di Giacomo Dallari
Osservare non equivale a guardare.
L’osservazione è piuttosto un atto intenzionale, mentre guardare richiede solamente l’ingresso di qualcosa o qualcuno all’interno del proprio campo visivo. Osservare significa scegliere, mirare, tendere lo sguardo ed è un atto che si traduce nella descrizione di un determinato evento, con le sue caratteristiche.
Nel lavoro educativo osservare è essenziale. L’osservazione, però, esattamente come qualsiasi altra metodologia di indagine, deve fare i conti con tutta una serie di limiti imposti dai diversi approcci teorici e deve calarsi il più possibile negli eventi concreti legati al rapporto tra educatore ed educando.
In Italia l’attenzione nei confronti dell’osservazione è stata sottolineata dalla maestra della Casa dei Bambini Maria Montessori che, prima ancora di affrontare le tematiche relative alle diverse competenze che i bambini devono apprendere, ha posto l’attenzione sulle competenze osservative degli insegnanti. Per questi motivi per la Montessori un insegnante deve insegnare meno e osservare di più, organizzando gli ambienti e attendendo che poi i bambini entrino in contatto con oggetti, materiali e modalità in modo spontaneo e naturale.
Lo sguardo, però, ci conduce inevitabilmente verso una prima questione che ancora oggi sembra non conclusa, continuamente aperta e riaperta: gli strumenti osservativi devono avere una valenza puramente descrittiva per essere davvero efficaci o possono includere anche modalità interpretative?
L’acquisizione di capacità osservative, oggi in modo sistematico e strutturato, viene promossa nei contesti educativi: osservare, programmare, documentare, verificare e valutare rientrano infatti in quelle che più genericamente possiamo definire competenze metodologiche dell’educatore, le quali, assieme alle competenze riflessive, relazionali, tecniche e professionali, culturali e psico-pedagogiche, vanno a definire le differenti professionalità educative.
L’educazione, comunque la si voglia intendere, è un atto dinamico in continua evoluzione, all’interno del quale l’educatore è partecipe e non può essere considerato come un mero trasmettitore e il processo educativo non può risolversi come un semplice fatto meccanico. In questo senso, insieme a Camaioni, Bascetta e Aureli (1988), possiamo affermare che «la consapevolezza circa il proprio ruolo, la conoscenza e il controllo dei molteplici fattori che influenzano e rendono più o meno efficace l’azione educativa, la capacità di analizzare e riflettere sul proprio operare, sono aspetti almeno altrettanto importanti dell’acquisizione di competenze e tecniche educative/ didattiche»[1].
Le teorie, come spesso accade, possono essere gabbie di significato. Da una parte, infatti, offrono una serie di basi sicure con le quali andiamo ad interpretare ciò che osserviamo, ci offrono strumenti codificati con i quali possiamo costruire significati operativi; dall’altra parte, però, possono rappresentare anche dei limiti strumentali nel momento in cui diventano cassette operative con pochi attrezzi dentro, limitando così la nostra visione alle uniche prospettive che riusciamo a padroneggiare. L’osservazione rientra pienamente in questo rischio teorico ed è stata analizzata e sviscerata da più parti, spesso con atteggiamenti contrapposti e sostanzialmente differenti.
La quotidianità, però, ci conferma continuamente che le pratiche osservative scelte, più che essere attività chiuse e rituali, necessitino di un riadattamento continuo. Le diverse pratiche, intrecciate tra loro, consentono all’educatore di mettere in atto metodologie più efficaci all’interno dei diversi contesti con cui si trova ad operare. La storia della concettualizzazione dell’osservazione come metodologia educativa, secondo la tradizione riconosciuta, può essere ricondotta, come affermato da Adriana Lis e Paola Venuti (1986)[2], alle prospettive psicoanalitiche, piagetiane ed etologiche che, pur animate da schemi concettuali differenti, aiutano l’educatore ad accettare i limiti strutturali interni ad ogni pratica osservativa.
Secondo la prospettiva psicoanalitica l’osservazione deve avvenire in contesti naturali e deve focalizzarsi su due direzione complementari ed integrate: verso l’esterno di ciò che viene osservato, ossia deve prendere in considerazione ciò che vede fattivamente, ciò che il soggetto fa e dice; dall’altra parte, però, l’osservatore deve tenere in considerazione anche l’interno, ossia ciò che egli stesso sente, percepisce e interpreta. L’obbiettivo è quello di analizzare tutta quella serie di conseguenze dinamiche e relazionali che tale situazione comporta. L’osservatore, quindi, entra in relazione in prima persona, è partecipe egli stesso degli effetti osservati e studiati ed ecco perché le descrizioni psicoanalitiche non si limitano ad aspetti comportamentali, ma si estendono alla sfera emotiva, agli stati d’animo e ai sentimenti in gioco. Questo tipo di osservazione non prevede l’uso di strumenti statistici o standardizzati, andando quindi a sottolineare l’importanza delle interazioni stesse avvenute all’interno del contesto, piuttosto che ai comportamenti emessi.
Jean Piaget ha condotto i sui studi utilizzando i suoi tre figli nei primi anni della loro vita. Esattamente come nell’approccio psicoanalitico, anche l’osservazione piagetiana deve avvenire in contesti naturali, ma prevede la presenza di un osservatore che porta con sé precise ipotesi. L’obbiettivo dell’osservazione è confermare o smentire tali ipotesi iniziali. Lo studio viene condotto con continuità e procede attraverso una metodologia simile a quella del diario che si estende senza un termine temporale prefissato, lungo un periodo evolutivo, prendendo in considerazione le trasformazioni che si riscontrano. La raccolta dei dati osservati prosegue secondo la relazione causa – effetto in un ambiente che, progressivamente, diventa sperimentale. Anche in questo caso l’osservatore non si limita a prendere atto del comportamento osservato, ma interviene sperimentalmente e personalmente modificando intenzionalmente la situazione oggetto di osservazione.
L’osservazione etologica in campo educativo, invece, prende le mosse dall’etologia, ossia dalla scienza che studia il comportamento animale. Essa si differenzia sostanzialmente dalle precedenti modalità in quanto la descrizione deve necessariamente avere un carattere analitico e, soprattutto, non valutativo o interpretativo. L’osservatore non è partecipe e non prende parte a ciò che indaga; è estraneo, nel senso che non prevede e non integra la possibilità dell’interferenza. L’osservatore procedere senza influenzare in alcun modo il comportamento spontaneo dell’osservato. Inoltre deve approcciarsi all’osservazione in modo neutro, cioè privo di ipotesi precostituite. L’approccio etologico, diversamente da quelli precedenti, adotta una serie di strumenti che consentono la registrazione, la descrizione e la catalogazione sistematica dei comportamenti osservati. Solo dopo tale raccolta di dati sarà possibile lavorare sulle informazioni ricavate e avanzare delle ipotesi interpretative.
Questa breve descrizione dei principali approcci nei confronti delle pratiche osservative mette in luce il fatto che l’osservazione, prima di ogni possibile concettualizzazione teorica, è caratterizzata da uno degli aspetti principali della natura umana: l’individualità. Non è possibile, infatti, pensare ad una osservazione senza chiedersi da una parte che cosa si osserva e, dall’altra, chi è l’osservatore. Ognuna delle prospettive che abbiamo osservato, infatti, contiene al suo interno una serie di limiti congeniti che non possono essere esclusi a priori. Se da una parte, infatti, non possiamo configurarci un processo interpretativo unicamente sorretto dalle spinte emozionali e soggettive tipiche dell’approccio psicoanalitico, dall’altra non possiamo neppure immaginare che uno sguardo possa essere così neutro da non prevedere o includere interpretazioni soggettive di colui che osserva.
Nel lavoro educativo, soprattutto quando questo si rivolge al disagio o alla disabilità, una verità del genere è spesso sottovalutata. Appare difficile analizzare qualcosa, come ad esempio un comportamento, e non avere, all’interno del proprio sguardo, una idea preconfezionata di tale comportamento, un’immagine socializzata e idealizzata dei contenuti di un comportamento che influisce sul giudizio globale che abbiamo di un individuo all’interno di un determinato contesto. Nello stesso modo non è neppure immaginabile che un educatore si lasci travolgere dalle componenti emotive che spesso accompagnano molte situazioni considerate al limite. In tutti questi casi lo sguardo dovrebbe rimanere immune dalle influenze esercitate dalla cultura, dagli stereotipi e da tutta quella serie di idee che, consapevolmente o meno, ci aiutano a significare il mondo. Ognuno di noi si porta dietro una serie di schemi di significato più o meno rigidi con i quali inserisce la realtà in altrettante caselle concettuali. Solo questo, se ci ragioniamo bene, ci allontana dall’oggettività tipica dello scienziato che, ricordiamolo, spesso ha a che fare con la materia e con le forze che agiscono su di essa e non, come nel caso dei lavori educativi, con la materia umana, con gli individui, i contesti e le relazioni. Tutto questo, dunque, non può garantire in alcun modo l’oggettività di ciò che osserviamo.
Forse, però, è proprio la caratteristica umana che origina questa difficoltà strutturale, che rappresenta anche un suo possibile argine. L’individualità, infatti, è quel complesso di elementi che ci consentono di essere noi stessi all’interno di universo altrimenti indifferenziato e indistinto. L’individualità è tale in quanto capace di arricchirsi e di evolvere attraverso i processi conoscitivi. Ognuno di noi, infatti, è in grado di riconoscere altre individualità senza sentirsi minacciato nella propria: nel lavoro educativo questo si traduce nella capacità di osservazione scevra dai legami tipici dei pregiudizi, libera dalle catene degli stereotipi, aperta alla modificazione e alla messa in discussione. Se è vero che l’identità è formata dalle esperienze che abbiamo vissuto e determina il modo in cui percepiamo e interpretiamo la realtà circostante, è altrettanto vero che la consapevolezza circa la sua natura ci consente di accettare l’esistenza di altri vissuti a volte simili al nostro altre volte molto lontani. In questa consapevolezza è contenuta l’abilità principale che sorregge ogni processo educativo: l’abilità di ri-conoscere l’altro che passa inevitabilmente dalle capacità di usare l’osservazione come strumento conoscitivo equilibrato ed efficace, che sappia dosare e governare le spinte emotive senza perdere lucidità e sappia giudicare ciò che vede inserendolo in una cornice di significati che magari non gli appartengono direttamente.
La conoscenza dei limiti insiti in ogni processo di osservazione è quindi uno strumento operativo vero e proprio che si traduce nella capacità di guardare l’altro portandosi dietro la propria esperienza, senza che questa diventi un metro di giudizio e utilizzando metodi analitici specifici, senza che questi diventino strutture rigide di significati. L’educazione e i suoi processi ci dimostrano ancora una volta che il limite non deve essere inteso come un termine o come una linea terminale invalicabile e minacciosa, ma come un punto di passaggio che meglio specifica una condizione e ci sprona ad oltrepassare i confini che, spesso, si trovano dentro di noi.
Bibliografia
M. Montessori, La scoperta del bambino, Elefanti Bestseller, Garzanti, 2017;
L. Camaioni, C. Bascetta, T. Aurelli, L’osservazione del bambino nel contesto educativo, Il Mulino, 1988;
L. Camaioni, P. Perucchini, T. Aurelli, Osservare e valutare il comportamento infantile, Il Mulino – Manuali, 2004;
A. Lis, P. Venuti, L’analisi fattoriale in psicologia, Cleup Editore, 1986.
[1] L. Camaioni, C. Bascetta, T. Aurelli, L’osservazione del bambino nel contesto educativo, Il Mulino, 1988, p.20. Per un ulteriore approfondimento si consiglia: L. Camaioni, P. Perucchini, T. Aurelli, Osservare e valutare il comportamento infantile, Il Mulino – Manuali, 2004.
[2] Per un approfondimento si consiglia A. Lis, P. Venuti, L’analisi fattoriale in psicologia, Cleup Editore, 1986.