Non ce ne accorgiamo, ma viviamo attorniati da archivi. Da una serie di molteplici informazioni, necessarie e utili, che supportano la nostra esistenza individuale e collettiva. Federico Valacchi ordinario di archivistica all’Università di Macerata, col suo recente volume La verità di carta (2023, Graphe.it), ci aiuta a orientarci e comprendere questo vastissimo mondo in continua evoluzione. Con una importante premessa: conservare la memoria comporta scelte importanti e non senza conseguenze.
–Nel suo volume, agile e di piacevole lettura, lei ci dice che parlare dell’archivio non è parlare del passato ma è, soprattutto, parlare di noi. Perché questa affermazione?
-Perché credo che questa sia la chiave di lettura più corretta ed opportuna se parliamo di archivi. Gli archivi ci parlano di noi perché essi sono indispensabili alla vita quotidiana del singolo e delle organizzazioni. Rinchiuderli semplicemente in una dimensione storica, che pure è importante, li penalizza e li amputa. Ci parlano di noi perché hanno un fortissimo valore civico e civile, l’archivio pubblico ha, in questo senso, un ruolo di garanzia e di trasparenza. In essi non c’è solo la storia ma è tracciato il DNA di una società. La cultura archivistica, o meglio la cultura della gestione documentale, non è solo vagheggiamento del passato, ma anche concretezza istituzionale e amministrativa. Ha un valore politico in senso ampio e virtuoso che non si limita a un certo dossieraggio che spesso certa stampa evoca senza cognizione di causa.
–A questo proposito c’è un problema di fondo che lei mette in luce in modo molto chiaro ed è quello del rapporto degli archivi con il potere. L’archivio non è qualcosa di neutro: lei ci indica il paradosso dell’archivio, cioè l’archiviazione: ogni volta che si decide di conservare qualcosa si fanno delle scelte precise. L’archivio è il luogo ideale per l’ambientazione di un romanzo di Kafka…
-Sì, c’è una surrealtà sotto traccia a questo ragionamento. Derrida diceva che gli archivi sono il luogo dove l’ordine è dato, ma quell’ordine non è semplice tassonomia, che pure è indispensabile tecnicamente. E’ piuttosto la capacità e il bisogno di organizzare una società in maniera trasparente. E’ chiaro che l’atto dell’archiviare è di per sé un atto selettivo perché, quando archivio, pongo l’accento su una determinata tipologia di informazione. L’avalutatività in questo campo è solo un valore di riferimento. L’archivio ha un ciclo vitale, ci sono archivi correnti, di deposito e storici. L’archivio corrente è lo strumento di esercizio o di legittimazione del potere per eccellenza. La selezione si manifesta molto di più quando si crea l’archivio storico, quello che arriva alla conservazione permanente, l’humus della storiografia. Ci sono, a questo punto, dei processi di manipolazione, non necessariamente dolosi, che ci portano a dire che l’archivio storico non è sempre fonte di verità. Per questo gli archivisti costruiscono contesti interpretativi di cui chi usa gli archivi come fonti può e deve tenere conto.
–Cosa conserviamo, per quale uso, attraverso una selezione con i suoi criteri, si aprono universi molteplici e suggestivi. Come ci ha appena accennato nell’archivio non si troverà mai la verità ma, come precisa nel testo, si ha tuttavia la speranza di cercarla. Come ci si avvicina correttamente ad una ricerca archivistica?
-L’approccio a una ricerca di archivio deve essere sempre critico. Come abbiamo appena detto l’archivistica è una disciplina che costruisce soprattutto contesti a partire dai contenuti. Il metodo storico, quello che si usa ancora oggi per riordinare gli archivi, cerca di evidenziare le ragioni della produzione anche e soprattutto alla luce di quelle della conservazione. Il contesto è la chiave di lettura dell’informazione archivistica che ci permette di poterne valutare l’attendibilità.
–Un altro elemento da lei segnalato è quello della reale pubblicità degli archivi: si ha una vera democratizzazione delle informazione se l’archivio è pubblico ed accessibile….
-L’archivistica nasce nella Francia rivoluzionaria con la legge sulla pubblicità degli archivi L’archivio ha una sua funzione in quanto certificazione di diritti e doveri e garanzia di trasparenza. Per converso è anche vero, però, che ci debbano essere alcuni archivi non automaticamente consultabili proprio a garanzia dei percorsi democratici. L’idea di fondo è quella di una pubblicità ampia con la consapevolezza che alcune tipologie informative sono da mantenere non accessibili anche se solo per certi periodi. D’altro canto io credo che, pensare che in ogni cassetto ci siano dei segreti, sia una forzatura un po’ romanzesca.
–Quando le ci parla di ICT e ci mette in guardia sui rischi connessi a detrminati processi di dematerializzazione, perché?
-La tecnologia apre degli orizzonti sconfinati e per certi versi ansiogeni. Nel nostro caso non c’è frattura ma continuità evolutiva, gli archivi sono sempre stati dipendenti dalla modalità in cui l’informazione è stata prodotta e conservata. Le tecnologie dell’informazione sono in continuità con questo processo anche se le attuali tecnologie rappresentano per la nostra vita quotidiana un’accelerazione violentissima. Io penso che, oggi, il bisogno più forte sia quello di una cultura digitale che nel nostro paese non è diffusa. Prima di fare digitale bisognerebbe saper pensare digitale. Il rapporto tra gli archivi e le tecnologie dell’informazione è un rapporto oramai inevitabile e che va valutato, oltre che nelle sue moltissime potenzialità, anche nelle sue conseguenze. Occorre dire, al riguardo, che la presunta fragilità del digitale è spesso una legenda metropolitana se non un alibi. Anche una pergamena, simbolo della solidità analogica, è fragile se la esponiamo agli elementi atmosferici. Il digitale va accudito come le pergamene, ma non abbiamo indicazioni politiche su un modello conservativo adeguato. Si continua ad improvvisare e a rimandare le scelte riguardo alla conservazione della nostra memoria digitale
–Riflettendo sul suo scritto mi veniva in mente la trama del celeberrimo romanzo Il nome della rosa, con il povero monaco, ignaro e assetato di conoscenza, si avvelenava mentre leggeva un libro proibito. La conoscenza, è anche veleno?
-La conoscenza in sé è piuttosto un antidoto potente. Detto questo il rischio di avvelenamento con gli archivi esiste se si privilegia un approccio romantico ed estetizzante. E’ vero, c’è chi si avvelena con gli archivi e ci cade dentro fino a perdere di vista le dimensioni reali del problema che in linea generale non sono per nulla romantiche ma estremamente concrete. Il fascino degli archivi sta tutto nella loro dimensione solare, scevra di misteri antichi e piena di valori capaci di orientare una società civile.
Federico Valacchi
La verità di carta
A cosa servono gli archivi?
2023, Graphe.it Edizioni