.

Le origini di un tale concetto di verità possono essere fatte risalire, com’è noto, almeno alla Grecia del IV secolo avanti Cristo. I padri del pensiero occidentale – Platone e Aristotele – furono tra i primi (o, almeno, tra i primi di cui è rimasta traccia) a provare ad imporre la verità come strumento per combattere lo scetticismo dei loro avversari sofisti. Essi opponevano l’esistenza di un mondo più reale del mondo sensibile, rispetto al quale i sofisti riuscivano agevolmente a dimostrare che si trattava di un mondo illusorio.

In seguito i neoplatonici situeranno questo mondo in cui si trova la verità in seno allo spirito umano, dove esso assumerà poi la forma di uno spazio di modellamento il cui strumento favorito sarà, come sappiamo, di carattere essenzialmente matematico.

 

La vera realtà

La successiva invenzione del concetto occidentale di realtà, sarà a sua volta strettamente legato a quello di verità: a partire dal momento in cui s’impone l’idea di una verità, dire la verità rinvia alla descrizione della realtà in quanto tale. L’intermediazione del Cristianesimo e del riferimento alla vera verità ricordata da Gesù, risulteranno ovviamente di importanza fondamentale nella storia della nostra cultura. È tuttavia necessario soffermarsi su alcuni altri importanti passaggi storici.

Nel corso del XVI e del XVII secolo, una nuova generazione di scienziati, come Copernico, Keplero e Galileo, inventava quello che può essere considerato il concetto di realtà oggettiva tuttora predominante in Occidente, assimilando le discipline scolastiche dell’astronomia (inserendo la prova analitica in materia di cosmologia sotto forma di modelli matematici) e quello della fisica (inserendo la prova dialettica sulle stesse questioni). A partire da allora, tutti i tipi di dimostrazione tendenti a legittimare lo statuto di verità di un dato sapere, in rapporto alla realtà, cominceranno ad assumere le caratteristiche di un ragionamento matematico.[1]

La storia di questo processo è abbastanza nota, in quanto completamente assimilata alla concezione del mondo affermatasi in Occidente nel corso degli ultimi due millenni. Meno comuni sono invece i riferimenti a concezioni del mondo rispetto alle quali una diversa visione della realtà, corrisponderebbe a una diversa interpretazione della verità.

 

Altre realtà, altre verità

Hegel, filosofo di non trascurabile importanza nella storia del pensiero occidentale, sosteneva che i cinesi avessero una grande tendenza alla menzogna. Nelle sue celebri Lezioni sulla filosofia della storia,[2] il grande pensatore tedesco scriveva che i cinesi sono conosciuti per mentire come nessun altro popolo, sorprendendosi soprattutto del fatto che, una volta scoperta la menzogna, nessuno se la prendesse a male, come se non esistesse tra loro una virtù morale, né alcun codice d’onore.

Secondo l’interpretazione legata alla logica hegeliana, la variabile causale di un tale fenomeno sarebbe da attribuire al Buddismo e, in particolare, alla concezione buddista del nulla e del vuoto come valori assoluti, che comporterebbero un inevitabile atteggiamento nichilista, in totale opposizione all’esistenza di un Dio che rappresenti l’autenticità della verità.

Se, diversamente da Hegel, si provasse a riflettere sul fatto che la credenza nell’immutabilità e nella permanenza di una verità unica e assoluta (che poi sia codificabile come Forma platonica o come Sostanza di un Essere) risponde, appunto, a un’idea alquanto relativa di soggettività morale e di oggettività normativa, connessa a un determinato orientamento storico-sociale esclusivamente occidentale, si potrebbe concedere al pensiero cinese un giudizio di valore non necessariamente così denigratorio. La filosofia cinese, fin dalle origini, assume (ben diversamente dal nostro essenzialismo di derivazione platonica) un carattere decostruttivo, che rompe totalmente con l’idea di un Essere (Sein), di un’Essenza (Wesen) e – appunto – di una verità unica e immutabile.

Lo stesso concetto di Tao (cammino) si contrappone palesemente a qualunque concetto di Essere o di Essenza: esso si adatta al mutamento e non gli si oppone (come sarebbe logico per qualunque “immutabile” Essenza). La negatività della decostruzione e dello svuotamento dell’Essere – con la sua tendenza verso il Nulla – viene vista fin dall’inizio, nella concezione cinese del mondo, come un processo (il cammino cui si riferisce il termine Tao) creativo infinito. L’idea del processo in continua trasformazione, opposta a quella di un’essenza (e di una verità) immutabile, dominerà anche la coscienza cinese del tempo e della storia: in esso non è infatti concepibile alcuna idea di creazione a partire da un principio assoluto, ma solo un processo continuo, senza inizio né fine, senza nascita né morte. Nessuna idea di originalità, né di origine, è in questo pensiero altresì possibile.

Se, tornando ancora a Platone, la vera realtà è quella delle origini, per cui ogni azione o forma umana altro non sarebbe se non un’imitazione che si allontana dall’originale, nel pensiero cinese l’originale non è invece nel passato, ma nella realizzazione del processo stesso; l’originale non possiede alcuna identità stabile e predefinita, ma è in continua trasformazione.

 

Le verità perdute

L’idea di un’identità originale è strettamente legata con quella di una verità essenziale, assoluta. Tuttavia è quanto meno plausibile un dubbio, quello di poter considerare la verità come una sorta di tecnica culturale, la cui funzione sociale, nella cultura occidentale, sia stata fondamentalmente quella di provare a evitare la realizzazione del cambiamento attraverso il ricorso all’esclusione e alla trascendenza (la teoria delle forme e delle idee platoniche). L’applicazione di un’altra tecnica culturale – come quella sviluppatasi in Cina – facendo ricorso all’inclusione e all’immanenza, ha infatti prodotto una diversa idea di originalità e, pertanto, di verità.

Se l’Essere – concetto fondamentale nel nostro pensiero – è uguale a se stesso, esso non consente alcuna possibile riproducibilità. L’interdetto platonico di ogni mimesis è una diretta conseguenza di una tale concezione dell’Essere. Ogni riproduzione implicherebbe infatti una “perdita” della sua essenza. All’opposto – è bene ripeterlo – concetto fondamentale del pensiero cinese non è l’essere ma il processo. Siamo posti così di fronte a una sorta di inversione temporale: ciò che viene dopo determina l’origine; lo decostruisce.

Ogni opera d’arte, ad esempio, altro non è se non un grande spazio vuoto, in costruzione, che si verrà riempiendo nel corso del tempo di nuovi contenuti, di nuove immagini.

L’idea che un’opera artistica possa essere il frutto della creazione, dal nulla, di un genio individuale, è d’altronde assolutamente peculiare della nostra cultura post-rinascimentale. Se, in precedenza, un falsificatore era in grado di dipingere bene quanto un suo maestro, allora egli diventava a sua volta il maestro e cessava di essere un falsificatore. È risaputo come lo stesso Michelangelo sia stato un geniale falsificatore. In un certo senso, egli fu uno degli ultimi cinesi del Rinascimento.

Nell’anno 1956, nel museo Cernuschi di Parigi, ci fu un’importante esposizione dedicata alla grande arte cinese. Ben presto si venne a conoscenza del fatto che le opere esposte erano dei falsi. Restava però il fatto che l’autore delle opere stesse (il falsificatore) fosse niente di meno che Zhang Daqian, il più importante pittore cinese del XX secolo, considerato una sorta di Picasso d’Oriente, le cui opere venivano nel frattempo esposte al Museo d’Arte Moderna nella stessa capitale francese.

Quando si venne a sapere che le opere degli antichi maestri cinesi erano state dipinte da lui, nel mondo occidentale si diffuse la voce che Zhang Daqian non fosse altro che un furfante falsario e menzognero. Tuttavia le cose stavano in modo diverso: la maggior parte dei quadri esposti da lui dipinti non potevano certo essere considerati dei falsi, per il semplice fatto che non esisteva nessun originale. Si trattava, invece, di riproduzioni di dipinti scomparsi, la cui memoria era stata trasmessa solo attraverso la scrittura di opere letterarie. L’artista non aveva fatto altro che creare (o ricreare, anche se questo termine non avrebbe senso in Cina) dipinti antichi che corrispondevano alle descrizioni verbali inscritte nei cataloghi dei dipinti perduti. Ciò che il genio di Zhang aveva prodotto e esposto al museo parigino, erano falsi che i collezionisti cinesi (e non solo) desideravano vedere e “scoprire”. In alcune opere egli trasformava le immagini in modo totalmente inatteso; riordinando, ad esempio, una composizione pittorica della dinastia Ming come se fosse un dipinto della dinastia Song.[3]

Solo una malintesa enfasi occidentalizzata relativa carattere originale, unico e irripetibile dell’opera d’arte poteva formulare un giudizio così degradante relativo a un’operazione artistica del genere, convertendola in una mera falsificazione. Si tratta invece di un tipo di creatività possibile solo nell’ambito di una cultura aperta al mutamento e al continuo processo di trasformazione di ogni fenomeno umano, in cui il concetto di verità e di falsità non è necessariamente contaminato dalla pervasiva centralità dell’Essere e della sua immutabile Essenza.

 

La verità e le sue copie

Il mondo di cui la caverna platonica è un’immagine, appare tuttavia all’uomo occidentale a partire da un duplice gioco di imitazioni, rapportato a un modello primordiale. Imitare significa produrre delle copie, poi copiare delle nuove copie che si riferiranno a delle realtà antecedenti, la cui origine non è una copia ma un modello. Ogni copia è, in effetti, copia di qualche cosa, anche se si tratta della copia di una copia precedente che, a sua volta, si dovrà far risalire a un modello da riprodurre che non è la copia di nulla se non di se stessa.

La “natura” delle cose vuole che ci sia una differenza ontologica tra l’essere del modello, che non ha bisogno se non di se stesso per esistere, e l’essere della copia, che si rapporta al modello iniziale. La Gioconda è stata il modello del dipinto di Leonardo da Vinci, replica fittizia della donna che ha posato davanti al pittore; l’opera però, in quanto dipinto originale, è il modello delle copie che l’atelier di Leonardo ha riprodotto, prima che gli apprendisti pittori dei secoli seguenti esercitassero la loro arte al Louvre davanti alla Gioconda.

La cultura occidentale, e il suo rapporto con la dialettica vero-falso, non è però così rigida e monolitica come potrebbe apparire da queste prime considerazioni. Già Raffaello, nella sua Scuola di Atene, dipingeva Platone e Aristotele mentre avanzavano tra i pittori dell’antichità, al centro dell’affresco, come a voler rappresentare due possibili e contrastanti modelli di Verità.

Com’è noto, l’elemento fondamentale della concezione aristotelica comportava una differenziazione profonda rispetto a Platone. Quest’ultimo svalutava la creazione artistica in quanto fuorviante imitazione delle cose sensibili, che allontanava dalla vera realtà (le cose sensibili non sono che un’imitazione effimera della vera realtà intellegibile, cioè delle idee). Aristotele non si preoccupava di criticare e confutare questa prospettiva, ma sviluppava direttamente in positivo e con grande coerenza il proprio ragionamento, che però andrebbe inteso in un senso totalmente opposto.

Anche per lui l’arte poetica è imitazione (mìmesis) della realtà sensibile o, se si preferisce, della natura: ma poiché quest’ultima è realtà a tutti gli effetti, il valore dell’arte resta legata soprattutto all’idea secondo cui l’imitazione produce una vera conoscenza di ciò che imita.

La profonda differenza tra i due grandi pensatori si manifesta soprattutto nella diversa concezione della natura stessa dell’arte, nella quale Platone non vedeva un semplice insieme di regole, che potevano essere insegnate e apprese – cioè una techne – bensì il risultato di un invasamento divino che coinvolgeva su piani diversi l’artista e il pubblico. Per Aristotele, invece, l’arte era proprio una techne: come ogni attività umana, essa imita la natura e in questo modo esprime non il particolare individuale e accidentale dell’agire bensì l’universale, realizzando un atto di vera conoscenza, perché non c’è vera conoscenza se non nell’universale.[4]

Tornando a Raffaello, Coleridge, rifacendosi al grande pittore romano, osservava che tutti gli uomini nascono aristotelici o platonici. I platonici – secondo un’acuta critica di Borges – sentono che le classi, gli ordini e i generi sono realtà; gli aristotelici, invece, le considerano delle semplici generalizzazioni; per questi, il linguaggio non è altro che un approssimativo gioco di simboli; per quelli, è la mappa dell’universo.

“Il platonico – scriveva il grande poeta argentino – sa che l’universo è in qualche modo un cosmo, un ordine; tale ordine, per l’aristotelico, può essere un errore o una finzione della nostra conoscenza parziale. Attraverso le latitudini e le epoche, i due antagonismi immortali cambiano di lingua e di nome.” [5]

Ma il mondo post-rinascimentale avrebbe poi minato l’immortalità di Platone. Sebbene nessun filosofo moderno potrebbe negare l’importanza storica di Platone, è proprio considerando la sua importanza dal punto di vista storico che i filosofi avrebbero finito poi per svalutarlo.

Gli esperti di storia della filosofia sanno che nel XIII secolo l’adeguamento del cristianesimo all’aristotelismo nascente, realizzato da Tommaso D’Aquino, soppianterà ufficialmente il precedente cristianesimo di tipo platonico fino ai giorni nostri.

Nella borsa valori delle idee, quando salì Aristotele, scese Platone. “Tuttavia la borsa valori delle idee, come tutte le borse valori, calcola il valore secondo le caratteristiche culturali della propria epoca”.[6]

La nostra visione del mondo, erede del Rinascimento, il cui modello scientifico è basato sull’empirismo e sulle generalizzazioni, tende a svalutare Platone. Il suo modello, però, permane sostanzialmente in una sorta di sottofondo mitico.

 

Arte e tecnologia: la verità della simulazione

Le innovazioni continue che si sono succedute nel corso degli ultimi decenni in campo scientifico e tecnologico, hanno tuttavia creato, in particolar modo in seno alle società occidentali, una situazione per molti versi paradossale: le forme di conoscenza tradizionali, connesse a narrazioni di carattere mitologico o religioso, sono state sostanzialmente abolite. Al loro posto si è fatto sempre più spazio un modello di conoscenza basato su un approccio che tende ad avvicinarsi all’analisi della realtà di tipo fisico, chimico o biologico e, come accennavamo, gli strumenti privilegiati per legittimare la verità della realtà saranno sempre più fondati matematicamente.

Come ha recentemente sottolineato in un brillante saggio il filosofo francese Jean-Francois Mattéi – il mondo attuale ha visto la definitiva consacrazione delle immagini e dei simulacri a spese di quella che a prima vista può essere definita la realtà vissuta. Stiamo assistendo – scrive Mattéi – “al capovolgimento radicale dell’ontologia fondamentale che aveva dominato la storia del pensiero occidentale a partire da Platone fino a Einstein. Il mondo visibile e le immagini che esse producono sotto forma di ombre, di riflessi o di sogni, di disegni, di dipinti e di fotografie, non sono più, come in Platone, lo specchio di idee intellegibili a cui viene conferita una consistenza apparente, ma degli effetti di simulacri suscettibili di produrre paradossalmente una realtà virtuale più reale della realtà attuale”.[7]

Si pensi all’uso delle mappe digitali sul proprio telefono cellulare o su un navigatore satellitare utilizzato per la localizzazione o la scelta di un percorso automobilistico da seguire; oppure all’uso delle proiezioni grafiche relative alla determinazione del clima (ma gli esempi potrebbero essere decine); oppure allo statuto di verità (il bisogno, per ogni notizia, di una conferma o legittimazione televisiva, o comunque mediata da una tecnologia) attribuito agli strumenti tecnologici, per rendersi conto del capovolgimento del senso che attribuiamo al significato di “reale” o a quello di “simulazione” o “rappresentazione” del reale.

Come ricorda ancora Mattéi: “il gesto platonico ispirerà ancora dieci secoli più tardi la scienza moderna fin dai suoi primi passi. Secondo la classica distinzione, proposta da Galileo e teorizzata da Cartesio, bisognerebbe, in effetti, evitare le qualità secondarie delle cose, vale a dire il loro aspetto fenomenico, per studiare le loro qualità primarie suscettibili di essere misurate e quantificate. Solo la scienza matematica può imporre una misura universale e permanente, mentre le qualità secondarie delle cose sono passeggere e, per ogni osservatore, soggettive. Quando Galileo si assumerà il compito di misurare la caduta dei corpi, utilizzando degli oggetti di massa diversa, proporrà l’ipotesi che questi cadranno verticalmente seguendo una stessa legge, indipendentemente dal loro rispettivo peso. La velocità di un corpo in caduta libera è proporzionale al tempo, e non al peso, di modo che una piuma e un oggetto di piombo che cadono nel vuoto, se non si tenesse in conto la resistenza dell’aria, arriverebbero al suolo allo stesso tempo.” [8]

La caduta dei corpi produce una legge matematica puramente intellegibile e completamente estranea sia alla sensazione sia all’intuizione. Il mondo della scienza dovrà essere in tal senso considerato in modo del tutto diverso e indipendente dal mondo delle sensazioni.

In altri termini, ciò che si può mettere in evidenza è una sorta di incompatibilità radicale del concetto di verità legittimato nel mondo della scienza da quello esperito nel mondo della vita quotidiana. Si tratta, detto ancora in altro modo, dell’affermazione, per molti versi paradossale – per quanto pienamente platonica – secondo la quale il mondo in cui viviamo e che noi percepiamo con i nostri sensi, non sarebbe il mondo reale.

A ben vedere, l’ipotesi ontologica appena ricordata, secondo la quale la vera realtà non è quella dei fenomeni che si possono percepire attraverso gli organi di senso (per cui, di conseguenza, l’intellegibile è più reale del sensibile e l’invisibile più reale del visibile), è un’ipotesi in tutto e per tutto di derivazione platonica.

Come ricordato in precedenza, la sua stabilizzazione può essere fatta risalire all’intrinseco legame di una tale nozione di realtà con il pensiero pitagorico secondo il quale il tessuto più intimo delle cose sarebbe costituito dai numeri. Resta però Platone – in qualità di fisico e matematico – il vero artefice della sistematizzazione di un tale modello di realtà concepito come un insieme di archetipi intellegibili, la cui natura è sostanzialmente matematica.

 

L’indifferenza alla verità

È noto, d’altro canto – come è stato rilevato in particolare da Nietzsche – l’antagonismo di Platone per l’arte: in effetti la bellezza non deriverebbe secondo Platone dall’arte (technè) ma dalla saggezza (sophia); il poeta, il pittore e lo scultore, nella loro glorificazione delle apparenze, sarebbero indifferenti alla verità. La storia del pensiero occidentale potrebbe in tal senso essere riassunta, sostituendo Aristotele con Omero, nella formula nietzschiana: “Platone contro Omero”, intendendo con essa la scienza contro l’arte, l’essenza contro l’apparenza, o, per dirla con le parole di Hegel, “la serietà, il dolore, il lavoro e la pazienza del negativo” contro la frivolezza, la gioia, l’oziosità e l’immediatezza del positivo.

Se però ci soffermiamo con maggior attenzione a considerare lo statuto platonico della mimesis, è possibile notare quanto egli cerchi meno di abbassare l’arte, di quanto non desideri elevare l’apparenza illusoria al livello dell’apparenza vera, cercando di giustificare razionalmente la sua possibilità di apparizione.

Il pensiero di Platone ha, da questo punto di vista, un’essenza soteriologica; esso cerca di salvare non le anime, il cui destino non dipende che da esse stesse, ma le apparenze, che sono i prodotti sensibili di modelli intellegibili e non la sterile autoproduzione di simulacri. In un certo senso è come se si potesse provare a salvare le apparenze mostrandone la loro razionalità nascosta.

Osservando la struttura mimetica del mondo che, lungi dal rifiutare le apparenze, gli dona pieno senso, Platone edifica la filosofia come una rivelazione dell’arte e uno svelamento del mondo che è l’opera d’arte assoluta.

D’altra parte – come faceva notare George Steiner – per quanto Platone sospettasse di Omero, non si può non rilevarne in molte occasioni anche una profonda ammirazione. Così come difficilmente si potrebbe dubitare delle sue straordinarie qualità poetiche. “I virtuosismi performativi che collocano il Fedone e il Simposio all’apice assoluto di tutta la letteratura non hanno bisogno di essere sottolineati. Il racconto che Platone fa della morte di Socrate ha permeato la coscienza occidentale. Esso è diventato la pietra di paragone di ogni aspirazione morale e intellettuale e l’unico confronto possibile è quello con le narrazioni dei vangeli. In senso astratto, da un punto di vista teoretico, la ‘prova’ socratica dell’immortalità dell’anima può risultare debole. Ma come azione di poesia è di bellezza trascendentale”.[9]

Al di là di tale precisazione, resta comunque che tutta la ricerca di Platone tende alla fin fine a cercare di rispondere alla seguente domanda: che cos’è la realtà? Che la risposta ad una tale domanda assuma riferimenti ontologici, cosmologici, antropologici o politici, resta sempre e in ogni caso sullo sfondo la questione della cosiddetta ousia, l’essenza di ciò che è reale.

L’altro versante della medaglia, il suo lato oscuro, per così dire, è rappresentato dal fantasma (phantasma), ovvero da quell’immagine priva di una qualunque essenza, estranea e differente dal modello di cui mostra solo l’apparenza e che sarebbe per Platone portatrice di caos e disordine (pertanto da distruggere e annientare).

 

Le menzogne del Realismo

Tuttavia, volendoci soffermare ancora sulla fondamentale questione degli strumenti elaborati nell’ambito della nostra cultura ai fini della produzione di conoscenza in rapporto alla “realtà” e alla “verità”, può risultare interessante un’analisi dell’affermarsi dell’idea del realismo in letteratura. Il modo narrativo tipico del romanzo può infatti essere considerato come la somma delle tecniche letterarie attraverso cui l’imitazione della vita umana nel romanzo ha seguito le procedure adottate dal realismo filosofico nei suoi tentativi di accertare e comunicare la verità e il rapporto con la realtà.

Innanzitutto il termine “realismo” in filosofia è utilizzato in modo ben diverso da quello utilizzato nel senso comune: il realismo dei filosofi è quello derivato dalla scolastica medioevale, secondo cui le vere “realtà” sono quelle universali, le classi o le astrazioni e non gli oggetti concreti e particolari che si possono percepire con i sensi. Da questo punto di vista, come sappiamo, il romanzo nasce in un’epoca, quella moderna, in cui l’orientamento intellettuale tende decisamente a rifiutare gli universali e le astrazioni. Le questioni poste dal dibattito teorico legato al realismo restano pertanto assai complesse. “Realtà”, diceva Nabokov, è una delle poche parole che non hanno alcun senso senza virgolette. Riprendendo questa ficcante citazione, Federico Bertoni ha proposto una sua ricostruzione di quella che può essere considerata una delle più sfortunate parole di uso comune, “che sembra condannata alla singolarità dell’idioletto, continuamente ricodificata, inscritta di volta in volta in una costellazione semantica poco più che privata, sempre bisognosa – oltre che delle rituali virgolette – di perifrasi, glosse, attributi, precisazioni.

Nelle colonne dei dizionari, oltre ai tradizionali significati filosofici, finiremo così per trovare il realismo letterario e il realismo pittorico (e architettonico, e teatrale, e cinematografico); il realismo in senso storico, incentrato per lo più sull’Ottocento, e il realismo come stile o modalità universale dell’arte, estesa da Omero al postmoderno; il realismo inteso come fedeltà, veridicità, crudezza, lucidità spietata di una rappresentazione, nella quale prevalgono gli aspetti sgradevoli o brutali, e anche il realismo come atteggiamento improntato a un senso concreto e pragmatico della vita; per non parlare degli usi del termine in ambito economico, politico, giuridico, medico, psicologico o pedagogico, che sono in gran parte estensioni derivate dal dibattito artistico”.[10]

Ciononostante resta difficile, se non impossibile in certi casi – e in modo particolare nelle scienze sociali –, sfuggire alla necessità di riferirsi in un modo o nell’altro a quelli che sono i significati più largamente diffusi di un tale concetto.

Il movimento della creazione letteraria, secondo Erich Auerbach, a partire da Omero fino a giungere al XX secolo, può essere visto come una lenta acquisizione della capacità di osservare la vita degli uomini sempre più da vicino e sempre più nei dettagli, ma anche al contempo da lontano e considerando tutte le sue possibili implicazioni storiche.[11]

“Secondo la dottrina classica degli stili – sostiene Pavel dal canto suo – il realismo, inteso come tecnica di attenta descrizione dei dettagli fisici e sensoriali, era il dominio proprio delle opere a soggetto comico o che descrivevano la gente umile. Gradualmente, pertanto, questa tecnica è diventata il metodo preferito per le opere con soggetti sempre più seri e si è estesa all’insieme della letteratura. Così come la tecnologia, il realismo è progredito attraverso gli anni”.[12]

La cosa più rilevante che denota Pavel nel suo monumentale lavoro è la centralità che viene assumendo nella produzione letteraria l’individuo: il suo rapporto con le norme, il suo desiderio di abitare (radicamento) e inserirsi (o allontanarsi) dal mondo, dalla realtà della vita quotidiana, l’analisi dettagliata della sua interiorità.

Tutti temi che s’incastrano alla perfezione con una certa evoluzione della teoria sociologica.

Partendo da alcune considerazioni sui due principali modelli esemplari della letteratura premoderna, Auerbach nota: “La storia d’Abramo e d’Isacco non è documentata meglio di quella d’Ulisse, di Penelope e d’Euriclea. Sono favole entrambe. Ma al narratore biblico, all’Eloista, occorre credere alla verità oggettiva del sacrificio d’Abramo; l’esistenza delle norme religiose della vita riposa sulla verità di questa e di simili storie. Egli deve credervi con passione, o almeno – come ammettevano, e forse ancora ammettono, parecchi interpreti illuministi – doveva essere un bugiardo consapevole: non un bugiardo innocente come Omero, che mente per dar piacere, bensì un mentitore politico, ben consapevole del fine, e che mentiva nell’interesse di una volontà di dominio.[13]

Il narratore biblico, nelle sue esposizioni, non mirava alla realtà (e se anche gli riusciva, era comunque un mezzo e non un fine); mirava invece alla verità.

“La pretesa di verità della Bibbia – sottolinea ancora Auerbach – non soltanto è più urgente che in Omero, ma è tirannica, esclude ogni altra pretesa. Il mondo delle storie della Sacra Scrittura non si accontenta di voler essere la vera realtà storica, ma afferma d’essere l’unica vera, d’essere il mondo destinato al dominio esclusivo. Tutti gli altri teatri, eventi e ordinamenti storici non hanno alcun titolo per presentarsi indipendenti; ed è stato promesso che tutte le civiltà, tutta la storia degli uomini, deve ordinarsi dentro la sua cornice e ad essa sottomettersi. Le storie della Sacra Scrittura non si prodigano, come fa Omero, per attirarsi la simpatia, non ci lusingano per allietarci e incantarci; ci vogliono assoggettare, e, se ci rifiutiamo, siamo dei ribelli.[14]

Resta tuttavia il fatto che negli ultimi due secoli la mimesis e la narrativa occidentali hanno acquisito, attraverso l’affermazione del romanzo, uno statuto del tutto nuovo ed originale, segno di una metamorfosi tellurica dei rapporti fra letteratura e verità, fra mimesis e verità, che ha avuto luogo alle soglie dell’epoca moderna. Il problema che si pone a partire dagli ultimi due secoli è strettamente legato al fatto che l’arte e la letteratura hanno cominciato ad essere concepite non più come un ambito in cui vengono rappresentate verità teologiche, cosmologiche, morali o anche storiche già note, ma come un possibile modello di conoscenza della realtà e della verità, alternativo a quello proposto dal pensiero religioso o scientifico.

Il problema, insomma, sembra essere venuto fuori da quando si è cominciato a pensare che la verità, dopo essersi liberata dalle fantasiose pastoie del linguaggio mitico-religioso, è sembrata in grado di poter sfuggire anche alle rigidità del linguaggio scientifico.

 

Credere per vedere

Proviamo allora a porre le cose in modo diverso e diciamo che la verità esiste se noi crediamo che esista. E la menzogna può esistere solo se esiste la verità. La, e non una verità, perché possono esistere molte menzogne, ma una e una sola verità in cui credere. Quella che, nel solco della tradizione giudaico-ellenistico-cristiano, era stata successivamente legittimata dal discorso matematico-scientifico fondato nella nostra modernità.

Ireneo Funes, il celebre personaggio dotato di una memoria straordinaria creato da Jorge Luis Borges, era caratterizzato, tra l’altro, dal fatto di non riuscire a comprendere come “il simbolo generico cane abbracciasse tanti individui differenti di diversa grandezza e forma; gli dava fastidio che il cane delle tre e quattordici (visto di profilo) avesse lo stesso nome del cane delle tre e un quarto (visto di fronte). La sua stessa faccia nello specchio, le sue stesse mani lo sorprendevano ogni volta”.

Occorre ribadirlo: L’unica verità possibile, è quella in cui si crede.

Ciò che il grande scrittore argentino aveva intuito, inventando il suo Funes el memorioso, era l’epocale cambiamento di paradigma in atto nelle secolari concezioni della realtà e della verità ereditate dalla cultura occidentale moderna.

Ovviamente Borges era in buona compagnia: insieme a lui c’erano Freud e la psicoanalisi, Monet, Picasso e una molteplicità di avanguardie artistiche sbocciate tra fine Ottocento e inizi Novecento; Proust, Joyce e i movimenti poetici e letterari legati al flusso di coscienza; Bohr, Heisenberg Schrödinger e la fisica quantistica. E, ancora – e forse soprattutto – Nietzsche e il prospettivismo, Husserl e tutto il movimento fenomenologico novecentesco.

Cosa avevano suggerito, nel loro insieme, tutte queste imprese culturali, accompagnate peraltro da un numero impressionante di innovazioni tecnologiche, che vanno dal cinema alla radio, dall’aeroplano alla televisione? Che non può esistere una realtà oggettiva se assumiamo un solo punto di vista; che quante più prospettive, quanti più punti di vista abbiamo su una realtà, tanto più questa diventa completa e, appunto, oggettivamente reale.

In altri termini l’idea che cominciava ad affermarsi, per poi diventare scientificamente dominante, era quella secondo cui la realtà non si presenta a noi in modo predefinito, in una forma data, ma essa è sempre un processo in divenire, frutto dell’interazione dialettica e incessante tra soggetto e oggetto: la realtà è un fenomeno incerto; la verità è una previsione probabilistica.

 

Le dimensioni della verità

Tra i diversi movimenti artistici e culturali ricordati, la fenomenologia e la meccanica quantistica sono state certamente tra le più straordinarie rivoluzioni del XX secolo. I modelli di pensiero di cui esse si sono fatte portatrici, hanno provocato quello che può essere considerato il più radicale cambiamento di prospettiva nel pensiero umano verificatosi da quando i primi filosofi greci cominciarono ad abbandonare il Mito a favore della ricerca di princìpi razionali nella spiegazione dei fenomeni umani.

Grazie alle teorie introdotte dalla meccanica quantistica e dal metodo fenomenologico, la nostra visione della realtà si è totalmente modificata. Il prezzo che i nuovi approcci scientifici hanno dovuto pagare per poter integrare queste nuove prospettive nei loro modelli di spiegazione della realtà, è stato quello di dover accettare molte idee apparentemente controintuitive.

Questo significa, in parole povere, che diversamente da quanto abitualmente accade nella nostra quotidianità, governata dai solidi paradigmi del buon senso comune, ciò che percepiamo attraverso i sensi comincia a diventare sospetto. Come dicono i fenomenologi, “l’atteggiamento naturale” (quello secondo cui la “realtà” e i fenomeni che la caratterizzano sono quelli che possiamo vedere, toccare e in generale percepire con i nostri sensi) comincia ad essere una garanzia sempre meno attendibile per poter spiegare in modo adeguato quello che accade intorno a noi.

Tra le varie intuizioni tipiche di ogni essere umano adulto e socializzato, c’è quella per cui gli oggetti che ci circondano (il tavolo, il computer, la sedia, i libri, la lampada, il cane), esistono in modo indipendente da noi e possiedono certe proprietà oggettive.

A tali intuizioni se ne aggiungono altre, più o meno date per scontate a seconda del nostro grado di istruzione, ovvero della più o meno approfondita conoscenza di alcune elementari teorie elaborate dalla fisica classica, in base alle quali abbiamo la certezza (la “naturale” e “assoluta” certezza, aggiungerei), del fatto che se con un lieve movimento della mia mano lascio cadere la penna dal tavolo, questa precipiterà sul pavimento. E con altrettanta certezza saprò prevedere che, ripetendo lo stesso gesto migliaia di volte, l’evento si ripeterà sempre allo stesso modo, seguendo una legge pressoché universale (o “naturale”), traducibile peraltro in formule matematiche affidabili e precise.

Queste intuizioni, ovviamente, continuano a esserci di grande aiuto nella vita quotidiana, proprio perché agevolmente intuitive e pertanto prevedibili con “matematica certezza”.

Quello che suggeriscono invece le nuove visioni del mondo novecentesche, però, e con altrettanta “matematica certezza”, è che se cambiamo la prospettiva, ovvero, in questo caso, se osserviamo gli stessi fenomeni assumendo come punto di vista (per esempio grazie a un microscopio) una dimensione molto più ridotta (per esempio a livello atomico), cominciamo ad osservare negli stessi oggetti dei fenomeni strani e imprevedibili che ci obbligano a mettere in dubbio il nostro “atteggiamento naturale”, ovvero le teorie scientifiche stesse che sostenevano la nostra unica “verità”. Una verità che, a questo punto, tende a diventare sempre meno certa: probabilità e indeterminazione cominciano così a sostituire le nostre vecchie certezze e previsioni; la verità tende a somigliare sempre più a un preconcetto.

Ma come è stato possibile che la fisica classica, quella di Galileo e di Newton, che riusciva a prevedere e calcolare in modo così elegante ed efficace, con poche equazioni, i moti dei corpi celesti – così come la caduta della penna dalla mia scrivania – risultasse invece fallimentare per descrivere fenomeni come quelli che si manifestano a livello atomico? Eppure era stato solo grazie alla fisica classica che si erano potute progettare le ali per gli aeroplani, i grattacieli o i ponti in grado di resistere a venti e terremoti. Perché tutto funziona così bene, se la meccanica quantistica ci mostra con evidenza scientifica che il mondo non funziona affatto come pensavamo?

Succede questo – spiegano in modo chiaro ed efficace il premio Nobel per la fisica Leon Lederman e il suo collega Christopher Hill: che quando enormi quantità di atomi si uniscono a formare oggetti macroscopici (come aeroplani o ponti), “gli inquietanti e controintuitivi fenomeni quantistici, con il loro carico di incertezza, sembrano cancellarsi a vicenda e riportare i fenomeni nell’alveo della precisa prevedibilità della fisica newtoniana. Il motivo per cui ciò accade, in soldoni, è di natura statistica. Quando leggiamo che il numero medio di componenti delle famiglie americane è pari a 2,637 individui, siamo di fronte a un dato preciso e deterministico. Peccato però che nessuna famiglia abbia esattamente 2,637 componenti”.[15]

Quando cambia la dimensione dell’oggetto osservato, cambiano i criteri di legittimazione della verità, insieme alla prospettiva stessa dell’osservatore: è un fatto evidentemente sociologico: due o più individui sono una cosa diversa dalla somma dei due singoli individui; si tratta, tra l’altro, di uno dei principi fondamentali del nostro vecchio e solido approccio strutturalista.

 

La verità è un preconcetto

Per poter vedere sempre lo stesso cane, Ireneo Funes aveva bisogno certamente degli occhi. Come tutti noi, egli aveva però necessariamente anche bisogno di un altro strumento. Tale strumento è il concetto. Nel caso di Funes, ciò che gli faceva difetto era un concetto generale di cane che gli consentisse non solo la realizzazione di una percezione unica dello stesso animale nel corso delle trasformazioni spazio-temporali che lo investivano, ma che contenesse anche le diverse possibili razze, le diverse possibili età, e così via.

In tal senso ogni concetto è, sempre e necessariamente, un preconcetto; ovvero la sua elaborazione deve precedere sempre e comunque l’azione percettiva dettata dai sensi.

Uno degli esempi più classici derivanti dalla fenomenologia per spiegare il complesso rapporto percettivo dell’essere umano con il mondo esterno, è quello proposto da Husserl a proposito del suono.  Per Husserl il suono può costituire un ottimo esempio di un fatto percettivo: “un suono è questo suono” – egli scrive – “perché io ho abbassato questo tasto del mio pianoforte e non un altro, e non di un altro strumento”. Questa prima spiegazione sembra chiarire sufficientemente l’origine e la natura del fatto individuale percepito: “io ho da un lato una causa immediata (abbassamento del tasto) e dall’altro un’accidentalità caratteristica (avrei potuto scegliere un altro tasto, e allora avrei avuto un altro fatto percettivo: quello e non questo: Una diversa individualità”.

Se però si cerca di far risalire l’individualità del fatto percettivo alla sua causa immediata e all’accidentalità della scelta, rimane non indagata un’altra caratteristica fondamentale, inerente il fatto concreto relativo alla percezione: un suono, infatti, fa riferimento necessariamente a un “universale”, denominato dal predicato “suono”: noi diciamo questo è un suono, per riferirci all’esperienza appena citata; di fatto, ci stiamo riferendo a una delle possibili esemplificazioni individuali di un’essenza universalmente conoscibile come il suono.

Siamo qui di fronte a una tipica manifestazione dell’eidos husserliano, elemento a mio avviso indispensabile per comprendere al meglio l’importanza (e l’efficacia teorica) di quello che Ortega y Gasset definirà come concetto.

Noi non potremmo dire, per esempio, questo è il suono; dobbiamo proprio dire un suono, perché solo così possiamo indicare che il contenuto della nostra attenzione percettiva sia un individuale questo qui, un accidentale contenuto che potrebbe anche mutarsi pur rimanendo e conservandosi la caratteristica universale “suono”. La caratteristica “suono” e la caratteristica un “suono”, sono infatti strettamente correlate. Il semplice “suono” non sarebbe immaginabile affatto, non sarebbe percepibile affatto; immaginare o percepire il “suono” non è possibile senza immaginare o percepire un “suono”. Quest’ultimo fenomeno – com’è noto – è legato al fatto che un predicato è una mera astrazione. Esso implica, infatti, una capacità di generalizzazione che solo un cervello particolarmente evoluto (come aveva intuito da George Herbert Mead in riferimento al processo di maturazione cognitiva necessario all’acquisizione del cosiddetto all’altro generalizzato, e come oggi adeguatamente spiegato dalla ricerca neuroscientifica), e lo sviluppo di una società particolarmente complessa, in grado di produrre un sistema di segni dotato di un elevato livello di astrazione simbolica (come analizzato brillantemente da Norbert Elias) possono rendere possibile.

Secondo Husserl – in estrema sintesi – l’individuale “questo qui” è sempre caratterizzato come un’essenza; esso è anzi l’incarnazione di un’essenza e nessuna individualità potrebbe essere percepibile se non in connessione con l’essenza che l’individualità riveste e rappresenta da un particolare e accidentale punto di vista o, meglio, da una particolare prospettiva.

In altre parole, una visione essenziale si fonda sempre su una visione individuale e nessuna visione individuale sarebbe possibile senza un’ideazione correlata.

 

La verità è solo una probabilità

Ireneo Funes, nonostante la sua straordinaria capacità mnemonica, soffriva di un gravissimo problema di adattamento. Ricordando tutto, e non avendo la capacità di dimenticare nulla, la sua mente non era in grado di formulare pensieri astratti, rendendolo quindi incapace di elaborare concetti.

Privato di questa dote, Funes non poteva disporre di modelli di rappresentazione della realtà; né di quella stimolata dall’ambiente esterno, né tantomeno di quella interiore. Il grande psicologo russo Alexander Lurija, che ha avuto tra i suoi pazienti un celebre mnemonista (le cui caratteristiche sono molto simili a quelle descritte nel racconto di Borges), spiega che i ricordi d’infanzia di questo soggetto erano molto più ricchi di quelli di una persona normale, proprio perché essi non erano stati mai trasformati in concetti o parole. Ciò che accade – egli spiegava – è che in un soggetto adulto le immagini visive originarie legate ai ricordi, vengono in genere sostituite da idee relazionate con il loro senso e significato. Secondo Lurija il pensiero visivo primario viene sostituito, normalmente, da un pensiero più verbale e logico, con il quale le immagini visive si mantengono nella periferia della coscienza, a meno che non risultino utili per comprendere ed elaborare concetti astratti.

Una delle conseguenze più drammatiche e invalidanti di questo tipo di disabilità, è quella di limitare enormemente la capacità di comprendere il senso di un discorso articolato, oppure il contenuto della lettura di un brano. Esistono un’enormità di casi clinici in cui individui in grado di recitare a memoria pagine e pagine di poemi o di racconti, non sono poi in grado di isolare il contenuto di un brano per comprenderne il significato e seguirne la narrazione.

In altri termini, mentre in genere astraiamo e ricordiamo pochi eventi per poter seguire il senso di una narrazione, questi soggetti dalla memoria straordinaria, a causa di questa incapacità di astrazione ad essa correlata, costruiscono un’enorme quantità di associazioni di parole senza però riuscire a comprendere la storia da esse narrata. Proprio come nel caso di Funes.

 

Il cervello baynesiano e le menzogne dei sensi

Benché la difficile ricerca dei possibili correlati materiali della coscienza abbia compiuto negli ultimi decenni passi da gigante, anche grazie agli enormi progressi tecnologici di supporto ai più recenti studi neuroscientifici, siamo ancora ben lontani dal poter spiegare quali siano gli specifici correlati neuronali che corrispondono all’incapacità di Funes o dei pazienti di Lurija (così come a quella, ovviamente, di tutti i casi simili che emergono dalle corpose statistiche oggi disponibili) di elaborare concetti astratti. Ancora più complessa resta la risposta al celebre dubbio cartesiano che, nel suo encomiabile tentativo di rifondare il concetto di verità ereditato da Platone, riferendosi a una dimensione diversa da quella della realtà esteriore, aveva finito per inaugurare una nuova era filosofica. Il suo metodo, come è noto, proponeva di cercare infatti un fondamento certo e indubitabile alla verità, attraverso la messa in dubbio di tutto ciò che fosse sospettabile di falsificazione, a partire proprio dalla stessa realtà sensibile.

I sensi ingannano, o possono ingannare – sosteneva di fatto Cartesio – conducendolo più o meno consapevolmente ad inaugurare un’epoca in cui ogni verità potrà essere messa in dubbio. Ogni verità tranne una, quella fondata sulla certezza dell’esistenza dell’interiorità di un io inteso come soggetto pensante.

Già da tempo, tuttavia, a ulteriore sostegno dell’approccio fenomenologico, anche le neuroscienze tendono a mettere fortemente in dubbio tale genere di verità interiore. Le ipotesi oggi più accreditate relative al rapporto tra apparato sensoriale, cervello e ambiente circostante, tendono infatti a erodere definitivamente ogni residuale certezza su ogni possibile verità fondata esclusivamente sul cogito.

Nel linguaggio delle neuroscienze moderne, ad esempio, il cervello può essere considerato una sorta di macchina che prevede il futuro. Volendo utilizzare una terminologia un po’ più articolata, il cervello sembrerebbe funzionare come una sorta di motore inferenziale di tipo baynesiano. Tale termine deriva dall’applicazione di un teorema sviluppato da Thomas Bayes, matematico e ministro presbiteriano inglese del Diciottesimo secolo, che collegava la probabilità condizionata del verificarsi di un evento P, essendosi verificato Q, alla probabilità condizionata del verificarsi di un evento Q, essendosi verificato P.

Il teorema di Bayes – sia detto per inciso, anche come forma di esemplificazione – è ampiamente utilizzato nell’elaborazione delle reti di dati che costituiscono il cuore di molti dei sistemi dell’intelligenza artificiale. Quelli usati in medicina, per esempio, vengono utilizzati per elaborare diagnosi: dati un insieme di sintomi e di risultati di esami, il sistema AI calcola le probabilità di varie cause, suggerendo come diagnosi la condizione che ha una probabilità più elevata di essere causa di quei sintomi.

Un cervello baynesiano, in teoria, funzionerebbe calcolando la causa più probabile degli input sensoriali sulla base delle proprie convinzioni in merito alle probabili cause di tali input. La migliore congettura che il cervello possa fare sulle cause delle sensazioni affiorerebbe, per così dire, sotto forma di percezione. Naturalmente si tratterebbe di un processo continuo.

Tale ipotesi – giova sottolinearlo – è anch’essa fondata sugli sviluppi del presupposto fenomenologico dell’incompletezza prospettica ricordata poc’anzi in riferimento al cane di Funes.

Il cervello utilizzerebbe i modelli interni del corpo e del mondo per formulare previsioni riguardo all’input sensoriale atteso. Qualunque differenza fra i segnali attesi e quelli effettivi, viene a costituire un errore di predizione. Il cervello adopererebbe questi segnali di errore per aggiornare la sua banca dati (di convinzioni, certezze o verità), in modo da poter formulare predizioni (e, quindi, avere percezioni) più accurate qualora segnali analoghi dovessero ripresentarsi in futuro.

Tali modelli di codifica predittiva, che si servono dell’inferenza baynesiana, sono stati applicati perlopiù alla spiegazione dell’esterocezione: ovvero all’interpretazione delle sensazioni esterne provenienti dall’interazione del corpo con l’ambiente. Anche l’enterocezione coinvolge però la percezione, pur concernendo l’interpretazione dei segnali provenienti dall’interno del corpo.

Il cervello deve conoscere lo stato interno del proprio corpo per stabilire se esso si sia allontanato dalla sua condizione di equilibrio omeostatico,[16] o se sia necessario avviare delle azioni per riportarlo a uno stato fisiologico ottimale per la sopravvivenza.

Questa tesi della codifica percettiva – all’estremo – ci dice che non si hanno mai certezze, o verità immutabili: ciò che si percepisce e ciò che si prova (a livello di emozioni e sentimenti) è sempre e soltanto la migliore delle ipotesi del cervello riguardo alla causa dei segnali (interni e esterni al corpo). La codifica predittiva potrebbe, in pratica, essere applicata a qualunque cosa il cervello faccia e, letta in tal senso, potrebbe sostenere l’ipotesi che il cervello abbia come funzione evolutiva essenziale quella di ridurre al minimo ogni possibile errore di predizione.

Il cervello baynesiano, in effetti, servirebbe fondamentalmente a evitare ogni possibile sorpresa, conservando un’immagine stabile del corpo, dell’ambiente e di se stesso. Si tratta di un modello probabilistico che può generare diverse predizioni riguardo alle cause degli input sensoriali, basandosi su un insieme di convinzioni precedenti in merito alle cause possibili. Tenendo conto dei dati sensoriali attuali, il cervello attribuisce nuove probabilità alle sue predizioni, e la predizione a cui assegna un valore di probabilità maggiore, è ciò che noi percepiamo come causa di quelle sensazioni. Successivamente il cervello acquisirà un nuovo insieme di convinzioni, aggiornato alla luce della sua nuova conoscenza del proprio corpo e dell’ambiente, e così via.

 

Lo stupore della finzione e le ambigue verità algoritmiche

Accade però che talvolta le attese vengano completamente stravolte e la verità si riveli del tutto infondata. L’individuo (un cervello che interagisce in un ambiente attraverso un corpo) si trova così posto di fronte a una sorpresa. Le strategie fondate sul calcolo baynesiano delle probabilità crollano su se stesse. Diventa vitale, a questo punto, ritrovare nuove certezze, nuove verità. Sono le fasi dell’esistenza in cui, frastornato dallo stupore, l’organismo si riversa nell’ambiente circostante  formulando ipotesi di tipo creativo. In pratica, quanto maggiore sarà la discrepanza fra le previsioni cerebrali riguardo alle cause degli input sensoriali e gli input sensoriali stessi, maggiore sarà l’elemento di sorpresa. Ridurre al minimo la sorpresa è come ridurre al minimo l’errore di predizione – il che significa avere un cervello con modelli compatibili con la realtà interna ed esterna: il cervello ha sempre bisogno di formarsi un modello che contenga le aspettative relative a tutto ciò con cui ha a che fare, compreso se stesso. In tal senso il sé può essere considerato una sorta di rappresentazione cerebrale che, fondamentalmente, non ha nulla di diverso da qualunque altra rappresentazione di qualunque altro oggetto presente nell’ambiente circostante. Da questo punto di vista, tutto ciò che costituisce il sé in quanto oggetto – gli aspetti del sé sperimentati dal sé in quanto soggetto – potrebbe essere inteso come una percezione che scaturisce dai meccanismi predittivi del cervello: forse siamo solo la migliore congettura del nostro cervello riguardo alle cause di tutti i nostri segnali interni ed esterni messi insieme.

La nostra storia recente sembra dal canto suo essere sempre più dominata dall’impatto degli algoritmi sulle nostre vite: il bisogno esistenziale di prevedibilità appena ricordato, grazie allo stupefacente sostegno di ingegnose tecnologie informatiche, si è unito al potere della matematica per provare a risolvere ogni possibile incertezza. Nel corso degli ultimi cinquant’anni, il ricorso all’algoritmo sembra essere diventato lo strumento più efficace per eliminare ogni ambiguità, sottraendo definitivamente alla matematica la forma idealizzata (o divinizzata) che la filosofia platonica e neoplatonica le aveva impresso nel corso dei secoli.

Se definiamo un algoritmo come una sequenza di istruzioni in base alle quali un calcolatore elabora un processo di calcolo, e ci affidiamo al principio per cui un problema viene suddiviso in sottoproblemi di dimensione più piccola e analoghi all’originale, l’apporto fondamentale di ogni algoritmo resta solo ed esclusivamente quello di riuscire a realizzare un programma in grado di prescrivere, tra le sue istruzioni, l’esecuzione di un sottoprogramma identico a se stesso, ma applicato a un insieme di dati di dimensione inferiore. Il grado di ambiguità sarà, per principio, sempre minore. Tuttavia, sempre in base allo stesso principio, esso non potrà mai essere del tutto eliminato. L’impiego del calcolo digitale in ogni settore della nostra vita quotidiana, superata la fase illusoria della novità, ha infatti finito con l’esasperare, piuttosto che con il risolvere, l’onnipresente e irriducibile grado di ambiguità presente a valle di ogni operazione matematica di carattere algoritmico. “Con l’infinita varietà degli algoritmi che servono oggi per selezionare l’ingresso nelle scuole o nelle università, per incriminare presunti colpevoli, per assumere o licenziare nelle aziende, o semplicemente per sorvegliare i nostri movimenti – scrive il matematico Paolo Zellini – si sacrifica spesso l’equità per l’efficienza, l’attendibilità del giudizio per la funzionalità dell’apparato. L’ambiguità rischia sempre di trascinare in un’oscillazione senza rimedio”.[17] Quello che si intravede, a questo punto, sembra essere una ripetizione senza fine, un tentativo di ridurre un modello in cui il problema di fondo non viene risolto perché, sostanzialmente, non viene neppure posto: “Infatti tutto ciò che fa l’algoritmo lascia fuori di sé una domanda sulla natura più intima dell’uomo e sullo stesso algoritmo. Si potrà definire una nuova procedura meccanica più perfezionata che ci aiuti a rispondere a tale questione, ma ci sarà sempre una domanda inevasa sul carattere precipuo della nostra identità e del nostro discernimento”.[18]

 

Le neuroscienze e la grande menzogna dell’io

In conclusione, quali nuove verità possono oggi rivelarci le nuove scienze sulla verità e la menzogna dell’io, della coscienza e della mente, rispetto ai grandi contributi e alle brillanti intuizioni della filosofia e della psicologia degli ultimi due secoli? La risposta è, a mio parere, che possono dirci molto poco di nuovo.

Tuttavia esse possono dirci qualcosa di straordinariamente interessante rispetto a quelle che dovrebbero essere le fondamenta scientifiche del concetto di verità, almeno nell’ambito del tortuoso e sempre più complesso discorso dell’uomo sull’uomo.

In particolare le neuroscienze, allo stato attuale delle loro conoscenze, ci confermano che potremo imparare sempre di più sull’esistenza dell’uomo – ovvero continuare a conoscere e comprendere sempre meglio il suo comportamento (il suo io, la sua coscienza, la sua mente) – grazie all’arte e alla letteratura, che non grazie alle scienze intese come discipline sperimentali, dalla psicologia alla sociologia, dalla fisica alla chimica, dalla biologia alle neuroscienze stesse.

Il motivo di una tale conclusione è alquanto semplice da descrivere: mentre gli approcci scientifici sperimentali tendono a frammentare, suddividere, tagliare a pezzetti l’ineludibile unità dell’essere umano, le arti si sforzano di tenerlo insieme. L’artista esprime tutto ciò che allo scienziato è precluso.

Sebbene le neuroscienze abbiano fatto passi da gigante nella comprensione dei modi attraverso cui la coscienza umana si sia formata nel corso dell’evoluzione e di come ci consenta di agire e di far emergere il nostro senso di identità, esse continuano ad essere molto lontane dal poterci dire qualcosa di più di quanto non ci abbiano già rivelato alcuni grandi geni artistici del secolo scorso: da Proust a Cézanne, da Joyce a Pirandello, da Picasso a Kafka: la coscienza, così come l’io, è un processo e non un luogo o un oggetto identificabile in uno spazio.

Noi emergiamo – come a loro volta avevano intuito grandi altri artisti e filosofi intrisi di quella ricca prospettiva teorica che risponde al nome di fenomenologia – grazie a un momento di attenzione, quando rivolgiamo intenzionalmente il nostro sguardo verso qualche oggetto presente nel mondo esterno e, contemporaneamente, lo colleghiamo in qualche modo a una rappresentazione del nostro mondo interno. Una rappresentazione del tutto illusoria – se vogliamo – senza la quale, però, saremmo del tutto ciechi nei confronti dell’ambiente che ci circonda.

Le ricerche neuroscientifiche continuano a produrre conferme relative al fatto che qualunque spiegazione della nostra esperienza che si rifaccia esclusivamente ai possibili correlati fisici (in termini neuronali) della coscienza (i cosiddetti NCC) sarà sempre condannata ad essere incompleta. Noi non siamo il nostro cervello, se non altro per il fatto che non possiamo sentirlo. Al massimo possiamo affermare (e sottoporre a scrupolosa analisi scientifica) che, quando proviamo un’esperienza, qualcosa accade nel nostro cervello, come ad esempio una scarica elettrica tra neuroni. Quello di cui però non possiamo fare esperienza, sono i nostri neuroni stessi.

Tuttavia, nonostante la paradossale illusorietà di questo nostro io, e l’inafferrabile fluidità temporale dei nostri stati di coscienza, non potremo mai vedere o percepire il mondo esterno – la cosiddetta realtà oggettiva – in sua assenza. Anche le neuroscienze, insomma – come la fenomenologia e alcuni grandi artisti del Novecento avevano chiaramente delineato – confermano che la realtà oggettiva può essere percepita se e solo se siamo in grado di elaborare in modo appropriato la credenza o l’illusione di quella paradossale menzogna che è l’io.

Ai fini della conoscenza dell’essere umano, l’esperienza è, insomma, più importante dell’esperimento; l’illusione della verosimiglianza è più importante di ogni probabile di verità.

La verità della realtà vissuta, dell’esperienza di cui si ha coscienza, è qualcosa di troppo reale per poter essere misurata. In altre parole – parole non a caso di una grande artista come Virginia Woolf – “l’io è un’illusione troppo reale per poter essere trattata come un fatto”.

L’unica soluzione resta tuttavia quella di continuare a credere, accentuando casomai il nostro livello di consapevolezza critica, in quella straordinaria finzione che è l’io, pur sapendo che si tratta di una menzogna, perché altrimenti non ci resterebbe nient’altro.

 

[1] Paul Jorion, Comment la vérité et la réalité furent inventées, Gallimard, Paris, 2009, pp. 7-9.

[2] Fredrich Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, Laterza, Roma-Bari 2010.

[3] Cfr. Fu Shen, Jan Stuart, Challenging the Past. The Paintings of Chang Dai-chien, University of Washington Press, 1991.

[4] Franco Montanari, Prima lezione di letteratura greca, Laterza, Roma-Bari 2003, pp. 154-155.

[5] Jorge Luis Borges (1952), El ruiseñor de Keats, in Otras Inquisiciones, Alianza, Madrid, 1995, L’usignolo di Keats, in Altre inquisizioni, Tutte le opere vol. I, Mondadori, Milano, 1984, p. 1018.

[6] Eric S. Rabkin, Perdita e recupero: moderne fantasie e platonici desideri, in Daniela Carpi (a cura di), Platone nostro contemporaneo, Librati, Ascoli Piceno, p. 118.

[7] Jean-Francois Mattéi, La puissance du simulacre. Dans le pas de Platon, Bourin, Paris 2013, p. 7.

[8] Mattéi, cit., p. 15.

[9] George Steiner, The Poetry of Thought: From Hellenism to Celan, New Directions, New York, 2012, La poesia del pensiero. Dall’ellenismo a Paul Celan, Garzanti, Milano 2012, p. 74.

[10] Federico Bertoni, Realismo e letteratura. Una storia possibile, Einaudi, Torino 2007, p. 23.

[11] Erich Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi, Torino 2000.

[12] Thomas Pavel, La pensée du roman, Gallimard, Paris 2003, pp. 407-408, Thomas Pavel, Le vite del romanzo. Una storia, Mimesis, milano, 2015.

[13] Auerbach (2000), op. cit., vol. 1, p. 16.

[14] Ivi, p. 17.

[15] Leon M. Lederman – Christopher T. Hill, Fisica quantistica per poeti, Bollati Boringhieri, Torino 2013, p. 16.

[16] Cfr. Antonio Damasio, Lo strano ordine delle cose, Adelphi, Milano 2018.

[17] Paolo Zellini, La dittatura del calcolo, Adelphi, Milano 2018, p. 36.

[18] Ivi, p. 19.

 

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