di Luigi Serrapica
Se, a un gruppo di cittadini di una nazione in cui vige libertà di pensiero e di parola e in cui ampi diritti vengono riconosciuti alla libera espressione, venisse chiesto di restringere questa facoltà molto probabilmente la maggior parte di quelle persone risponderebbe che la libertà di parola è sacra.
Ora, questo assunto in cui noi cittadini occidentali facilmente possiamo riconoscerci pone delle questioni circa l’estensione di tale libertà: materia non certo nuova per pensatori e giuristi. Le leggi dello Stato, per esempio, pongono un limite a ciò che è lecito affermare: l’oltraggio, come è noto, non è coperto dalla “libertà di espressione”. L’offesa altrettanto. Tanto che l’ordinamento civile italiano prevede la possibilità di querelare il responsabile di affermazioni ingiuriose. In qualche modo, l’ordine della vita quotidiana non prescinde da questa situazione a cui chiunque (o quasi) accetta di essere sottoposto. La questione, tuttavia, prende una piega molto diversa quando si parla di libertà d’espressione sul web.
Internet è stata sempre considerata come una “terra” al di fuori delle regole quotidiane, con infinite possibilità di ottenere cose che, nella vita “reale”, sarebbero illegali. Una sorta di “stato franco” dove tutto sembrerebbe alla portata di tutti. Anche l’impunità.
Il fenomeno non è certo nuovo. Creandosi un nickname, un soprannome che copre le proprie generalità anagrafiche, chiunque può affacciarsi dalla propria bacheca virtuale e dare libero sfogo a pensieri, offese e insulti verso persone o gruppi di persone. Il fenomeno è indicato come ‘hate speech’, letteralmente ‘incitamento all’odio’, ed è diventato di casa su internet: si tratta di interventi offensivi che vengono pubblicati a commento di una notizia, per esempio, o sugli spazi personali dei social network come Facebook o Twitter. Non sono poche le testate giornalistiche che offrono la possibilità ai lettori/navigatori di interagire con un articolo uscito online, postando un commento personale: peccato che spesso la libertà di opinione travalichi qualunque senso del limite e che lo spazio bianco riservato ai commenti dia la stura ai peggiori istinti umani. Commenti in cui si augura la morte o lo stupro o altre nefandezze ai protagonisti politici, o ad atleti di colore, oppure – semplicemente – a chi si fa portatore di un pensiero altro da chi commenta. Non è un caso che alcune testate giornalistiche online abbiano eliminato la possibilità per gli utenti di postare commenti (come deciso dalla redazione de La Stampa, che non consente la pubblicazione di interventi degli utenti sul proprio sito, convogliando gli sforzi di moderare le discussioni sulle pagine social relative al quotidiano torinese), oppure l’abbiano ridotta (scelte optata da Il Fatto Quotidiano, la cui redazione web modera e filtra i commenti sul sito). Proprio Il Fatto Quotidiano motiva così la propria decisione: “Abbiamo deciso di impostare questi limiti per migliorare la qualità del dibattito. È necessario evitare gli insulti, le accuse senza fondamento e mantenersi in tema con la discussione. I commenti saranno pubblicati dopo essere stati letti e approvati”, spiega la redazione.
La questione, tuttavia, sembra sfuggire di mano. Aveva suscitato scalpore la notizia dell’agosto 2017 che riportava la decisione dell’allora presidente della Camera dei Deputati, Laura Boldrini, di querelare i “leoni da tastiera” che – sui social network – l’avevano resa bersaglio di minacce, offese e volgarità spesso a sfondo sessuale. L’azione aveva condotto a decine di querele, alcune delle quali sono sfociate in un rinvio a giudizio per molte persone, tra cui anche alcuni politici locali. La stessa sorte, ma con meno scalpore, può capitare a qualunque navigante del web: è la democrazia 2.0, bellezza. Tutti possono esprimere la propria opinione, dunque ogni cosa (e chiunque) può passare sotto il giudizio del popolo del web. E sotto le sue offese.
L’iniziativa Odiare ti costa è stata lanciata nell’estate scorsa per dare una risposta a questo problema: lanciata dall’associazione Tlon e dallo studio legale Wildside di Bologna, la campagna si fonda su un semplice assunto. Odiare online va perseguito con strumenti legali, che pure già esistono, con il fine di “cambiare il modo di vivere i social”. Se in pochi giorni la campagna ha collezionato oltre 20mila richieste di contatto, significa che il problema dell’hate speech esiste e non è solo uno spauracchio agitato da qualcuno. E oggi, a poco più di due mesi dal lancio della campagna, l’associazione Tlon sta lavorando su un primo report che dia qualche risposta alla questione. “Odiare costa” significa, in sostanza, che l’educazione a un corretto confronto sul web passa attraverso la minaccia di una sanzione pecuniaria: quello che invece dovrebbe essere un normale passaggio di civiltà (rispettare le opinioni altrui, replicare con educazione agli interlocutori, non augurare disgrazie di qualsivoglia tipo agli stessi e ai relativi parenti) deve davvero passare attraverso la minaccia di una querela civile?
Il tema dell’educazione precede quello degli educatori: chi potrebbe educare alla civiltà sul web? La scuola, forse, già oberata di incarichi, educazioni, discipline, spettacoli di fine anno e materie supplementari? E poi, cosa ne facciamo di una nuova generazione di “civili web-naviganti”, quando i loro padri e le loro madri sono i primi incendiari nei commenti social?
Il filosofo Riccardo Dal Ferro ha sostenuto, in maniera provocatoria, che sarebbe opportuno “odiare meglio”, anziché invitare a “sanzionare un’emozione”. “Rivendico il mio diritto di odiare, semplicemente perché nessuno può impedirmi di provare sentimenti, positivi o negativi che siano”[1], afferma Dal Ferro. Nell’articolo I sentimenti non sono reato: tutti i problemi della campagna #odiareticosta.
“Provare un sentimento non può essere sanzionato e anzi, bisognerebbe incoraggiare un certo tipo di attenzione persino nei confronti dell’odio: impara a odiare meglio, impara a distinguere tra l’odio ragionato e quello istintivo, prova a conoscere i motivi profondi che ti spingono a odiare, così come quelli che ti spingono ad amare, a divertirti, e a provare tutto lo spettro di emozioni di cui l’odio, la rabbia e persino la cattiveria fanno inevitabilmente parte. La campagna #odiareticosta immagina un mondo che per fortuna non esiste, in cui da un lato ci sono i puri di cuore e di spirito, vittime che usano questo hashtag per avere giustizia; dall’altro ci sono gli odiatori, i rabbiosi, i malvagi, i quali non fanno altro che spargere cattiveria per il web”, continua il filosofo.
Questa sorta di manicheismo del web non rispecchia una realtà multisfaccettata: perché dietro molto hate speech, come viene fatto notare da Dal Ferro, non c’è necessariamente un anonimo commentatore che si cela dietro un nickname (come capita con Napalm 51, l’odiatore del web impersonato dal comico Maurizio Crozza in alcuni dei suoi sketch). Anzi, poiché una buona parte di commenti di odio avvengono su Facebook, è verosimile che altrettanta parte degli autori di questi commenti siano riconoscibili per nome, cognome e foto di profilo. “Un tizio che con nome e cognome in un commento pubblico augura la morte a Carola Rackete o a Matteo Salvini non sta odiando consapevolmente, sta odiando perché qualcuno gli ha detto di farlo: è manipolato, distorto, vittima di propaganda – il che non significa che non sia responsabile di ciò che ha fatto. È la carne da macello di quella propaganda”, ragiona Dal Ferro.
Il problema che si pone, ancora una volta, non è la libertà in quanto tale: essa, come concetto filosofico e politico, è amata e ricercata da chiunque. Il problema deriva dall’uso che se ne fa. Allo stesso modo l’intelletto: nutrirlo di propaganda, come suggerisce Dal Ferro, o di luoghi comuni, di certo non aiuta il suo accrescimento.
Insomma, come risolvere il problema dell’hate speech senza rischiare di passare per censori del web? L’oriente ha proposto un sistema che, dalla vita “reale”, potrebbe passare a quella virtuale: il Sistema di Credito Sociale, adottato dall’aeroporto di Shenzen in Cina, è un programma che assegna punti di affidabilità e reputazione ai clienti che vi aderiscono. Un punteggio maggiore dà diritto a corsie preferenziali ai check-in, uno più basso obbligherà a controlli più approfonditi: lo schema è semplice, guadagni punti con azioni virtuose, ne perdi comportandoti male. Un analogo sistema potrebbe funzionare anche sul web?
Un “credito sociale” maggiore potrebbe dare la possibilità di avere i propri commenti più in vista, mentre quelli degli “odiatori seriali” finirebbero in coda e magari segnalati alla polizia postale nel caso di ingiurie e offese giuridicamente perseguibili. Oppure, nei social network, il credito sociale potrebbe essere uno strumento per accedere a contenuti riservati e preclusi agli altri. Certo, questa soluzione apre un gigantesco problema di orwelliana ispirazione, con un “grande fratello” del web che censura, controlla, passa al vaglio i commenti, sanziona e punisce.
Del resto, in un certo senso, il meccanismo è già noto ai frequentatori di siti come Ebay, dove la reputazione di un acquirente o di un venditore viene valutata con un massimo di cinque stelline che sanciscono la fortuna o la disgrazia di un possibile commercio online. L’economia della reputazione funziona in questo modo: l’utenza osserva, giudica e valuta: i grandi marchi ne sanno qualcosa e conoscono la difficoltà nel riposizionare un brand associato a una cattiva reputazione. Questo tipo di economia finirebbe per trasformare anche il singolo cittadino, l’uomo della strada e la casalinga di Voghera, in un brand privo del diritto all’oblio, soggetto costantemente al controllo sui propri post (vecchi o nuovi che siano).
La strada sembra senza sbocco. Dal Forte propone una personale soluzione: “La filosofia insegna che se Socrate ha accettato serenamente di andare a morire perché una città di odiatori manipolati ha deciso di ammazzarlo, allora tutti possiamo sopportare qualche demente che, privato dell’amor proprio e della capacità intellettiva, ci augura la morte. Io brinderò a quell’augurio, possibilmente con dello Spritz e non con un calice di cicuta. E lo odierò, ma odiandolo bene”, conclude.
Insomma, sì al diritto a odiare, ma con razionalità: più o meno quello che accade con la vendita delle bevande alcoliche. “Bevi responsabilmente”, suggerisce l’etichetta sulla bottiglia di un alcolico. Odiare responsabilmente, fa bene alla salute.
[1] Cfr. https://www.ilfoglio.it/societa/2019/08/07/news/i-sentimenti-non-sono-reato-tutti-i-problemi-della-campagna-odiareticosta-268653/