EXAGERE RIVISTA - Gennaio-Febbraio 2024, n. 1-2 anno IX - ISSN 2531-7334

I confini fanno parte del nostro stare al mondo. Intervista ad Alessandro Barbero

di Gianfranco Brevetto

C’è un concetto che ha affascinato in modo particolare la redazione della rivista, quello del finis terrae, del senso del limite. Lei è uno degli storici accademici più apprezzati in Italia. E, con lei, vorremmo capire meglio come si è sviluppato nel corso dei secoli questo tema.

– Iniziamo con un limite che è un mito al tempo stesso: le colonne d’Ercole. Cosa hanno realmente significato?

– È chiaramente un mito, una costruzione culturale, sfruttata consapevolmente da chi ha vissuto nel mondo antico e in quello medievale. Noi non dobbiamo pensare che loro credessero realmente nel fatto che, se uno superava le colonne d’Ercole, sarebbe accaduto chissà cosa. Tutti hanno sempre saputo che la terra è rotonda, lo sapevano gli antichi, lo sapevano nel medioevo, nessuno ha mai avuto il minimo dubbio in proposito. Da un di vista punto scientifico, però, un po’ di dubbi c’erano. Il dubbio principale era: al di là è solo oceano o, prima o poi, c’è la terra? L’altro problema era: se uno va più giù dell’equatore non è che fa così caldo che si muore tutti? Questi dilemmi, nella visione scientifica di uno scienziato medievale, c’erano. Divenne possibile, per i filosofi dell’epoca e per i poeti come Dante, usare l’immagine delle colonne d’Ercole come quella di un limite della conoscenza. Non perché non fosse possibile attraversarle. ma perché non si aveva le idee chiare e qualcuno, magari, aveva anche paura di attraversarle.  Per carità, quando i primi navigatori nel ‘400 hanno incominciato ad andare lungo le coste dell’Africa, non è successo nulla. All’epoca le si attraversava per arrivare dall’Inghilterra nel Mediterraneo. Diciamo, che lo stretto di Gibilterra, si prestava bene per costruirci su una simbologia dell’ignoto da affrontare.

– Per l’uomo medievale sembrerebbe che il limite sia stato non solo fisico, dovuto alla parcellizzazione dei territori, ma anche religioso. Lei, che è un esperto di quel periodo, ci può dire se è vera questa affermazione?

– Il limite, in senso morale, era più facile da individuare nel medioevo. Era una società integralmente cristiana, ci credevano tutti, poi c’erano quelli che avevano una visione complessa della religione e altri con una molto elementare, si limitavano l’offerta al santo o alla Madonna. Si pensava di vivere in un mondo ordinato, fatto bene da Dio, dove tutto è abbastanza chiaro e dove tutti sanno abbastanza bene cosa occorre fare. La morale si fondava sulla rivelazione e sulla volontà di Dio, quindi il limite era chiarissimo.  Non c’era il problema della morte di Dio e, di conseguenza, quello di costruire un’etica senza di lui.  Vi era solo una piccola élite di intellettuali che si poneva il problema dei limiti della ragione umana e cioè: siamo in grado di capire tutto? Come è noto, per una lunga parte del medioevo, non si era convinti che la ragione umana fosse uno strumento così potente. Però, gli ultimi secoli della grande civiltà medievale, quella dei comuni, di Dante, di Tommaso d’Aquino, fu una civiltà di un razionalismo estremo, dove c’era l’assoluta certezza che la ragione umana fosse uno strumento potentissimo  dato da Dio e che tutto potesse spiegarsi, compresa la religione e i suoi misteri, con la ragione. Poi è anche vero che nelle grandi enciclopedie filosofiche, scritte da autori che del medioevo non avevano la minima cognizione, di ragione non si parla. Come se il razionalismo fosse cominciato solo dopo. Nel medioevo dicevano che la ragione ce l’ha data Dio, gli illuministi invece credevano che la ragione fosse qualcosa che potesse esistere solo togliendo Dio. Questa è una stortura enorme che occulta tutto il razionalismo medievale che è un razionalismo estremamente consapevole e spinto.

– E i confini materiali, invece?

– Quanto ai confini materiali questi erano ad ogni passo. Il medioevo è un’epoca con fortissime disgregazioni del potere. Uno che faceva un viaggio di due giorni, per esempio da Firenze a Siena, rischiava di trovarsi, ad ogni ora di cammino, a dover pagare un pedaggio. I confini erano chiarissimi e si attraversavano continuamente. La gente del medioevo viveva in un mondo dove, il contadino di una certa comunità, era consapevole di poter utilizzare il pascolo fino ad un limite determinato, non oltre. Il confine era importante per la vita della gente.

– Ad un certo punto, diciamo con la scoperta dell’America, inizia il declino dei confini antichi e ne iniziano di nuovi, più vasti, iniziano le grandi esplorazioni. Era solo voglia di conoscenza (come diceva Dante) oppure la spinta è dovuta ad altro?

– Mi piacerebbe però, chiarire una cosa. A noi, oggi, viene naturale pensare al Mediterraneo come confine, confine tra un nord occidentale ricco e il sud meno sviluppato. Nel mondo antico non era così. Al tempo dei romani, il Mare Nostrum non era retorica, i romani erano a casa loro, sia sulla sponda nord che su quella sud. Anzi, lo erano più probabilmente in Egitto o in Algeria, che in Britannia o in Germania. Con le invasioni barbariche, che spezzettano l’impero romano, il Mediterraneo diventa un confine a tutti gli effetti. Diciamo che il Mediterraneo era stato il contenitore naturale per quella civiltà che si sviluppò intorno alle sue sponde poi, ad un certo punto, si è scoperto che l’Atlantico non era una vasca d’acqua che non serviva a niente, c’era l’America. L’avidità commerciale è una forza grandiosa, la regina di Spagna non avrebbe mai investito i suoi soldi per comprare tre caravelle se non ci fosse stato un progetto commerciale ben chiaro, anche contro tutte le credenze geografiche dell’epoca. Ha accettato il rischio: arrivare alle Indie viaggiando in senso opposto, avrebbe fatto impallidire i portoghesi.  Sia ben chiaro, l’avidità commerciale c’è in tutte le epoche, ma i longobardi non avrebbero avuto né le tecnologie né la spinta ideologica per dire andiamo, proviamoci. Il limite, per la Spagna, era ancora qualcosa lontano da raggiungere.

– Poi, molto più tardi, si arriva all’affermarsi dello Stato-Nazione, un limite o un’opportunità?

–  Il limes romano non era il confine fortificato, i romani non riconoscevano dei confini legali. Confine significava solo fin dove momentaneamente siamo arrivati e non ci interessa andare oltre, ma questo non vuol dire che riconoscessero, ai barbari di fuori, il diritto di dire questo paese è nostro. Allo stesso modo, hanno fatto i coloni americani con gli indiani d’America. Gli stati-nazione nascono dall’idea di individuare un territorio compatto, a differenza dello stato medievale dove il potere non era geograficamente omogeneo. A disegnare sulla carta uno stato medievale c’è da impazzire. Gli stati moderni si creano sulla base di grandi semplificazioni, il confine è al Reno, all’Oder, e così via. Questo vuol dire anche riconoscere che il fuori non è più mio. Molto faticosamente, in età moderna, per esempio con la Pace di Westfalia, si è iniziato a pensare ad una convivenza civile tra stati. Ci interessa solo il nostro popolo e il nostro paese, però riconosciamo le tue prerogative al di là della frontiera. Questa è la convenzione che gli stati europei hanno sempre osservato tra loro.

–  Alla fine degli anni ’60 si fa il grande salto. L’uomo sposta il confine fuori dell’orbita terreste, sulla Luna.  Poi tutto sembra essersi arrestato, perché?

– Oggi ci è difficile rispondere, solo il lungo periodo permetterà di capire.  Negli anni ’60, la fantascienza immaginava un futuro prossimo in cui i pianeti sarebbero stati colonizzati e un futuro, un po’ più lontano, in cui si sarebbe viaggiato tra le costellazioni e le galassie. Quel che mi vien da pensare adesso è che, l’avventura sulla Luna, sia stato un episodio isolato, ma su questo rischio di essere smentito tra qualche decennio. È difficile dirlo.  Riflettendo, come storico, posso dire che, all’epoca le condizioni c’erano tutte, la tecnologia, la ricaduta di questa tecnologia sulle armi, la rivalità tra le super potenze, e queste spingevano ad investire tanti soldi. A quel punto si è creata un’aspettativa collettiva. Le aspettative collettive sono importanti e cambiano nel tempo. Oggi nessuno andrebbe a dire: saremo i primi ad andare su Marte! Ma negli anni ’60 il popolo americano si aspettava che il loro presidente li portasse sulla Luna prima dei sovietici. Oggi le tecnologie sono maggiori, ma forse non ci sono più i soldi o si è esaurita l’utilità della cosa.

– In fin dei conti, cosa cerca l’uomo e lo storico nel limite?

–  posso dirle che moltissimi animali sono territoriali, per la loro vita è necessario poter dire questo territorio è mio e non è accessibile ad un altro maschio.  Se un individuo di un branco, cacciato via, passa nel territorio di un altro branco non campa a lungo. Storicamente, le società che ho avuto modo di conoscere, hanno dato grandissima importanza al poter dire questo territorio è mio e lo uso io.  Vedevamo prima, come un contadino medievale vivesse in un mondo dove per lui era assolutamente vitale il sapere dove potesse andare a far legna nel bosco. Se lei guarda le cartine dei comuni italiani, ci sono zone di montagna in cui un comune ha un’enclave di territorio in altri comuni limitrofi, come succede per gli alpeggi. Io tendo pensare che i confini siano importanti nella mentalità umana, certamente da un punto di vista culturale, far finta che non esistano non è possibile. I confini fanno parte del nostro stare al mondo. Lo storia li vede come un prodotto umano, un prodotto di rapporti di forza. Quando si studia una società è importante sapere come quella società concepisce il limite, il confine.

 

(intervista realizzata nel corso del Festival della Mente Sarzana 2019)

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