EXAGERE RIVISTA - Gennaio-Febbraio 2024, n. 1-2 anno IX - ISSN 2531-7334

I Muri, l’Europa, la Storia. Intervista a Achille Occhetto

di Gianfranco Brevetto

– In questa epoca di rapidi cambiamenti e di quasi totale assenza di analisi in campo politico è per noi  molto importante ospitarla nella nostra rivista. L’occasione è quella dell’uscita del suo ultimo libro che, già nel titolo La lunga eclissi. Passato e presente del dramma della sinistra, appare di un’attualità stringente e ineludibile. Da cosa prende le mosse la sua tesi?

–  Ho iniziato a scrivere questo libro in vista del trentesimo anniversario del crollo del muro di Berlino e della svolta della Bolognina. Il crollo del muro è stato uno spartiacque fondamentale che ha cambiato tutti i parametri della politica internazionale e ha determinato anche la fine della politica del ‘900, d’altro canto occorre rivalutare l’altezza culturale della svolta politica del partito, per la capacità di guardare in avanti che abbiamo avuto nell’ormai lontano 1989. Di solito si parla di questo episodio come un atto di coraggio, siamo stati gli unici nell’ambito del sistema politico italiano a capire che cambiavano tutti i dati della politica e non era solo una questione interna ai comunisti. Noi comprendemmo in tempo che si trattava di una svolta epocale e ponemmo alcuni parametri nuovi, ad esempio nel rapporto tra pubblico e privato o il problema ambientale.

– Da quella svolta, come dal crollo del muro, in effetti tante cose sono cambiate soprattutto per la sinistra. Si tratta di un lento declino irreversibile?

– No, direi proprio di no. Certo, quando mi arrivano le notizie delle sconfitte del socialismo democratico, anche in Italia, queste sono per me un grande dispiacere. Ma la sinistra è come un’araba fenice che può risorgere dalle proprie ceneri solo se è consapevole che deve cambiare tutto. Per me non è un declino ma un’eclissi, la sinistra è entrata in un cono d’ombra dal quale si può uscire. Nel mio libro ho cercato di fare un’analisi della sconfitta delle sinistre e di tracciare una prospettiva, con un’avvertenza però: per cercare di uscire dalla crisi occorre capire come ci si è entrati.

– Nel quadro politico internazionale, lei sostiene che l’Italia sia un esempio, un paradigma. Il quadro politico è attualmente irriconoscibile, e per certi versi incomprensibile, anche se lo confrontiamo con altri paesi europei che pur hanno conosciuto profondi cambiamenti.  Perché siamo arrivati a questo?

– Abbiamo perso una bussola della prospettiva politica, innanzitutto perché c’è qualcosa di profondo che non ha funzionato nell’individuazione dei rischi del neoliberismo. Si tende a dare la colpa alla globalizzazione, ma la globalizzazione ha portato anche a grandi risvolti positivi. Il problema vero è stata la globalizzazione a direzione neoliberista. Le forze di sinistra, socialiste, socialdemocratiche avanzate, sono rimaste schiacciate dalla politica neoliberista e non hanno saputo individuarne, fino in fondo, i limiti e le contraddizioni. Alle prime avvisaglie di crisi di questo modello abbiamo avuto il paradosso che, invece di avere una risposta da sinistra, la risposta è venuta da destra, soprattutto da quella populista, sovranista, nazionalista.  Il fenomeno italiano s’inserisce in un fenomeno europeo e anche mondiale.

– Nelle sue interessanti argomentazioni, lei cita Machiavelli quando parla delle difficoltà a far emergere il nuovo. Perché si ha così difficoltà nel cambiare anche quando questo cambiamento appare necessario?

– Machiavelli sosteneva che c’è un periodo di passaggio intermedio nelle riforme.  Se ne vedono i costi ma non se ne individuano immediatamente i vantaggi a lungo termine. In una politica che è impazzita, e che è una politica dell’eterno presente in cui si gioca costantemente l’obiettivo del consenso elettorale, è estremamente difficile pianificare un processo di riforma a lungo periodo. Chi rinnova si trova a non avere l’appoggio di coloro che possono beneficiare del rinnovamento e si trova di fronte una canea di opposizioni puramente protestatarie. Questa è una dialettica presente in molti paesi e anche in Italia è stato così.

– Un tema caro alla sinistra e che proviene direttamente dalla riflessione marxista, è quello della storia. Trattare presente, passato e futuro come un unico destino è una visione che tiene conto delle complessità e della continuità dell’agire umano. Qual è questo destino e come possiamo farcene carico?

– Chiariamo che non c’è in me una visione teleologica, non ritengo che ci sia un destino già scritto. Ritengo che in ogni momento della vita pubblica, ma anche nella vita personale, non si possa prescindere dalle nostre radici, da quello che siamo stati. Il presente deve essere un punto di raccordo tra il nostro passato e la prospettiva che si indica.  Questa prospettiva è comunque una prospettiva ellittica, non è detto che si realizzi nel modo in cui è stata tracciata, può cambiare anche in corso d’opera. Nella storia come nelle scienze non esiste solo la causa ma anche il caso e questo può cambiare il corso degli eventi.

– l’Italia è stato un osservatorio privilegiato per la sinistra europea proprio grazie alla svolta della Bolognina. Ma questo cambiamento ha posto un problema identitario della sinistra. Come farvi fronte per poi tradurlo in un momento di sintesi sul piano politico?

– Non credo che ci sia una ricetta unica. Nella seconda parte del libro ho cercato di indicare quali possano essere le prospettive di un risveglio della sinistra, sia in ambito europeo che nazionale. In Europa io ritengo, e qui c’è un problema di identità molto importante, che il tema fondamentale della crisi della sinistra dipenda dal fatto che ci troviamo di fronte ad una crisi della democrazia. Non si discute abbastanza del tema della sovranità e, da questo punto di vista, consiglio una visione metodologica: non bisogna condannare in modo ceco e aristocratico le visioni populiste, i populisti sono partiti da denunce giuste che la sinistra non ha saputo vedere in tempo, sono state le risposte ad essere sbagliate. La signora Lepen dice che non c’è più sovranità economica e fiscale, per un verso ha ragione. Ha torto quando vuole ricondurre la sovranità entro i vecchi confini angusti e puramente nazionali. Occorre considerare che, nel passaggio tra la sovranità nazionale e quella sovranazionale, la sovranità stessa è diventata un oggetto misterioso. Ritengo che, uno dei primi elementi di una ritrovata identità di una sinistra moderna, sia una sua rifondazione sulla base di un riformismo cosmopolita, di un riformismo transnazionale.

L’Europa ha avuto anche un suo ruolo in quanto sta accadendo.

-L’Europa ha fornito degli alibi ai nazionalisti e sovranisti, le sinistre non possono chiudersi in una posizione di autodifesa ma devono affrontare il problema del cambiamento, del mutamento anche strutturale dell’Europa, con una nuova costituente che faccia riferimento ai padri fondatori dell’Unione. Se lo scontro sarà tra un europeismo difensivo e i sovranisti, la partita è persa. Gli europeisti devono battersi per un’altra Europa, per una sua trasformazione radicale. Va spiegato all’opinione pubblica che i veri problemi sono le grandi questione planetarie: ambiente, emigrazione, diseguaglianze. Questi possono essere affrontati solo con una sinergia a livello mondiale, ascoltando quanto ci viene detto dagli scienziati. Come recentemente ha fatto la giovane Greta coinvolgendo le piazze di tutto il pianeta. Quando io parlo dei tarli che hanno distrutto l’edificio del comunismo sovietico, metto l’accento su uno in particolare: il comunismo è morto con la fine dell’internazionalismo, con l’avere trasformato l’idea internazionalista di Marx nello scontro tra blocchi contrapposti, averla ridotta ad una miserabile questione geopolitica di tipo ottocentesco, nell’avere ammazzato l’idealità della sinistra. Molti dimenticano il fatto che tutto il movimento operaio, comunista, socialista, anarchico è nato dall’internazionalismo. La morte dell’internazionalismo è stata la morte della sinistra.

– Nella ricostruzione di questa idealità un ruolo importante è certamente quello del sindacato. Come coinvolgere le organizzazioni che rappresentano chi lavora?

– Il sindacato deve mantenere la propria autonomia, ma deve fare un salto. Questa organizzazione ha una tradizione come sindacato degli occupati, ma questo realtà omogenea non esiste più. Abbiamo contraddizioni sociali di tipo nuovo, il sindacato deve sapersi adeguare a queste diversità che vanno al di fuori della vecchia fabbrica e della vecchia visione del lavoro tradizionale dell’era industrialista. Deve tentare di rappresentare tutti i disagi, le vecchie e le nuove povertà in forma articolata.

– Nel libro lei indica, tra le condizioni per uscire da questa eclissi, l’esistenza di un partito articolato che vada al di là delle concezioni fluide attuali. In cosa consiste?

– l’idea è quella di un partito con delle ramificazioni sensibili sul territorio, aperto ai centri di iniziativa. Occorre abbandonare le tentazioni populiste che ci sono state nella sinistra, non ci può essere più un capo e il popolo. Occorre ricostruire una cittadinanza attiva come, ad esempio, hanno fatto le famiglie di Lodi sulle mense o la manifestazione contro il razzismo di Milano o, ancora, le recenti manifestazioni mondiali sull’ambiente. Si deve abbandonare la pretesa che queste cose nascano grazie ad un partito struttura che le organizza, ma possano nascere autonomamente nella società. Un partito moderno deve avere la capacità di mettersi in collegamento e trasformare in iniziativa politica, di governo, parlamentare, l’insieme di questi processi. Queste istanze sono e rimangono necessarie: il popolo, senza alcune mediazione, può trasformarsi in una brutta bestia.

 

 

Achille Occhetto

La lunga eclissi.

Passato e presente del dramma della sinistra

Sellerio, 2018

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