EXAGERE RIVISTA - Ottobre - Novembre - Dicembre 2024, n. 10-11-12 anno IX - ISSN 2531-7334

Il “caso estremo”: una droga argomentativa che crea dipendenza

di Bruno Mastroianni

 

Esiste una modalità argomentativa manipolatoria di cui si abusa nel dibattito pubblico online e offline: è quella dell’argomento del caso estremo. Fa parte delle argomentazioni che vengono sviluppate attraverso gli esempi più che con i ragionamenti[1] ed è la modalità in cui si usa uno specifico episodio con caratteristiche forti e scioccanti, per dimostrare le proprie tesi. Il caso diventa così estremo, limite, eclatante o simbolico a seconda degli usi manipolatori.

È una forma di doping argomentativo che droga i ragionamenti: inietta in essi una forza persuasiva che di per sé non hanno. Diventa distruttivo perché ha una componente emotiva che tende a coinvolgere e convincere, tirando verso il basso e confondendo le idee invece di chiarirle.

È un metodo che si spinge oltre le classiche generalizzazioni indebite[2], cioè il derivare una regolarità generale da un numero limitato (e spesso insufficiente) di occorrenze, perché si serve di un solo unico caso per trasformarlo in simbolo di un certo problema. È quello a cui tendono i titoli sensazionalistici dei media nel riportare un evento a tinte forti per indignare e produrre reazioni intense nei lettori, così come se ne servono molti politici per suscitare precise emozioni nei loro seguaci e portare acqua al mulino delle loro posizioni.

L’argomento del caso estremo affiora in modo preponderante nei momenti emergenza, paura, allarme, pericolo, come quelli che stiamo vivendo per la pandemia di Covid-19. Capita spesso, infatti, in questi giorni di sentire riportare casi provenienti da amici o da contatti non meglio precisati, attraverso racconti forti di episodi sconvolgenti riguardanti l’infezione, sempre caratterizzati dall’elemento di rivelazione di qualcosa di nascosto, non affrontato in modo adeguato dalle informazioni ufficiali[3].

Tale modalità ha ormai creato una vera e propria dipendenza tanto che sembra quasi di non poterne fare a meno quando si discute: non appena si avverte un po’ di debolezza nelle proprie tesi subito viene spontaneo mettere in campo un fatto eclatante, un evento limite, un esempio che con la sua carica emotiva possa dimostrare a tutti quanto abbiamo ragione.

È allora interessante analizzare i meccanismi di questa droga argomentativa che crea dipendenza per capire come funziona e perché ci viene la tentazione di usarla. Non solo per essere attrezzati a rispondere nell’eventualità in cui ci si trovi in dibattiti viziati da questa sostanza persuasiva tossica, ma soprattutto per scoprire come formulare argomentazioni altrettanto efficaci che, pur sfruttando le stesse leve, contribuiscano al bene di una maggiore conoscenza[4].

Se si pensa alla situazione di interconnessione in cui viviamo, in cui gli atti di comunicazione di ciascuno influiscono in modo rilevante su chi ci sta attorno, una sana educazione al riconoscimento dell’argomento del caso estremo diventa fondamentale per l’ecologia del sistema di comunicazione[5].

Le tre leve del caso estremo

Il caso estremo sfrutta alcune leve persuasive di per sé efficaci e virtuose, ma le piega a scopi manipolatori:

  1. Leva della prossimità: avvicina la questione di cui si parla alla realtà concreta della vita di chi ascolta, ma lo fa presentandola come un avvicinamento minaccioso.
  2. Leva dell’ultimo: prende le parti di un debole, ma lo fa con lo scopo di usarlo contro un avversario o una tesi avversa.
  3. Leva della semplificazione: riduce la complessità del problema, con lo scopo di indicare, però, una e una sola possibile conclusione.

Avvicinare il problema all’interlocutore, mettersi dalla parte dell’ultimo, semplificare questioni complesse, a ben vedere sono valori importanti che rendono i discorsi efficaci[6]. Le prime due leve, quella della prossimità e del mettersi dalla parte dell’ultimo, danno al pubblico la sensazione che chi parla sia degno e consapevole dei problemi che espone (ethos[7]), allo stesso tempo muovono le emozioni e fanno identificare nel problema chi ascolta (pathos); quella della semplificazione dà la possibilità al pubblico di capire una questione in modo facile e immediato (logos), accrescendo anche la credibilità di chi la sostiene (ethos) perché si dimostra esperto, cioè in grado di illustrare l’essenza dei problemi in modo semplice[8].

Queste modalità, di per sé virtuose[9], nell’uso del caso estremo vengono deformate per suscitare precisi vizi negli interlocutori, compromettendo la possibilità di una discussione costruttiva.

Ecco che cosa avviene per ciascuna leva:

  1. Leva della prossimità

Quando i principi diventano questioni concrete, quando le idee si trasformano in fatti ed eventi, quando i concetti diventano scene, personaggi, storie, gli interlocutori sentono i problemi più vicini alla loro esperienza e alla loro realtà[10]. I temi astratti invece sono difficili, distanti, non coinvolgono.

Il caso estremo sfrutta questa dinamica narrativa attraverso un tipo di avvicinamento ben preciso, quello della minaccia. Se la narrativa di prossimità virtuosa punta sul far identificare l’interlocutore con un problema, il caso estremo presenta quell’avvicinamento come un pericolo prossimo che tocca la sua vita, le sue cose, i suoi cari.

Facciamo un esempio che qualcuno avrà incontrato in formulazioni simili in questi giorni di pandemia:

– Un’amica di mia cognata che lavora in pronto soccorso ha raccontato che da ieri è in fin di vita un giovane sportivo perfettamente in forma, non è vero che si sopravvive al Covid-19!

L’avvicinamento minaccioso è prodotto dal “giovane perfettamente in forma”, ma anche dalla fonte che appartiene ai legami di prossimità (“amica di mia cognata”) che sono quelli più influenti nella nostra vita sociale. La scena nel pronto soccorso ha la forza di un’immagine che va oltre il caso in sé, ciò che si narra si vede passare davanti agli occhi[11] e si percepisce come vicino, suscitando immediato senso di pericolo.

È qui che si può individuare la manipolazione: l’avvicinamento suggerisce una reazione precisa (“non si sopravvive al Covid19!”), rigida, preconfezionata, ridotta, lasciando pochissimo spazio al lettore/ascoltatore per valutare.

È il contrario dell’avvicinamento costruttivo che, quando fatto in modo trasparente, lascia all’interlocutore la possibilità di reagire in una varierà di modi possibili. Una buona narrazione, infatti, avrebbe lo scopo contrario: permetterebbe di aprirsi a una realtà perché sentirla vicina comporta anche il temerla di meno. La minaccia, puntando sulla paura, suggerisce invece un solo tipo di reazione. In questo diventa manipolatoria.

A questo proposito è stato significativo il modo con cui alcuni resoconti hanno raccontato la guarigione del paziente 1 del coronavirus, Mattia[12]. Nelle parole del trentottenne tutta la drammaticità della sua vicenda, compreso il dolore per la perdita del padre per la stessa malattia. Ma, in esse, al posto della minaccia, ne è emersa consapevolezza per la gravità della situazione, gratitudine per il lavoro dei medici e un richiamo alla collaborazione di tutti. Elementi che, invece di alimentare, attenuano la paura e favoriscono la conoscenza. Precisamente le doti virtuose dell’avvicinamento che aiuta ad aprirsi a una realtà, invece di chiuderla in un recinto di specifici scopi manipolatori che suggeriscono un’unica possibilità di reazione.

  1. La leva dell’ultimo

Quando c’è un conflitto, uno dei richiami morali più forti e universali, è quello di mettersi dalla parte dell’ultimo[13]. Chiunque, infatti, a meno che non sia un mostro, è disposto a riconoscere che il più debole va sempre e comunque tutelato. Quando questa leva viene usata in modo trasparente e costruttivo, richiede a chi sta argomentando di esprimere le proprie idee pensando non all’interlocutore ideale, ma al più debole coinvolto[14]. Se le sue tesi mostrano di saper includere chi è nella posizione più svantaggiata di solito acquisiscono forza agli occhi di chi ascolta.

Nell’argomento del caso estremo questa leva viene usata per assolutizzare un ultimo (non per forza l’unico né il più debole) e trasformarlo in arma da usare contro la posizione dell’avversario. Il debole in questo caso viene sfruttato come scudo umano in modo simile alle tecniche scorrette di guerra in cui donne e bambini vengono messi in prima linea per mettere in difficoltà i nemici.

Facciamo un esempio di casi estremi formulati secondo posizioni opposte[15]:

– Quella ragazzina di 16 anni è stata violentata per ore da migranti senza permesso di soggiorno, i porti vanno chiusi!

– I compagni di classe lo hanno preso a spintoni al grido di “vai via sporco negro”, questa è la cultura xenofoba che sta diffondendo chi vuole chiudere i porti!

Negli esempi citati la “ragazza di 16 anni” e il “ragazzo di colore” diventano armi rispettivamente contro i fautori dell’accoglienza e i suoi detrattori. Non vengono citati per affrontare il loro problema, ma per essere usati contro la posizione altrui.

Se ci si mette in modo trasparente dalla parte del più debole lo si fa per il suo bene e per aumentare la consapevolezza sul suo problema di fronte al pubblico. Con il caso estremo, invece, quella condizione di svantaggio viene considerata solo strumentalmente utile al contrasto con la posizione di un avversario.

Se l’ultimo viene messo in primo piano per richiamare allo sforzo comune e alla collaborazione è segno che la leva è usata in modo costruttivo. Se invece è evidenziato solo per essere scagliato contro un’idea o un’opinione, siamo di fronte alla manipolazione.

  1. La leva della semplificazione

Le questioni complesse fanno sentire inermi, impotenti, bisognosi di aiuto e supporto. Per questo saper semplificare e scomporre i problemi aggiunge forza persuasiva ai discorsi: evidenziare gli aspetti essenziali e rilevanti permette a ciascuno di capirli e trovarli alla sua portata.

Questa operazione virtuosa viene viziata nel caso limite attraverso una finta semplificazione che in realtà produce una riduzione[16]. Invece di scomporre un problema per capirne la complessità, vengono selezionate solo le parti che danno forza alle proprie posizioni, nascondendo le altre che le metterebbero in crisi.

Come si fa a riconoscere una riduzione viziata rispetto a una semplificazione virtuosa? La prima presenta una questione come autoconclusiva, come se fosse tutta lì in quei termini e in quelle soluzioni indicate. Di solito si serve di formule argomentative di correlazione causale lineare come “se facciamo questo, succederà quest’altro”, “senza l’elemento A non avremo mai B”, e così via[17]. Mancano solitamente variabili, i “dipende da”, i “se”, i “non possiamo dire con certezza”. La questione si padroneggia completamente, senza spazi di incertezza.

La semplificazione proficua vive, invece, del rimando alla complessità che sta scomponendo. Le sue formule ammettono eccezioni, dubbi, rimandi ad altro e esplicitano i limiti del semplificare. Se fatta bene, non dà l’idea che la questione finisca lì, ma alimenta il desiderio di approfondire, di saperne di più, di capire meglio.

A casi estremi, medi rimedi

Le tre leve usate in modo manipolatorio attivano meccanismi di empatia che, se non controllati, spingono a aderire alle loro storture. Percepire ciò di cui si parla come vicino, schierarsi dalla parte dell’ultimo contro chi lo aggredisce e capire le questioni a colpo d’occhio, corrispondo a emozioni gratificanti che fanno sentire coinvolti nelle esemplificazioni limite. Da qui la loro forza irresistibile e l’effetto simile a sostanze stupefacenti che impediscono di continuare una discussione ragionevole.

Questi effetti di distruzione e di disturbo nelle discussioni è bene che siano sempre scoraggiati attivamente, perché fanno danni su chi assiste e impediscono di farsi un’idea chiara della questione su cui si dibatte. Per farlo occorre usare le stesse leve riportandole alla loro funzione virtuosa:

  1. Fare una nuova narrazione di prossimità purificandola dalla forzatura minacciosa e ricostruendo il suo effetto di dissipazione del timore.
  2. Liberare gli ultimi dal loro essere usati come scudi umani, magari individuando altri deboli presenti nella stessa relazione, e rimettendo il loro problema al centro della questione.
  3. Ricucire la complessità della situazione mostrando le parti omesse dalla riduzione e come non possano essere trascurate per trovare soluzioni.

Non è facile offrire una formula sintetica su come operare questa triplice decostruzione del caso estremo, di certo la risposta richiederà una certa fatica argomentativa e un impegno a riportare la discussione su un equilibrio ragionevole.

Quando si tratta di casi estremi non occorrono estremi rimedi, ci vorrà piuttosto un ritorno a termini medi della virtù, che sono quelli che permettono di sentire vicina, giudicare e capire una questione, con uno sguardo davvero libero e indipendente, non offuscato da sostanze argomentative dopanti.

 

 

[1] Cfr. Olivier Reboul, Introduzione alla retorica, Bologna, ilMulino, 1996, p. 22.

[2] Cfr. Adelino Cattani, 50 discorsi ingannevoli, Padova, Edizioni GB, 2011, pp. 186-187.

[3] Per una carrellata di notizie infondate e leggende che girano cfr. Speciale coronavirus: come difenderti dalle bufale e di falsi miti sul Covid-19, www.open.online, 20/2/2020.

[4] Cfr. Aristotele, Retorica, 1355a-b.

[5] Cfr. Bruno Mastroianni, Litigando si impara. Dall’odio online alla disputa felice, Firenze, Cesati, in corso di pubblicazione 2020, capitolo: “Epilogo: la rivoluzione del paroletariato”.

[6] Cfr. Bruno Mastroianni, La disputa felice. Dissentire senza litigare sui social network, sui media e in pubblico, Firenze, Cesati, 2017, pp. 103-104.

[7] Su ethos, pathos e logos come mezzi di persuasione cfr. Aristotele, Retorica, 1356a e Olivier Reboul, Introduzione alla retorica, op. cit. , pp. 67-68.

[8] Cfr. Alberto Gil, Arte di convincere, Roma, Edusc, 2016, p.40

[9] Per il tema delle virù e vizi dell’argomentazione cfr. David H. Cohen, Virtue, In Context. Informal Logic, Vol. 33, No. 4, 2013.

[10] Cfr. Paul Bloom, Contro l’empatia. Una difesa della razionalità, Macerata, Liberilibri, 2019 (2016), pp. 275-278.

[11] Cfr. Andrea Granelli, Flavia Trupia, La retorica è viva e gode di ottima salute, Milano, FrancoAngeli, 2019, versione ebook, cap: 2.2.9. “L’ipotiposi dei predicatori barocchi”.

[12] Cfr. ad esempio https://www.fanpage.it/attualita/coronavirus-le-parole-di-mattia-paziente-1-sono-stato-fortunato-ma-e-fondamentale-stare-a-casa/

[13] “Be the better guy” suggerisce Jay Heinrichs in Thank You For Arguing. What Cicero, Shakespeare, and The Simpsons can Teach us About the Art of persuasion, UK, Penguin, 2007, p. 210.

[14] Cfr. Vera Gheno, Bruno Mastroianni, Tienilo acceso. Posta, commenta, condividi senza spegnere il cervello, Milano, Longanesi, 2018, p. 179 e seguenti.

[15] Una prima riflessione su questo tema presente in Bruno Mastroianni, Manipolati dal caso estremo, SenzaFiltro.it, 11/9/2019.

[16] Per il tema della “riduzione” rispetto alla complessità cfr. Piero Dominici, La complessità della complessità e… l’errore degli errori, Treccani.it, “La lingua italiana”, 24.12.2018, in http://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/speciali/digitale/5_Dominici.html.

[17] Cfr. Adelino Cattani, 50 discorsi ingannevoli. Argomenti per difendersi, attaccare, divertirsi, op. cit., pp. 130-131.

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