EXAGERE RIVISTA - Luglio - Agosto - Settembre 2024, n. 7-8-9 anno IX - ISSN 2531-7334

Generation П. L’Europa tra il Noi e il Voi

di Gianfranco Brevetto

Il 24 febbraio 2022 sta divenendo una data che verrà ricordata non solo in termini geopolitici ma soprattutto culturali. Il Libro da lei curato per la Stilo Editrice, porta un accattivante, quanto attualissimo titolo, Generazione Putin. Pagine dal 24 febbraio. Esso contiene anche una altrettanto puntuale precisazione: non tratta delle pur importanti analisi geopolitiche o ricerche delle cause della guerra in atto, ma di una serie di riflessioni, approfondimenti, di una generazione di studiosi, di russisti, che si è sostanzialmente formata dopo la caduta dell’Unione Sovietica.

Lei ci parla della Generation P, П in cirillico, dal titolo di un romanzo dello scrittore russo Viktor Pelevin, dove la P stava per Pepsi. Cosa ha significato e cosa è divenuta oggi questa generazione P in Russia?

(risponde Simone Guagnelli, curatore del volume e autore del contributo Gli occhiali di Lenin, Università di Bari)

-Da subito per questo volume, nato dall’esigenza di reagire al senso di angoscia e impotenza che la mia generazione di studiosi di cultura russa stava vivendo, ho sentito un possibile legame giocoso con il titolo del romanzo di Pelevin (che è del 1999) con quella P che allora stava a indicare, appunto, la Pepsi (ma con tutta una gamma di allusioni a partire dall’organo genitale femminile che sfocia in una possibile definizione di «generazione fregnona», per dirla alla romana) e il passaggio, dopo l’attraversamento dei «problematici anni Novanta» (lichie devjanostye), dal sistema comunista a quello capitalista. Si tratta, peraltro, dei miei coetanei russi, di quella generazione che alla caduta del Muro, prima, e dell’Urss, poi, aveva circa 20 anni, i cosiddetti figli della perestrojka di Gorbačëv (o gli «ultimi bambini sovietici»), tutti già saturi di cultura occidentale e americana, ma privi degli strumenti culturali profondi per la grande svolta liberale e capitalista. Qualche giorno fa leggevo una recente intervista allo scrittore Vasile Ernu (rumeno ma nato a Odessa nel 1971, di «passaporto sovietico», in Italia noto come autore di Nato in URSS e Gli ultimi eretici dell’impero) a proposito proprio della definizione di quella generazione descritta da Pelevin e di che fine abbia fatto. Ernu sostiene intanto che «in questa transizione eravamo soldati che combattevano su tutti i fronti e perdevano tutte le battaglie possibili e immaginabili. Avremmo potuto combattere e vincere qualsiasi sfida: le abbiamo perse tutte». Da questo slancio irrealizzato e da questa sconfitta continua è nato un senso di vendetta e di attesa che il populismo putiniano ha saputo in qualche modo incarnare e far esplodere. Peraltro, già Pelevin parlava nel suo romanzo della trasformazione dell’Homo Sovieticus (termine coniato dallo scrittore Aleksandr Zinov’ev) in Homo Zapiens (ricordo che con questo titolo è uscita la versione francese e quella americana di Generation П), specie di sua ultima evoluzione: il sottomesso allo zapping coercitivo dove il televisore si trasforma in un telecomando per lo spettatore e quest’ultimo diviene un programma telecomandato a distanza. Temo che la triste Generazione Z russa che abbiamo imparato a conoscere – con questo simbolo dell’alfabeto latino come sostegno alle truppe russe in Ucraina durante l’«operazione militare speciale» – venga anche da lì: la pubblicità doveva sostituire il concetto ideologico ed ha finito, in questo zapping culturale, per restituire il trionfo rancoroso della propaganda, del populismo e del revanscismo più bieco. Ovviamente non è tutto così meccanico e assoluto, le risposte a questa domanda possono essere molteplici e non tutta quella Generazione P si è trasformata in quella che sempre Ernu chiama «generazione cannibale». Nel documentario «Processo alla memoria» (Začistka pamjati, 2021) di Konstantin Goldenzweig (del canale televisivo russo indipendente Rain Tv, la cui redazione si è dovuta trasferire all’estero per evitare di finire in prigione) dedicato alla storia di Memorial in Russia, l’ong russa fondata, tra gli altri dissidenti, da Andrej Sacharov alla fine degli anni Ottanta (vincitrice, insieme all’attivista e difensore per i diritti civili Ales’ Beliatski e all’associazione ucraina Center for Civil Liberties del Premio Nobel per la pace 2022) c’è un passaggio in cui l’intervistatore chiede a Lev Ponomarëv (attivista per i diritti umani e tra i fondatori di Memorial) come mai in Estonia e nella Repubblica ceca quelli che erano i dissidenti costituiscano ora l’élite del paese, mentre in Russia no, ricevendo la risposta che loro (gli estoni e i cechi) hanno avuto una sola generazione senza voglia di libertà, mentre la Russia quattro (con riferimento al settantennio sovietico), e tutte con la paura di desiderarla quella libertà cui pure aspiravano. Ecco, mi piace pensare che in piccola parte quella generazione P si sia anche trasformata anche nei pochi ma coraggiosi attivisti di Memorial, nei nuovi dissidenti che si sono riuniti intorno alla rivista ROAR (Russian Oppositional Arts Review), in chi sta sfidando da 8 mesi il carcere per dire no alla guerra, in tutti quelli che ancora resistono, rimasti o fuggiti dalla Russia, con la speranza di dare al proprio paese un futuro, forse non utopisticamente radioso, ma più banalmente dignitoso e civile.

 Nel volume viene, tra l’altro citato Herzen, a proposito dei ciò che in un calco di cera non può mettere chi l’ha modellato: ciò che lo scultore stesso non sapeva, non poteva sapere. Cosa non sapevamo e non abbiamo capito di quanto stava avvenendo in Russia in questi ultimi decenni?

(risponde Guido Carpi autore nel volume del contributo Qua Dij vocant eundum, Università di Napoli)

-Non abbiamo capito che i traumi storici subiti da quel grande popolo nel corso del Novecento – ma in particolare la piega presa dagli eventi a partire dal fallimento della Perestrojka – avrebbero prima o poi presentato il conto. Sia noi «russoidi» stranieri che la piccola élite di intellettuali globalizzati con cui siamo da sempre abituati a interagire in Russia, ci cullavamo in una semplicistica utopia «sviluppista»: sì, le strutture democratiche del Paese sono fragili, gli squilibri fra classi sociali e fra aree geografiche sono drammatici, in giro c’è ancora tanta miseria e tanto rancore, ma in forza di una indefettibile legge di natura tutto si «normalizzerà». I giovani studiano l’inglese, guardano Netflix ascoltano la trap e sognano l’America, quindi il ciarpame novecentesco è destinato a svanire come un miraggio, con tutti i suoi incubi.

Tutte cazzate, ovviamente, e di questo abbaglio siamo noi i primi responsabili, noi, gli studiosi di cose russe: abbiamo letto tutti Larry Wolff, ma ci siamo cascati lo stesso.  Ci eravamo costruiti un modellino di Russia a nostra misura, una comfort zone oltre la quale non guardavamo, e se ci guardavamo, lo facevamo con gli occhi coloniali del «civilizzato» che osserva divertito il «buon selvaggio», come Bisio e Finocchiaro in «Benvenuti al Sud». La scampagnata a Vladimir o a Tarusa, a Rostov o a Novgorod confermava non le difficoltà di un paese dove alcuni luoghi sono abbandonati dal 1989 a causa di un mantra neoliberista che siamo stati noi a imporgli, ma l’esotismo dell’ilota ubriaco col colbacco e la vobla sotto il braccio: come tanti Hans Castorp affascinati dagli «occhi kirghisi» della bella Klavdija, non capivamo il 99% di ciò che ci circondava, ma ce la si cavava col solito luogo comune del «misterioso animo russo», stereotipo folkloristico e cripto-razzista come «i napoletani sono sempre allegri» e «i neri hanno il ritmo nel sangue», che non spiega un fico secco e certo non fa onore a noi che dovremmo essere quelli che «ci capiscono» di Russia.

Va poi detto che questi stereotipi li condividevamo con la stragrande maggioranza dell’intelligencija russa «illuminata» e cosmopolita: dalla mentalità tardo-dissidente dell’ultimo periodo sovietico questa intelligencija ha ereditato una visione semplificata e manichea della realtà, dove a un potere per sua natura dispotico e alle masse abbrutite che lo sostengono si contrappone un manipolo di eroi senza macchia e senza paura; e trent’anni di turbo-liberismo hanno aggiunto a questa visione di base un’ideologia brutalmente classista, un disprezzo (rivendicato o inconsapevole) per «Van’ka», il popolo bue che agita le bandierine in piazza e manda i figli al campo dei pionieri. L’intellettuale moscovita e pietroburghese confina mentalmente con Londra, Parigi, New York, non certo con la provincia di Mosca o di Pietroburgo: interagisce con una bolla globalizzata, scrive saggi brillanti dove si citano Agamben e Derrida e che vengono letti all’estero, e non si sognerebbe mai di prendere sul serio il plancton accademico della provincia russa, per non parlare delle classi popolari provinciali. Classi popolari e provincia che sono state lasciate a vegetare nella miseria più disperata, nel sottosviluppo civile e in pratiche politiche da satrapi, col risultato di consegnarle a Putin.

L’intelligencija russa oggi offre esempi ammirevoli di resistenza al putinismo, e merita tutto il nostro sostegno morale e fattuale; ma di tale esito catastrofico è stata in parte responsabile, in quanto non ha saputo – e neppure voluto – costruire una rete di società civile, di impegno democratico diffuso, non ha contribuito a formulare piattaforme politiche alternative che dessero voce al bisogno di giustizia sociale, di dignità, di partecipazione. Basti dire che la grande maggioranza degli intellettuali plaudì al cannoneggiamento del palazzo della Duma da parte del presidente Boris El’cin nel 1993 e al varo di una costituzione iper-presidenzialista e fortemente autoritaria: allora tutto ciò sembrava una garanzia affinché gli odiati comunisti non potessero tornare al potere, ma su questa base istituzionale è germinato il putinismo. Ed è germinato sfruttando esattamente quel risentimento e quei bisogni a cui nessuno è stato in grado di dare una risposta democratica e progressiva: Putin ha utilizzato tutto ciò in maniera perversa, ha dato risposte autoritarie e bieche, sfruttando il peggio del pensiero politico russo, riesumando fantasmi imperiali e attualizzandoli con iniezioni di clericalismo d’accatto e di fascismo postmoderno.

Eppure, non era scritto da nessuna parte che le cose dovessero andare così. Non credo alla ciclicità storica, e i russi sono una grande nazione che ha dato tantissimo al mondo in termini di cultura, di progresso e di civiltà: basti citare quello Herzen già chiamato in causa. Per questo mi dissocio con la massima decisione da ogni tentativo di leggere gli eventi odierni in termini demonizzanti e razzisti di «barbarie asiatica» contro «civiltà europea». Non abbiamo capito niente di quel Paese per trent’anni, cerchiamo di capirci qualcosa almeno adesso.

Il libro vede la partecipazione di intellettuali italiani che la Russia l’hanno variamente studiata e percorsa. Traspare, però, tra le pagine qualcosa di più. Se mi è permesso, è evidente un’empatia, un affetto che in qualche modo si vela dell’immancabile tristezza. La Russia è una Patria, forse nel senso più forte: un termine sul quale ha inciso sia la politica sovietica, con i suoi processi di russificazione, sia la propaganda degli ultimi trent’anni che ne ha fatto elemento di coesione interna. Come leggere oggi, in Russia, il concetto di Patria, al di là degli aspetti ideologici e politici contingenti?

(risponde Stefano Aloe  autore nel volume del contributo Con parole mie, Università di Verona)

-La Russia è un paese particolare, impattante: quando se ne fa la conoscenza sono frequenti reazioni di rigetto, ma se non avvengono di solito nasce invece un grande amore, la passione che poi per tutti noi russisti è diventata anche professione e ragione di vita. Un intellettuale italiano di fine ’800, Angelo de Gubernatis, che con la Russia ebbe molto a che fare, scriveva nelle sue memorie:

«Quando mi si presenta, per la prima volta, alcun Russo, io mi domando pur sempre, in secreto, con una specie di terrore religioso: “Mi porterà egli del bene o del male”? Quasi nessun Russo essendo passato indifferentemente nella mia vita, io dovrei, ad ogni nuovo incontro, consultare l’oroscopo, per sapere che cosa mi può ancora essere riservato».

 L’empatia con la Russia e con i russi è fatta di questo misto di attrazione e repulsione, un odi et amo continuamente messo a rimbalzare tra i difetti ingombranti e le virtù sorprendenti di quel popolo. Ed è chiaro che l’empatia che abbiamo con la Russia si vena sempre di tristezza: perché intuiamo in quel Paese potenzialità inespresse che affogano nel malgoverno, nella corruzione e nelle tante fragilità della società russa. Una meraviglia maltrattata, insomma.

Invece il concetto russo e post-sovietico di Patria appartiene a un altro ordine di valori, sicuramente ha grande rilievo psicologico e identitario per gran parte della popolazione della Federazione Russa e per la sua complessità merita un discorso a parte. Prima di tutto, non va confusa la ‘russicità’ con il senso di appartenenza alla Russia come Patria: questo perché la Russia non è una nazione su base etnica, e solo in parte lo è su base linguistica: vi convivono un centinaio di etnie e di lingue appartenenti a tradizioni e religioni differenti, e in ampia misura questi gruppi sono mescolati e marcano poco le proprie diversità. La lingua russa funziona da solida koinè, e del resto si nota un alto grado di omologazione culturale e comportamentale. Questo è in effetti soprattutto il risultato dell’internazionalismo dell’esperienza dell’URSS, che ha ridotto i margini di spazio per le ‘nazionalità’ in nome della comune ‘cittadinanza’ sovietica. Anche dopo il crollo dell’URSS la Federazione Russa ha mantenuto per i suoi abitanti il valore di Patria pan-nazionale e per molti versi sovrannazionale, a prescindere dal fatto se essi siano degli Ivan Petrov slavi, degli Abram Ginzburg ebrei o dei Timur Abdullaev di stirpe turanica, tanto per menzionare alcuni dei gruppi più diffusi. Si può dire che la Russia sia uno strano mix tra Impero tradizionale e Patria-Nazione romantica. Su questo impianto culturale la propaganda putiniana (quindi dal 1999 in qua) si è inserita molto efficacemente, modificando in modo progressivo le valenze identitarie della popolazione. In una prima fase, Putin ebbe il merito di riportare su un segno positivo l’identità collettiva che era uscita malmessa dal crollo dell’URSS. Lo fece puntando sull’orgoglio nazionale e su una rivisitazione molto selettiva e strumentalizzata della Storia patria grazie alla quale riuscì a conciliare eredità del passato tra loro conflittuali come quelle dello zarismo e del comunismo. Successivamente, la retorica del nuovo patriottismo russo è diventata sempre più imperialista ed aggressiva, calcando contrapposizioni identitarie «noi-gli altri» che hanno finito per stravolgere persino grandi valori civici e umanitari come la celebrazione della vittoria sul nazi-fascismo, che i cittadini russi fino a pochi anni fa vivevano gioiosamente e con giusto orgoglio, mentre ora è diventata pretesto divisivo, figlio della patologica sindrome da accerchiamento di cui insieme a Putin sembra essere diventata vittima la società russa nella sua quasi totalità. Forse, una speranza per il futuro sarà nel recupero della dimensione civica e inclusiva, non colonialista né nazionalista, che storicamente hanno i russi del concetto di Patria: non come una fortezza da difendere (aggredendo i vicini), ma come uno spazio di convivenza curioso e affettuoso verso l’altro; perché l’ospitalità russa ha pochi paragoni, ma i russi stessi oggi l’hanno smarrita.

 Lei è un traduttrice dalla lingua russa. Per chi, come la mia generazione, si è formato sui testi dei grandi romanzieri ottocenteschi, ne possiede un ricordo fatto di intensità e estrema ammirazione per questi capolavori. Come è cambiata la letteratura di questo paese e come si esprime in questi ultimi anni?

(risponde Giulia Marcucci autrice nel volume del contributo La traduzione, antitesi della guerra, Università per stranieri di Siena)

-Capisco perfettamente l’intensità e l’ammirazione a cui si riferisce, non a caso il mercato editoriale italiano ha continuato in questi anni a proporre nuove traduzioni dei grandi classici; penso, per esempio, a Guerra e pace tradotto da Emanuela Guercetti e ai Fratelli Karamazov nella recentissima versione di Claudia Zonghetti, entrambi usciti per Einaudi.

In Russia, sul finire degli anni Novanta si conclude la parentesi del postmodernismo, che affondava le sue radici nell’underground moscovita e pietroburghese degli anni Settanta e che aveva prodotto opere complesse, con una componente marcata di intertestualità e riferimenti ad altre culture e alla letteratura del Realismo socialista in chiave ironica e perfino sarcastica. Segue a ruota il tentativo di creare una sorta di compromesso tra alcuni procedimenti postmoderni e un rinnovato interesse per la realtà, in particolare quella passata, e per i destini umani. Oggi si parla dunque spesso in riferimento alla prosa russa degli ultimi decenni di «nuovo realismo» e «neo tradizionalismo» – quindi, come vede, la lezione dei grandi classici è decisiva anche per la generazione degli scrittori e delle scrittrici, che hanno debuttato negli anni Zero. Il documentarismo costituisce, di conseguenza, un’altra modalità narrativa tipica di questi anni, basti pensare a una scrittrice come Svetlana Alekseivič, che con i suoi ‘reportage corali e letterari’ a partire da La guerra non ha un volto di donna ha dato voce a centinaia di cittadine e cittadini sovietici, che hanno partecipato agli eventi traumatici del Novecento, tra cui la Seconda guerra mondiale. Un filone importante nella letteratura russa dell’oggi è legato proprio al recupero della memoria; pensi che una scrittrice e drammaturga storica come Ljudmila Petruševskaja, perseguitata e censurata negli anni Settanta per l’«eccessivo naturalismo» dei suoi racconti e dei suoi testi teatrali che mettevano in scena un quotidiano fatto di povertà, alcolismo e degrado sociale, ha scritto solo nel 2007 le sue memorie relative al periodo compreso tra il 1938 e il 1949, quando era una bambina bollata come appartenente a una famiglia di ‘nemici del popolo’.

La letteratura russa è ‘cambiata’ in questa direzione, cercando di liberarsi dal didatticismo delle opere del Realismo socialista, che imponeva di esaltare il ‘radioso avvenire’, alla cui edificazione la società sovietica stava contribuendo, e recuperando al contempo sia la lezione dei grandi classici sia quella degli scrittori che erano stati costretti a emigrare e a pubblicare altrove le proprie opere, come, per esempio, nel secondo Novecento è accaduto a Solženicyn, Brodskij, Dovlatov. Rivisitare il passato degli anni Trenta-Quaranta in modo puramente documentaristico o attraverso la finzione – penso, per esempio, ai romanzi di Guzel’ Jachina e di Evgenij Vodolazkin, presenti anche in traduzione italiana – non è ovviamente bastato da solo a evitare un altro evento tragicamente traumatico, come quello che stiamo vivendo dal 24 febbraio, e con cui scrittori e scrittrici si troveranno a dover fare nuovi conti. Al contempo, assomiglia a una predizione il futuro descritto da Vladimir Sorokin in La giornata di un opričnik del 2006, in cui nella Russia del 2027, paese autoisolatosi dal resto del mondo e regredito al Medioevo, viene restaurato uno zarismo folle, fortemente repressivo e spietato.

 Riflettendo, mi sorge un dubbio, che è sostanzialmente quello dell’europeista naïf. C’è un errore di fondo che si compie, e forse si è sempre compiuto, di tentativo integrazione (ma anche omologazione) della cultura russa, o almeno di una parte di questa, in quella europea? E, dalla sua esperienza, come vivono questo tema gli intellettuali russi?

(risponde Alessandro Cifariello, autore nel volume del contributo NoiZ, Università della Tuscia, Viterbo)

-La domanda è molto interessante, pertinente, tocca un tema estremamente vasto, assai complesso, a cui purtroppo in questa sede, non potendo il discorso ridursi a una semplice risposta e meritando un lavoro più ampio, è possibile accennare soltanto per sommi capi.

Si può cominciare con l’affermare che nel corso della storia la questione ha dato adito a interrogativi sul «problema Russia» dal punto di vista propriamente europeo (o eurocentrico), come ad esempio quelli espressi durante la guerra fredda da Dieter Groh in Russland und das Selbstverständnis Europas (La Russia e l’autocoscienza d’Europa): per lo storico tedesco non esiste un contrasto tra due visioni diverse d’Europa, ma è al contrario percepibile una netta dicotomia tra Europa in quanto «vecchia Europa» (Occidente europeo) e Russia (ossia Oriente, nel senso di: ciò che è estraneo tout court alla «vecchia Europa»). Si deve ricordare che una quindicina d’anni fa è stato pubblicato un lavoro molto interessante, pur nella brevità ricchissimo di note e ben documentato con centinaia di rimandi bibliografici, intitolato Fra Oriente e Occidente slavo. Definito scherzosamente dall’autore, Luigi Marinelli, «saggio scientifico-divulgativo, ma non troppo», andava a toccare alcuni dei punti principali della questione della cosiddetta Altra Europa: due Slavie e due Europe, due diverse zone d’influenza culturale e geopolitica, la negazione su basi storico-culturali dell’«identificazione dell’Europa tout court con il solo Occidente romanzo-germanico» e l’indicazione (tratta da Giovanni Maver) del costante «urto secolare fra Russi e Polacchi» – dicotomia interna al mondo slavo che permette di capire meglio attraverso una lettura del passato anche – e soprattutto – l’attuale momento storico che tutti noi stiamo vivendo con profonda apprensione. Divagando un momento dal tema principale verso l’apprensione attuale di noi russisti, e in generale nel mondo degli slavisti, possiamo applicare al 24 febbraio le ultime parole pronunciate da Aleksandr Blok prima di morire: quel maledetto 24 febbraio 2022, come uno stupido maiale che sbrana il suo porcellino, la Russia ci ha letteralmente spolpato vivi.

Ma come dice spesso il mio maestro Cesare G. De Michelis, torniamo a Bomba. Già dopo l’annessione della Crimea, otto anni fa, è apparso un saggio che in qualche modo anticipa la storia: Europe. La Russia come frontiera, di Vittorio Strada. In questo lavoro il compianto slavista si interroga sul concetto anacronistico di eurocentrismo applicato alla lettura di realtà altre e altrui, e si domanda se sia meglio considerare non una singola Europa, ma una pluralità di centri attivi, più Europe, con una pluralità di componenti storico-culturali precristiane, cristiane e post-cristiane. In questo contesto emerge, gigantesco, il problema del rapporto Europa-Russia sui piani religioso, politico, culturale. Nel corso della storia dell’Impero russo prima, dell’Unione Sovietica poi (pur trattandosi di mera semplificazione il considerare l’URSS continuazione della Russia sotto altro nome), e infine della Federazione Russa, ciò ha generato dibattiti su confessione (cattolicesimo-ortodossia), visioni intellettuali-ideologiche (dallo slavofilismo all’eurasismo) e posizioni statali (impero o nazione), sul conflitto tra una precipua alterità russa (o più in generale slavo-orientale) e una partecipazione all’integrazione europea, tra tradizione e consuetudine da una parte e apertura della Russia all’Europa (conoscenze scientifiche, idee critico-filosofiche, approcci socio-politici, ecc.) dall’altra, o anche tra arretratezza storico-culturale (il barbaro venuto dall’Oriente – così percepito dall’europeista naïf) e riforma modernizzante della società (il costruttore di un radioso avvenire), tra conservatorismo nazionalista e progressismo cosmopolita e democratico.

Il problema del rapporto Europa-Russia ha avuto costante riflesso nella storia della cultura russa, con il tentativo di definirne identità e confini, fino a un tentativo di sintesi (o di anti-sintesi) nell’eurasismo – la concezione di uno spazio non soltanto geografico, ma soprattutto socioculturale (la geo-cultura e geo-politica eurasiatica) con una sua specificità, con l’aquila bicefala dello stemma imperiale come suo simbolo, con un capo puntato a Oriente e l’altro a Occidente. Emerge qui la doppia ipostasi della Russia come parte dell’Europa e simultaneamente suo Altro. Per un approfondimento sulle origini dell’eurasismo (i cui riflessi appaiono nitidi nella contemporaneità) si rimanda a Evropa i čelovečestvo (L’Europa e l’umanità, 1920) del celebre linguista Nikolaj Trubeckoj (pubblicato in L’Europa e l’umanità: la prima critica all’eurocentrismo, a cura di Olga Strada).

Anticipatrice del pensiero eurasista – e parzialmente chiarificatrice di almeno una delle posizioni attuali degli intellettuali russi – è la celebre, ultima, lirica di Aleksandr Blok, Skify (Gli sciti, 1918), che trasmigra nel linguaggio poetico le tesi espresse dallo scitismo (raggruppamento letterario continuatore delle tradizioni rivoluzionarie della cultura del passato prerivoluzionario, diffusosi dopo la Rivoluzione d’Ottobre). Le tesi esposte da Blok, che riassumono varie questioni annose ed emergono certamente alla luce della «musica della rivoluzione» e del fatto che «la Russia è tempesta» (si rimanda alla lettura del saggio di Blok Intelligencija i Revolucija, pubblicato in italiano nella raccolta omonima L’intelligencija e la rivoluzione), sono diverse, e mutatis mutandis si inquadrano perfettamente anche nella contingente attualità, in primis la visione, sintetizzata da Guido Carpi nella Storia della letteratura russa, di una Russia «barbarica» chiamata a pacificare Europa e Asia. Dovere dell’artista, riassume Andrej Šiškin proprio riguardo a Intelligencija i Revolucija, era «riconoscere la rovina del vecchio mondo e inchinarsi ai grandi avvenimenti storici». Ed è appunto ciò che fa Blok in Skify, dal punto di vista completamente opposto a quanto chiestomi nella domanda.

Innanzitutto, Blok sostiene che la Russia non è Europa, e i russi, più che figli della civiltà europea, sono eredità dell’Orda d’Oro, pronipoti di Gengis Khan, [«Da, skify my! Da, aziaty – my, / S raskosymi i žadnymi očami», «Sì, noi siamo sciti! Sì, noi siamo asiatici / Dagli occhi avidi e obliqui!» (qui e oltre, trad. di Eridiano Bazzarelli)], piuttosto che una delle stirpi della civiltà europea. Emerge infatti sin da subito l’opposizione my, «noi», vs. vy, «voi», in cui vy non incarna solo le genti d’Europa ma anche le altre genti dell’Asia, mentre my rappresenta lo scudo umano posto tra i due continenti, a protezione della stessa Europa [«My, kak poslušnye cholopy, / Deržali ščit mež dvuch vraždebnych ras / Mongolov i Evropy!», «Noi, come obbedienti servitori / Abbiamo retto lo scudo fra due razze nemiche, / I Mongoli e l’Europa!»]. Questa tesi – in particolare l’opposizione my vs. vy – si ritroverà non solo in Trubeckoj, ma anche nelle varie successive manifestazioni dell’eurasismo sino all’epoca attuale.

Ulteriore tesi espressa dai versi di Blok è che la Russia è una giovane civiltà stracolma di forza passionaria, elemento in seguito presente nella passionarnaja teorija ėtnogeneza di Lev Gumilёv, ovvero la cosiddetta teoria passionaria dell’etnogenesi (il legame tra comparsa e ascesa di nuovi popoli e radicale trasformazione di quelli preesistenti; si veda: Dario Citati, Passione dell’Eurasia. Storia e civiltà in Lev Gumilev). Blok è certamente preso dall’idea, che all’epoca è percepita ovunque in Europa, di una decadenza della civiltà occidentale, fissata proprio nel 1918 da Oswald Spengler nel famosissimo Der Untergang des Abendlandes (Il tramonto dell’Occidente). All’Occidente decadente e ormai incapace di amare, Blok contrappone l’immagine della Russia-Sfinge e dei suoi pargoli, capaci di rivolgere un amore immenso e illimitato verso qualunque manifestazione umana [«Da, tak ljubit’, kak ljubit naša krov’, / Nikto iz vas davno ne ljubit! / Zabyli vy, čto v mire est’ ljubov’, / Kotoraja i žžet, i gubit!», «Sì, amare così come ama il nostro sangue / Nessuno di voi sa amare da tempo! / Avete dimenticato che al mondo c’è l’amore, / Che brucia e che distrugge!»].

Altra tesi in Skify è la visione della Russia in quanto rappresentazione del superamento dell’Occidente (la «vecchia Europa» di Groh) attraverso la combinazione della rispondenza universale – la sposobnost’ vsemirnoj otzyvčivosti, ossia quella capacità tipica, che Dostoevskij nella sua «parola di spiegazione» al Reč’ o Puškine (il Discorso su Puškin contenuto nel Diario di uno scrittore; si veda la traduzione di Ettore Lo Gatto) ascrive al «sommo» Puškin, di ottenere una rispondenza universale – ai tesori dello spirito occidentale, il misticismo al razionalismo [«My ljubim vsё – i žar cholodnych čisl, / I dar božestvennych videnij, / Nam vnjatno vsё – i ostryj gall’skij smysl, / I sumračnyj germanskij genij…», «Noi amiamo tutto: e il calore dei freddi numeri, / E il dono delle visioni divine, / A noi tutto è chiaro: e l’acuto spirito gallico, / E il tenebroso genio germanico…»]. Chiaro che quest’immagine si fonda sulla scena de I Fratelli Karamazov in cui, attraverso le parole di Ivan ad Alёša, Dostoevskij spiega, senza mai nominarla, la capacità di rispondenza universale nei confronti della cultura occidentale, ovvero la contrapposizione tra il futuro – radioso – che attende la Russia e il ‘cimitero’ che è divenuta l’Europa per il russo, perché (l’Europa) rappresenta un passato che egli (il russo) ama non attraverso la logica, ma con le viscere [«Io voglio partir per l’Europa, Alëša, e di qui me ne vado: capisco, sai, che vado in un cimitero e nient’altro, ma troppo caro, troppo caro m’è questo cimitero, ecco tutto! Cari morti giacciono là, e su loro ogni pietra parla d’una vita trascorsa in tanto ardore, di tanta appassionata fede nella propria opera, nella propria verità, nella propria lotta e nella propria scienza, che io (lo so fin d’ora) cadrò a terra e mi metterò a baciar quelle pietre e a piangerci sopra, nello stesso tempo in cui sarò persuaso con tutto l’essere che ormai da un pezzo tutto quello è un cimitero e nient’altro. E non sarà per disperazione che piangerò, ma semplicemente perché sarò felice delle lacrime che mi verranno sparse. Della mia stessa commozione m’inebrierò. Le vischiose gemmette primaverili, l’azzurro del cielo, ecco quel che amo io! Qui non si tratta d’intelligenza, di logica: qui è coll’intimo dell’essere, è colle viscere che si ama: e sono le tue prime, giovani forze che tu ami…». Traduzione di Agostino Villa].

L’ultima tesi di Blok è contenuta nei versi finali della poesia: l’Occidente si potrà salvare dal degrado e dal crollo solo nel caso in cui accetterà l’abbraccio fraterno della Russia [«Ne sdvinemsja, kogda svirepyj gunn / V karmanach trupov budet šarit’, / Žeč’ goroda, a v cerkov’ gnat’ tabun, / I mjaso belych brat’ev žarit’!.. / V poslednij raz – opomnis’, staryj mir! Na bratskij pir truda i mira, / V poslednij raz na svetlyj bratskij pir / Szyvaet varvarskaja lira!», «E non ci muoveremo quando l’infuriato Unno / Frugherà nelle tasche dei cadaveri, / Brucerà le città, e spingerà gli armenti nelle chiese, / E arrostirà la carne dei bianchi fratelli!… / Per l’ultima volta ripensaci, vecchio mondo! Al festino fraterno del lavoro e di pace, / Per l’ultima volta al fraterno festino luminoso / Ti chiama la barbara lira»]. Dunque, il movimento di salvezza, secondo questa visione messianica, non partirebbe da Occidente (la «vecchia Europa» di Groh) verso Oriente (ciò che è estraneo alla «vecchia Europa» secondo Groh), bensì andrebbe proprio in direzione esattamente contraria, e potrebbe avere efficacia, per le parole del poeta, solo attraverso una cosciente accettazione dell’alterità barbarica della Russia quale centro di fraternità e pace. Ma è veramente oggi la Russia, ci chiediamo retoricamente noi alla luce delle vicende attuali, diventata centro di fraternità e pace?

Ovvio che la lettura della storia futura da parte di Blok si scontra con gli eventi della contemporaneità: aggressione, invasione, operazione speciale, guerra, non sono affatto modelli di fraternità e pace. Certamente, però, fa riflettere – e discutere – l’impossibilità di omologare la cultura russa all’interno di schemi precostituiti eurocentrici. Pertanto alla fine si torna, in un moto circolare, non all’idea di una singola cultura europea, ma a quella espressa all’inizio di questo mio discorso, di più Europe coesistenti, che possono e devono essere studiate e capite – anzi, si ha un obbligo morale da parte di tutti gli slavisti a farlo – non attraverso il pregiudizio ostile di una visione del mondo omologante e chiusa all’altro, ma attraverso i giusti strumenti storico-culturali e soprattutto per mezzo dell’accettazione tout court della cultura altrui, come punto di partenza per trattare in modo critico, con un approccio certamente contrastivo, la propria.


a cura di Simone Guagnelli

Generazione Putin

Pagine dal 24 febbraio

Stilo Editrice 2022

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