di Primavera Fisogni
Non c’è nulla di meno semplice, nel mondo delle relazioni, del rapporto tra un Io e un Tu. Lo ha messo in luce Cartesio, nelle sue Meditazioni metafisiche[1]: l’idea di me stesso come di un Io che pensa, è tutto ciò che posso autenticamente dire di conoscere. Persino l’esistenza del mio corpo, che è altro rispetto alla sostanza pensante del cogito di cui ho coscienza, finisce per diventare una congettura, secondo il pensatore francese, alla luce di quell’unica, primaria evidenza. Ma nel porre la questione dell’Io (penso) come sola certezza, non si è affatto risolto il problema del Tu e dell’altro che mi sta davanti, che rende possibile parlare di una relazione che può diventare incontro. Al contrario, è la sola certezza dell’Io ad riaprire una porta alla fondazione del Tu, a ridare vigore al problema dell’altro.
Proprio perché, nel momento in cui dico Io, l’altro inevitabilmente si annuncia[2] e, nell’esperienza dell’empatia, come ha fenomenologicamente rilevato la Stein[3] si sperimenta chi ci sta davanti come un altro io[4]. Ciò non significa che io “conosca” questo altro: solo le mie emozioni, i miei sogni, i miei sentimenti sono da me realmente conosciuti, mentre ciò che pensa chi sta davanti a me in questo momento mi è ignoto, nonostante io riesca a intuire qualcosa di lui, magari proprio il fatto che di lui io ignoro quasi tutto, a differenza di quanto conosco di me[5]. La filosofia, dopo Cartesio, si è dunque trovata nella necessità di provare l’esistenza di questo secondo termine, che la vita porta naturalmente a riconoscere nella prospettiva della relazione.
In questa prospettiva si inserisce anche la nostra analisi, mirata all’osservazione del rapporto Io-Tu come condizione necessaria, per quanto non sufficiente, dell’incontro. Non si tratta primariamente di fondare o giustificare, ma di vedere, di descrivere il fenomeno in questione così come ci appare, con il consueto obiettivo fenomenologico di intuirne i tratti essenziali.
Come si è rilevato in precedenza, il rapporto Io-Tu non coincide con l’evento dell’incontro ma esprime una varietà di situazioni in cui si inscrive il rapporto della persona con gli altri esseri umani[6]. Nel trasmettere le immagini della tragedia dello Tsunami in Estremo Oriente, la televisione porta nella mia casa volti sofferenti e disperati. Il loro dolore di queste persone diventa la mia stessa sofferenza perché sento che, nella diversità di ciascuna di quelle vittime (milioni di Tu), Io incontro la mia stessa fragilità. Così, se mi affaccio alla finestra e guardo i passanti che camminano lungo la strada, ciascuno di essi, nella prospettiva del mio atto visivo, diventa un Tu, rispetto all’identità (Io) che mi appartiene. In entrambi i casi, la scoperta del Tu è la scoperta di un altro che non sono io, ma che con me condivide il carattere personale e il trovarsi in un mondo di cui io faccio parte. E’ il termine di una relazione in cui sono coinvolto, che mi trovi a migliaia di chilometri o a pochi passi dall’altra persona.
Nell’incontro interpersonale, la relazione per eccellenza umana, la coppia Io-Tu carica di senso quel rapporto immediato enunciato poco sopra, che dipende dal trovarsi nel mondo, dal vivere in uno stesso Paese o nel medesimo condominio. In che modo? Possiamo anzitutto rilevare che nell’incontro viene meno quel carattere in qualche modo “neutro” con cui guardiamo genericamente ad altre persone: non siamo in presenza di un semplice “altro”[7], di un oggetto intenzionale che si dà alla mia coscienza[8], ma di un Tu non solo soggetto ma individuo[9]. Perché, se l’incontro è, nelle sue fibre più intime, un trovarsi intenzionalmente di fronte in un rapporto di apertura comunicativa, a partire dal piano dello sguardo, chi si trova in relazione con me può esprimersi e si esprime. Pur presente alla mia coscienza (oggetto intenzionale) è soggetto di atti, dunque, soggetto in senso pieno. Non solo. Anche la sua “oggettività” è plasmata a questa riconosciuta soggettività: il modo proprio con cui i termini entrano in rapporto, nell’incontro, è dato dal “rivolgersi”, dall’essere partners[10]. Se ci pensiamo, sul piano grammaticale, il caso che corrisponde a questo atteggiarsi non è quello del complemento oggetto bensì il vocativo. Un caso che, nella lingua latina ha la medesima desinenza del nominativo, cioè del soggetto. Il Tu, nel diventare, in occasione di un incontro, “qualcuno” qualificato, svela tre volti linguistici: è oggetto per la coscienza (non oggetto, dunque, in quanto strumento), soggetto di atti nella prospettiva del rapporto che si instaura con l’altro termine (Io) e ancora una volta soggetto di interpellazione, nella prospettiva comunicativa che appartiene in modo eminente a questa circostanza.
Un esempio, tratto dalla cronaca, di come l’incontro traduca l’alterità in soggettività, ci viene dall’incontro di Papa Ratzinger con i rappresentanti della comunità musulmana, durante le Giornate mondiali della gioventù a Colonia, nell’agosto 2005. Nel suo discorso, il Pontefice si è rivolto agli islamici come ad “amici”, sottolineando fin da principio di non volersi riferire a una generica espressione religiosa, ma alle persone che la costituiscono, essendo l’amicizia anzitutto un evento interpersonale, e solo in senso traslato, comunitario.
Le considerazioni enunciate fin qui, pur nei limiti di un discorso inevitabilmente semplificato, risultano particolarmente utili anche nella prospettiva del dibattito teoretico sulla fondazione del Tu, a cui accennavamo all’inizio del paragrafo. Se ci limitiamo a considerare la coscienza alla maniera di Cartesio, come qualcosa di dato in se stesso, come una sostanza, come un “io” che sta per conto proprio, in termini filosofici, che possiede uno statuto ontologico, risulta davvero problematico dar conto di ciò che essa non è, di quanto le sta fuori (il Tu, il mondo). Tuttavia, se ci poniamo nella prospettiva, esistenzialmente esperibile, della coscienza come l’aver coscienza di qualcosa (Husserl[11]), allora l’Io assume il carattere di soggetto di atti (Io vedo, io penso, io ho percezioni), non ultimo quello della relazione, dell’andare verso ciò e chi non sono Io. È proprio sulla base di questa evidenza che il filosofo francese Francis Jacques – ad esempio – ha giustificato l’esistenza del secondo, ingiustificabile, termine di relazione. Egli porta la nostra attenzione al momento comunicativo, inscritto nella relazione interpersonale, e in modo particolare al dialogo[12]. Jacques, dunque, sostiene che la fondatezza del Tu avviene attraverso il riconoscimento della presenza di un interlocutore al quale il mio discorso si indirizza (“si le discours est en acte, le sujet actual (je) où virtuel (tu) y fait acte de présence en prenant la parole”)[13]. Il passaggio argomentativo di Jacques è importante per le conseguenza a cui perviene, nelle quali si riassumono gli sforzi teorici da Cartesio in poi. Da logico qual è, Jacques dà ragione all’autore della Meditazioni metafisiche sul fatto che il Tu non è conoscibile, nel senso che non si può oggettivare; tuttavia si può riconoscere; quella che avviene attraverso l’esperienza discorsiva è dunque reconnaissance d’une présence[14]. Riconoscimento, non conoscenza[15].
Il rapporto Io-Tu si colloca quindi oltre il piano della coscienza (sia nei termini cartesiani di cogito come sostanza, sia in quelli husserliani di un io vedo, io sento qualcosa che mi è dato in modo intenzionale) del singolo soggetto per aprirsi, sul piano della relazione, alla dimensione della inter-personalità. Per chiarire ulteriormente questo importante concetto, torniamo ancora una volta alla prospettiva intenzionale husserliana, che rispetto al cogito di Cartesio riconosce l’esistenza del Tu per il suo darsi alla coscienza dell’Io che pensa.
Ora, se vedo dalla mia finestra qualcuno che passeggia per strada, potrò dire di avere presente, qui e ora, qualcuno (un Tu) a cui riconosco caratteri personali, simili ai miei, di cui posso avere una qualche comprensione pur nella non conoscenza. Se invece mi avvicino per chiedere un’informazione, e il generico Tu entra in relazione con me, con uno sguardo o una parola, oltre ad avere presente alla mia coscienza questa persona, sento pure di essere presente Io a chi mi guarda, ascolta o respinge. Dire che il rapporto Io-Tu, nel frangente di una relazione in atto (ed eminentemente nell’incontro) si colloca oltre il piano della coscienza, vuole significare questo: l’essere oltre la coscienza di uno dei due termini, per diventare l’essere reciprocamente coscienti, oltre che individualmente tali.
Chiediamoci: questa intuizione, a quali conseguenze porta? Quali contributi fornisce nella prospettiva della fenomenologia dell’incontro? L’instaurarsi della pariteticità del piano comunicativo – come condivisa potenzialità[16] – mette in discussione la presunta supremazia di uno dei due termini, dell’Io o del Tu, come ad esempio si rileva, sia pure con esiti molto differenti, nel pensiero di Lévinas[17] e Sartre[18].
Che l’attitudine comunicativa rinvii a una condizione di pariteticità, di parternariato – il potere di entrambi i termini di entrare in questo genere di relazione, esprimendo all’altro il proprio sentire, interpellando, rispondendo – è un elemento di grande interesse per la ricerca che stiamo compiendo. Perché in esso si manifesta quell’intesa che abbiamo visto affiorare nella descrizione dell’incontro tra sconosciuti e nell’incontro preliminare al dialogo. Ciò che a questo punto notiamo, è l’appartenenza, a pieno titolo, dell’intesa alla polarità antinomica dell’Io e del Tu. Essa si rivela nella relazione, nel volgersi tensivo dei due termini tra di loro, in modo peculiare in quella relazione ad alto colore comunicativo che è appunto l’incontro. Se ci pensiamo, anche guardare qualcuno dalla finestra sotto casa o nelle immagini che scorrono alla televisione rende il soggetto che guarda e dice Io consapevole dell’esistenza di un Tu. L’intesa già si annuncia come una possibilità individuale: Io che guardo le vittime dello Tsunami mi sento in qualche modo vicino a loro, sento qualcosa del loro dolore, avverto l’esigenza di mobilitarmi; se osservo un estraneo che cammina sotto casa, è probabile che mi chieda di chi si tratti o dove si stia recando o semplicemente che provi interesse per esso.
Ma solo quando i due soggetti diventano, insieme e consapevolmente, termini di una relazione, cioè nel volgersi[19] reciproco, essi possono intendersi, sia 1) nel senso di comprendersi comunicando – che del 2) sentirsi protagonisti di un rapporto, di un evento che trascende la propria e l’altrui soggettività. Anche qui, come si era rilevato a proposito del dialogo, originaria è l’intesa, più della polarità degli opposti Io-Tu. Come si è visto, la coppia interpersonale si origina sulla base di un “tendere a”, di una tensività della vista o del pensiero verso un oggetto che si dà intenzionalmente alla coscienza, dunque solo sulla base di una relazione possiamo parlare della costituzione di un Io e di un Tu.
Guardare, essere guardati. Io che ti guardo, tu che mi guardi
Restiamo ad osservare il rapporto Io-Tu, costitutivo dell’incontro come di ogni altra relazione interpersonale, occupandoci ora dell’aspetto più macroscopico della relazione sottesa a questa coppia antinomica, vale a dire la prospettiva del guardare e dell’essere guardati, di un Io che guarda e di un Tu che a sua volta guarda. Nel cercare i tratti dell’incontro abbiamo infatti riconosciuto una speciale importanza al volgersi degli sguardi, autentico grado zero dello scambio comunicativo.
A titolo introduttivo ci ricolleghiamo alle parole della Rivetti Barbò sulla centralità dell’incontro nel costituirsi del dialogo. “Si noti – scrive – che il problema filosoficamente più rilevante riguarda sia l’esistenza di almeno un incontro tra più interlocutori, sia la modalità di questo incontro”.[20] La dinamica del guardare-essere guardati incontra questa esigenza teoretica-fondativa, poiché esprime l’essere in atto di un incontro, esplicitandone, nel contempo le modalità proprie. Il solo piano intersoggettivo (Io-Tu), da questo punto di vista, va invece considerato come deficitario, poiché esprime tutt’al più il costituirsi di una coppia di termini di relazione. Perché il suo costituirsi può essere indipendente dall’incontro, inteso come un volgersi intenzionale di sguardi.
Se mi affaccio alla finestra e guardo i passanti per strada, ciascuno di essi, nella prospettiva del mio atto visivo, diventa un Tu, rispetto all’identità (Io) che mi appartiene. Se quel vedere diventa guardarsi reciproco, allora il piano della percezione cambia, ma si modifica anche il colore – per così dire – dell’esperienza. Perché nel riconoscere l’altro che guardo o nel non conoscerlo affatto, esprimo una domanda alla quale aspetto una risposta da chi mi sta di fronte. Domanda che non è da intendersi come richiesta specifica (“chi sei?”), bensì come più generale produzione di senso, come costituirsi di un rapporto comunicativo.
Quando la Rivetti Barbò dice, dunque, che il primo problema, filosoficamente rilevante, a proposito del dialogo, riguarda l’esistenza di un incontro, induce a riflettere sul fatto che tale evento non è qualcosa di dato immediatamente e intuitivamente (come potrebbe essere il “generico” rapporto Io-Tu). Un incontro – lo si è ampiamente argomentato – non è insomma un tipo di relazione che si costituisce quasi “automaticamente[21]. Si tratta, piuttosto, di un evento di elezione, nel quale entrano in gioco figure componenti ulteriori, di natura conoscitiva (nel guardare l’altro, nell’identificarlo, nel farmi un’idea nei suoi confronti, esprimo dei giudizi) non meno che pratica (il soffermarsi del mio sguardo su quello dell’interlocutore, la risposta al suo volgersi nei miei confronti sono atti mossi dalla volontà).
Non meno rilevante del fatto che vi sia un incontro, però, è la modalità dell’incontro. Perché, se è vero che non vi è dialogo senza incontro, non è detto che l’evento dell’incontrarsi preluda necessariamente a quello dialogico, come si è già rilevato. Cosa significa parlare dei “modi” di essere di un incontro?
Evidentemente, come non vi è nulla di automatico nell’incontro, non esiste neppure uno svolgersi unico di esso, al contrario le variabili della relazione interpersonale rinviano a un’imprevedibilità di fondo, che è poi l’ingrediente principale della sorpresa che si accompagna – come vedremo – a ogni “stare di fronte” a qualcun altro. Le grandi filosofie dell’incontro sviluppatesi nel corso del XX secolo, ci riferiamo in modo particolare a Lévinas, Sartre, Buber – sembrano essere proprio tentativi di esplorare le modalità di questo speciale rapporto interpersonale, con esiti diversi. Non a caso, i tre pensatori, con particolare rilievo Lèvinas e Sartre, prendono in esame lo sguardo e il volto, vale a dire i luoghi d’origine dell’espressività personale, rivelatori dell’identità, e quindi i più appropriati ad esprimere le possibili declinazioni dell’incontrarsi.
La complessità del pensiero di questi autori non può essere certamente riassunta in pochi paragrafi. Non è nostra intenzione indagare i fondamenti del loro pensiero, alla luce di una bibliografia critica già molto densa, né di fornire un’esposizione completa della loro antropologia filosofica. Richiameremo a grandi linee la teoria del regard-regardé e del visage d’Autrui, con l’obiettivo di cogliere in esse due “modalità” problematiche del rapporto interpersonale, che danno dell’incontro una visione, a nostro giudizio, riduttiva e fuorviante. Ciò perché, al di là delle differenze radicali, l’antropologia di Sartre e Lévinas guarda alla relazione con l’alterità nei termini di una “non relazione”.
Nel caso di Lévinas, l’assoluta trascendenza dell’altro consente solo una contro-intenzionalità, un’intenzionalità invertita che muove dal visage verso il soggetto che dice “io”, che nella recezione di questo appello, assume la responsabilità dell’altro. Nel caso di Sartre, il soggetto che si accorge di essere guardato è in balìa della presenza incombente dell’altro. In entrambi i casi, la relazione-non relazione con l’alterità – altamente etica in Lévinas, conflittuale in Sartre – manca della componente comunicativa. L’averla trascurata, a vantaggio di altre componenti antropologiche, fa sì che la dimensione dell’incontro sia sbilanciata da una parte (Autrui/Lévinas) o dall’altra (Regard/Sartre), imponendo al rapporto interpersonale o una coloritura esclusivamente etica e totalmente bilanciata sulle dinamiche della libertà. Non è casuale che nessuno dei due pensatori parli dell’altro (termine di relazione) come di un Tu, sintomo questo del carattere di “non relazione” attribuito al rapporto interpersonale.
L’incontro dell’altro come incontro con il mistero in Lévinas
“La relation avec l’autre est une relation avec un mystère”.[22] In questa frase, assai incisiva, di Lévinas possiamo ritrovare il Leitmotiv della sua antropologia filosofica. Il rapporto con l’altro è mistero perché non 1) apre alla conoscenza dell’altro e perché 2) l’altro trascende ogni possibilità di oggettivazione. Del resto, per Lévinas la ratio non è affatto l’organo della conoscenza nei termini del rapporto di un soggetto a un oggetto, quanto piuttosto relazione tra moi et Autrui[23]in cui la responsabilità precede ogni possibile tematizzazione[24].
Questo rapporto si instaura nel volgersi al volto[25] dell’altro. Ma si tratta di un rapporto che avviene al di fuori di ogni “meccanismo” intersoggettivo consueto. Io non sperimento un Tu come un altro Io, né si verifica una condizione di reciprocità, che abbiamo scoperto correlata a quella particolare relazione che è l’incontro. Nella dinamica descritta da Lévinas, l’Io che guarda vive una vertigine totale, essendo la condizione di soggetto in tutto e per tutto dipendente dal volto dell’altro. “La subjectivité c’est l’Autre-dans-le-Même” scrive Lévinas, “selon un mode qui diffère aussi de celui de la présence de interlocuteurs l’un à l’autre, dans un dialogue où ils sont en paix et en accord l’un avec l’autre. L’Autre dans le Même de la subjectivité, est l’inquiétude du Même de la subjectivité inquieté par l’Autre” [26] (La soggettività è l’Altro-nel-Medesimo secondo un modo che differisce anche da quello della presenza degli interlocutori l’uno all’altro, in un dialogo dove sono in pace e in accordo l’uno con l’altro. L’Altro nel Medesimo della soggettività, è l’inquietudine del Medesimo della soggettività resa inquieta dall’Altro).
In questo spostarsi del baricentro relazionale dall’Io all’altro, Lévinas ha letteralmente invertito la soggettività, nota con efficacia la De Baw, che mostra come il concetto di envers non esprima solo questo ribaltamento, ma un andare verso l’altro come risposta originaria, di natura etica, niente affatto teoretica (“Lorsqu’il s’agit du visage d’Autrui, il faut donc, d’après Lévinas, considérer que ma responsabilité envers lui fait partie de son etre-visage”).[27]
Si può parlare di una relazione paradossale, di “non relazione”, in cui la signoria dell’altro si impone sulla soggettività dell’Io. Con la conseguenza di vivere, in prima persona, la trascendenza assoluta dell’assolutamente altro, offerta dalla nudità del volto dell’altro, uno stato che indica l’impossibilità di un ulteriore svelamento e interpella alla decisione (di accettare o rifiutare l’opzione della trascendenza e dell’infinito). Come rilevano Petrosino e Rolland, il visage levinassiano apporta una nozione di verità che non è lo svelamento di un neutro impersonale, ma un’espressione.[28]
Il rapporto tra volto, trascendenza e relazione è ulteriormente affrontato da Marion, che muove le sue riflessioni proprio da questo nocciolo duro della filosofia levinassiana, precisando che la trascendenza per eccellenza è quella che si alza dalla contro intenzionalità, e dalla contro intenzionalità per eccellenza che è quella del volto (visage)[29]. Da queste parole si ricava che la relazione con il mistero, così come Lévinas intende la relazione con l’altro, non è affatto una relazione, non tanto per l’enigmaticità del termine di riferimento, ma per il fatto che l’Autrui, l’Altro, non è affatto un termine. L’intenzionalità, in senso husserliano, indica l’essere presenti delle cose alla coscienza. Ora, ciò non è possibile quando si parli dell’Altro, poiché la sua trascendenza assoluta non ne permette alcuna oggettivazione. In questo senso, si capisce, perché lo stesso Marion inserisca il fenomeno del visage nel dominio dei fenomeni saturi, vale a dire, di quei fenomeni in cui la portata dell’intuizione supera quella della intenzione. Se guardiamo le cose da questa prospettiva, si comprende la definizione di “contro-intenzionalità” data dal metafisico francese a proposito del pensiero di Lévinas.[30] Questa inversione di intenzionalità si esplica[31] nel momento in cui si accoglie l’appello dell’altro, che è poi espresso dalla trascendenza infinita del visage, e richiede di assumere la responsabilità per l’altro.[32]
L’altro diventa così il luogo stesso della metafisica [33]e la metafisica, intesa nella sua accezione di filosofia prima, diviene etica[34], affermando il primato della responsabilità non solo sulla conoscenza teoretica, ma anche su un concetto del dominio pratico, morale, vale a dire quello della libertà[35]. Non si può tracciare un quadro minimale del pensiero levinassiano se non si ricordano i concetti regolativi di séparation (elaborato in modo particolare in Totalité et Infini) e di substitution (presentato in Autrement qu’être). In entrambi i casi si tratta di una risposta al visage: la separazione risiede nell’accoglimento del volto dell’altro, nell’instaurarsi di una relazione non teorica, in cui la soggettività viene per così dire visitata dall’idea di infinito. In questa congiunzione-separazione, si produce dunque l’esperienza della trascendenza; in tal modo è lecito parlare di separazione come secrezione.[36] La sostituzione è invece la soggettività responsabile, l’uno-per-l’altro. Non si tratta di prendere il posto dell’altro. L’essere-per indica, infatti, in senso generale, il rinviare a qualcosa: si pensi alla metafora, figura retorica in cui un’immagine sta per qualcosa d’altro. Ecco, la sostituzione, nella prospettiva levinassiana richiama in un certo senso questa idea di rinvio (io sono responsabile per l’altro) non un concetto di spossessamento (io prendo il posto dell’altro).[37]
La teoria del visage presenta uno scollamento significativo rispetto al modo in cui la relazione interumana si offre, in quanto fenomeno esperibile. L’altro a cui si volge l’Io, nella descrizione che ne dà Lévinas, non possiede l’aspetto di una persona, che nel viso ha il centro stesso della sua espressività e svela la profondità personale del suo essere[38], ma di una sfinge o di una maschera[39] o ancora di un volto dipinto[40]. Del visage d’Autrui sappiamo che ci guarda. Guardare vuol dire muovere gli occhi, lanciare messaggi, esprimere un sentire interiore. Se l’altro mi guarda e il guardare umano è questo (a differenza del vedere degli animali o come può fissarci un volto umano dipinto), allora questo Autrui qualcosa comunica. Per quanto esso mi trascenda – ma la trascendenza è parte integrante di ogni soggetto che non sono io – non posso negare questa dimensione.
L’altro è sempre un mistero, da questo punto di vista, ma, nel comunicare e nell’agire, manifesta se stesso. Né è pensabile l’origine della responsabilità per l’altro nella sola esperienza di trascendenza che, eventualmente, può produrre il volto dell’altro. La relazione Io-Tu offre una componente di responsabilità non minore di quella “assoluta” che traluce nel paradigma di Lévinas. Dove si intravede? In due momenti della dinamica relazionale interpersonale: 1) il Tu, nel rivolgersi a me che guardo, mi chiede di fatto di autodeterminarmi (a dare una risposta verbale, ad agire in modo non verbale); nel momento in cui il generico “altro” diviene un Tu (nella relazione), riconosco le sue fragilità e le sue potenzialità, quindi mi rispecchio in lui e in qualche modo sono indotto a riconoscere che gli devo rispetto, che non posso vulnerarlo. Atteggiamenti, questi, in cui irrompe prepotentemente la nozione di responsabilità.
[1] R. Cartesio, Meditazioni metafisiche, Milano, Rusconi, 1998.
[2] Per J.-L. Nancy, l’io non si dà come ego sum, bensì in termini comunitari ancor più che relazionali, come ego cum. In Ego sum, Paris, Flammarion, 1979. Concetto ulteriormente precisato in Être singulier pluriel, Paris, Galilée, 1996: “la vérité de ego sum est un nos sumus”, pag. 53.
[3] E. Stein, L’empatia, Milano, Franco Angeli, 1992. “Come nei propri atti spirituali originari si costituisce la propria persona, negli atti vissuti empaticamente si costituisce la persona altrui”, pag. 191.
[4] Ricollegandosi alla ricerca della Stein, la De Monticelli chiarisce ulteriormente il concetto: “L’empatia è atto che coglie un altro come un altro io (…) noi vediamo gli altri come nostri simili”. In La conoscenza personale, op. cit. pag. 160.
[5] Scrive la Rivetti Barbò a questo proposito: “(…) solo l’incontro con l’interlocutore ha questo vantaggio: che nell’atto stesso di percepirlo come tale, ossia come uno con cui ha senso ‘dialogare’, capisco che il suo presentarsi a me in modo globale mi pone innanzi (…) il suo versante ‘esteriore’ (di solito generico e superficiale) che ingloba quelle sequenze di singoli vissuti che formano la sua vita ‘interiore’. Sicché solo nel percepire l’interlocutore capisco che ciò che di lui ignoro è formato da tali sequenze di vissuti: dei quali mi manca di conoscere i particolari, i contenuti (…) ma che, tuttavia, in lui ci sono”. La studiosa qualifica “conoscenza inversa” questo peculiare tipo di comprensione dell’altro. “Ognuno ha di se stesso un tipo di conoscenza che è, per così dire, l’inverso del tipo di conoscenza che ha di ogni altro (…) proprio qui sta il motivo della predetta conoscenza e (…) ignoranza reciproca tra interlocutori”. F. Rivetti Barbò, Dialogo e malinteso, op. cit., pagg. 39, 40 e 41.
[6] Martin Buber non sente il bisogno di giustificare la conoscenza del Tu, in virtù dell’immediatezza con cui è in rapporto all’Io.
[7] Sul ruolo dell’altra persona nella costruzione dell’identità del proprio sè, si legga P. Prini, “La struttura dialogica dell’esistenza”, op. cit., pag. 42.
[8] Marion ritiene invece che il fenomeno del volto altrui (come quello dell’opera d’arte, ad esempio) si dia nei modi della contro-intenzionalità. Si legga a proposito il capitolo Le je di Étant donnée, op. cit., pag 264.
[9] AA VV, Penser le sujet aujourd’hui, Paris, Méridiens, Klincksieck, 1988; P. Engel, Etat d’esprit. Question de philosophie de l’esprit, Aix-en-Provence, Alinea, 1992.
[10] “Rencontrer l’autre, c’est l’aborder comme parternaire, non comme objet”, in F. Jacques, Différence et subjectivité, op. cit., pag. 178.
[11] In E. Husserl, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität. Texte aus dem Nachlaß: Erster Teil: 1921-1928; Dritter Teil: 1929-1935, Der Haag, Nijhoff, Kluwer Academic Publisher, 1973. Altro testo essenziale per comprendere l’evoluzione del concetto di intersoggettività nella prospettiva husserliana è E. Husserl, Cartesianische Meditationen und Parisier Vorträge, Nijhoff, Der Haag, Kluwer Academic Publication, 1950. Per un repertorio analitico delle teorie dell’intersoggettività, si legga A. Jacob, Anthropologie du langage. Construction et symbolisation, Bruxelles, Pierre Mordaga Éditions, 1990.
[12] Vi è un approccio al dialogo che si sofferma analiticamente ad esaminare il rapporto Io-Tu, interrogandosi sulla fondatezza della seconda persona. Calogero vi fa riferimento in modo implicito, quando sostiene la preminenza del principio del dialogo su quello del “logo”, che ha il suo perno nel principio di non contraddizione. Il suo argomento è il seguente: è impossibile dire a qualcuno “io non voglio che tu mi capisca”, poiché, perché ciò avvenga io, che ascolto, devo capire il senso di ciò che dici tu, che ti rivolgi a me (“io non posso farlo, per obbedirti devo ascolarti, capirti”). Con questo ragionamento, Calogero di propone – anzitutto – di difendere l’irriducibilità del dialogo, la sua precedenza sul logos. Ma nello stesso tempo, ci sembra, egli perviene a fondare, attraverso un presupposto comunicativo-enunciazionale, la coppia dei soggetti Io-Tu. Un percorso, questo, che segue anche il già citato Jacques. Ciò che egli afferma, per altro senza mai far riferimento a Calogero, è esattamente la conseguenza a cui porta l’intuizione del pensatore italiano: la fondatezza della seconda persona, del Tu, avviene attraverso il riconoscimento (e la necessità, aggiungiamo) della presenza di un interlocutore.
[13] F. Jacques, Dialogiques, op. cit., pag. 48.
[14] Ibidem, pag. 45.
[15] Calogero non approfondisce invece analiticamente la sua intuizione, che in tal modo si presta ad essere criticata in modo radicale, come fa la Rivetti Barbò, propensa a riconoscerla tutt’al più come “prova debole” dell’ “innegabilità” dell’interlocutore” (F. Rivetti Barbò, Dialogo e malinteso, op. cit. pag 31). Qual è la”prova forte”, allora? Il ragionamento stringente della Rivetti Barbò ci porta al tema del nostro studio, vale a dire nel cuore stesso dell’incontro come presupposto del dialogo. Ma anche come presupposto per fondare, in modo non aleatorio, l’esistenza dei soggetti Io-Tu in relazione. La prova forte riguarda “l’interlocutore inteso come potenziale dialogante” (pag 31). Tale prospettiva riconosce, come innegabile, nella circostanza del dialogo, l’esistenza di almeno due interlocutori. Non ci si pone per ora il problema se essi siano un Io e un Tu, approdo finale dell’argomentazione, ma si rileva solamente il rapporto interlocutorio configurato nel dialogo. “Rimane da vedere come (…) ognuno incontra l’altro come potenziale interlocutore” (pag. 35).
[16] Ciò non toglie che possa esistere un dislivello comunicativo nel linguaggio, nei modi di esprimersi, una differenza linguistica, di ruoli, di culture. Queste disparità si riflettono, naturalmente, sulla comunicazione possibile tra Io e Tu.
[17] Dallo sguardo, al volto, Lévinas ha restituito alla seconda persona una fondatezza di tipo pratico. E’ la nudità del volto dell’altro a consegnare l’irriducibilità di questo termine di relazione, rendendolo inoggettivabile e espressione di un rinvio all’Infinito e all’Altro, facendo del rapporto interpersonale, come pure della filosofia in generale, una questione squisitamente etica. E’ solo apparente il riflesso di Buber nel pensiero del filosofo di Autrement que être. Si veda B. Borsato, L’alterità come etica. Una lettura di Emmanuel Lévinas, Edb, Bologna, 1990. Borsato rileva con chiarezza come, in Buber, il rapporto Io-Tu configuri un rapporto reciproco, mentre in Lévinas l’accento si sposti sull’Altro.
[18] Basti ricordare, per ora, che Sartre, nella prima parte di L’Être et le Néant, si era occupato analiticamente della questione del secondo termine di relazione, per fondare la sua filosofia dell’interpersonalità. Confrontando Husserl con Hegel e Heidegger, il pensatore francese ha ritenuto più soddisfacente il punto di vista hegeliano, secondo cui è la stessa dialettica del pensare che fonda l’esistenza dell’altro. Egli ha inoltre rilevato che il problema del Tu viene meno quando si riconosce – come ha fatto Heidegger in Essere e tempo – la struttura essenzialmente relazionale dell’Esser-ci (Da-Sein). Nella teoria sartriana del regard–regardé, invece, l’aporia del secondo termine di relazione cade, perché, vedremo, cede la relazione. In quanto, nel momento in cui io entro nello sguardo di qualcuno (che, per questa sua dimensione neutra, generica, non può propriamente essere considerato un Tu), quando cioè mi accorgo di essere visto, sperimento l’alienazione di essere oggetto dell’altro, senza più appartenere al mondo.
[19] Si ricordi come il termine greco, impiegato da Aristotele per definire la relazione sia proS ti (verso qualcosa).
[20] Ibidem, pag. 35.
[21] Anche se, come abbiamo visto, questa immediatezza esperienziale si accompagna a un altrettanto immediato scetticismo sulla possibilità di fondare, da un punto di vista teoretico, l’esistenza del secondo termine.
[22] E. Lévinas, Le temps et l’autre, Paris, Puf, 1979, pag. 63. “La relation avec l’Autre n’est pas une idyllique et harmonieuse relation de communion (…) la relation avec l’autre est una relation avec un Mystère. C’est son l’extériorité, où plutot son altérité, car l’extériorité est une propriété de l’espace et raméne le sujet à lui-meme par la lumiére, qui constitue tout son être”.
[23] E. Lévinas, Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, La Haye, Nijhoff, 1974. “L’être ne serait donc pas la construction d’un sujet connaissant, contrairement aux prétention de l’idéalisme”, pag. 32.
[24] C. De Baw, L’envers du sujet. Lire autrement Emmanuel Lévinas, Bruxelles, Ousia, 1997. “L’accèss à l’être-visage du visage est sa seigneurie, le commandement qu’il me signifie, ma responsabilité plus ancienne que toute prisede conscience”, pag. 8
[25] L’altro “è un io. E’ del resto precisamente a questo titolo che gli devo, fra l’altro, rispetto”. R. De Monticelli, La conoscenza personale, op. cit. pag. 167.
[26] E. Lévinas, Autrement qu’être…, op. cit. pag. 32.
[27] Ibidem, pag. 8. Il corsivo nel testo è mio.
[28] S. Petrosino, J. Rolland, La vérité nomade: Introduction à Emmanuel Lévinas, Paris, La Découverte, 1984. Lévinas esprime questo concetto in Totalitè et Infini, La Haye, Nijhoff, 1961, pag. 193.
[29] Oltre al già citato a Étant donnée, si legga, di J.-L. Marion, L’idole et la distance, Paris, Grasset, 1977.
[30] J.-L. Marion Étant donné, op. cit., pagg. 366-369 e J.-L. Marion, “Un dieu homme”, in Entre Nous, pagg. 74-75.
[31] Secondo la Habib, tra gli altri.
[32] “En autres termes, l’inversion de l’intentionnalité s’entend comme une réception de l’appel (…) La responsabilité-pour-autrui est cette contre-intentionnalité. C’est à moi et à moi seul qui s’addresse l’appel du visage et c’est ma réponse à l’Autre par laquelle je réponds de l’Autre que nous devons comprendre comme une pure responsabilité-pour-autrui”. S. Habib, La responsabilité chez Sartre et Lévinas, op. cit. pag. 113.
[33] S. Petrosino, J. Rolland, op. cit., definizione che si trova a pag. 104.
[34] E. Lévinas, Etique comme philosophie première, Paris, Editions Payot & Rivages, 1998.
[35] La precedenza della responsabilità sulla responsabilità, nella metafisica levinassiana, è un tema approfondito con notevole chiarezza in B. Borsato, L’alterità come etica, op. cit. pag. 94.
[36] C. De Baw, L’envers du sujet, op. cit., concetti espressi alle pagine 16-20. Sul rapporto separazione-secrezione (dell’infinito) si legga il seguente passaggio: “Le concept de séparation vient expliciter ce sens de l’interiorité, point de départ non théorique de la relation. La séparation est la structure d’etre du moi au sens où le moi se produit, avant toute réduction de cette structure à une simple individualité. La séparation est une sécrétion”, pag. 20.
[37] Si consideri l’analisi di Ponzio: “Se substituer ne revient pas à se mettre à la place de l’autre homme pour ressentir ce qu’il ressent, à un façon pour l’un de devenir l’autre (…) Se substituer, c’est dejà apporter un réconfort en s’associant à cette faiblesse et finitude essentielles d’autrui (…) Il y a dans l’exister humain et comme interrompant au dépassant sa vocation d’être, une autre vocation: l’exister d’autrui, son destin”, in A. Ponzio, Sujet et altérité, op. cit. pag. 143.
[38] De Monticelli, La conoscenza personale, op. cit. pag. 29 (Il fenomeno della fisionomia e L’identità personale e la puntualità del vivere, pag. 178).
[39] Secondo Jacques, il carattere del visage levinassiano è quello di una maschera. “Le visage y tend au masque. Temple et support inerte (…) Mais un visage n’est pas un masque (…) Alors qu’un visage essentiellement vit et s’anime dans le regard et la voix. C’est l’aptitude à la confrontation relationelle qui le constitue en visage”. F. Jacques, Différence et subjectivité, op. cit., pag. 179.
[40] A questo proposito, si leggano le analisi di J.-Luc Nancy (Le regard du portrait, Paris, Galilée, 2000), di R. De Monticelli (La conoscenza personale, op. cit.) e di J.-L. Marion (Étant donnée, op. cit.).
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