di Federica Biolzi
L’ambientazione di questo interessante romanzo filosofico è quantomeno singolare. Jacques Monod si reca al capezzale di Albert Camus alcuni giorni dopo l’incidente di auto del 4 gennaio 1960. Siamo al 10 gennaio e, contrariamente a quanto accaduto nella realtà, Albert Camus è miracolosamente sopravvissuto. I due stanno portando a termine la redazione di un libro scritto a quattro mani. Telmo Pievani ci narra di un grande incontro, assurdo quanto possibile, di due grandi del nostro secolo in Finitudine, il suo ultimo libro edito dall’Editore Cortina.
– Perché ha scelto proprio questi due autorevoli personaggi per scrivere sulla Finitudine?
– Ho innanzitutto scelto un format diverso da tutti i miei precedenti, perché mi interessava sperimentare linguaggi nuovi e non ripetere il modello del saggio scientifico. L’ultimo saggio, Imperfezione, aveva un taglio narrativo, ma era un tipico saggio di divulgazione. Volevo cambiare registro e l’occasione è arrivata quando mi sono imbattuto, mentre effettuavo alcune ricerche sulla storia della biologia, nella bellissima amicizia tra questi due personaggi molto diversi tra loro, Albert Camus, premio Nobel per la letteratura nel 1957, e Jacques Monod, un grandissimo genetista che vincerà anche lui il Nobel, per la Medicina, nel 1965. Due uomini che hanno fatto la resistenza contro il nazifascismo a Parigi, rischiando più volte la vita, e che si sono ritrovati alleati anche contro l’Unione Sovietica, quando questa pretendeva di strumentalizzare la genetica condannando il mendelismo e promuovendo il lamarckismo di Lysenko. Due grandi anime che ad un certo punto si incontrano e diventano grandi amici, nel segno della loro libertà e del disincanto.
– Ma perché ha pensato di far loro scrivere un libro?
– L’idea è nata leggendo alcuni documenti di archivio. Ho letto di una cena con Camus e Monod, alla quale era presente anche Jean Daniel, che sarà poi il fondatore del Nouvel Observateur. Daniel scrisse nei suoi appunti che quei due avevano una tale intesa che quando uno iniziava una frase, l’altro la finiva. Quest’immagine mi ha dato l’idea di scrivere un libro a cui forse loro due avevano già pensato o al quale avrebbero potuto pensare se il tragico incidente non avesse portato via Camus così prematuramente. Ho pensato di far dialogare queste due personalità così diverse, un grande scienziato ed un grande scrittore, sul tema della finitudine. Un tema che, in qualche modo, li univa, quello dell’uomo ai margini dell’universo, senza più una finalità nel cosmo e che tuttavia deve trovare un senso alla sua vita, alla sua esistenza, straniero nel mondo ma libero, consapevole e in rivolta contro il male. Nel libro Monod illustra all’amico Camus le sue ricerche sulla regolazione genica e il lettore, tra la lettura di un capitolo e l’altro, finisce per immedesimarsi (così vorrei che fosse) con Camus che chiede all’amico scienziato di spiegargli i suoi progetti e le sue scoperte su DNA e proteine. Quindi c’è comunque molta scienza dentro il libro.
– Lei mette insieme l’assurdo camusiano e il caso di Monod. Se rileggiamo il mito di Sisifo, sembrerebbe che l’assurdità stia proprio nel confronto tra l’estrema chiarezza richiesta dall’uomo e l’opacità offerta dal mondo. Lei concede a Camus di poter tornare, post-mortem, su un argomento centrale nella sua opera, con quali sviluppi?
– Si tratta di un tema centrale nell’opera di Camus ed è il filo conduttore che lo unisce realmente a Monod. Quest’ultimo infatti, dieci anni dopo, nel 1970, pubblicherà il suo famosissimo libro, tradotto in tutte le lingue, Il caso e la necessità. Il libro inizia proprio citando il mito di Sisifo: Nonostante tutto bisogna immaginare Sisifo felice. Monod ricomincia da lì, come se vi fosse una sorta di filigrana e di continuità tra i due. Il fatto che Monod fosse d’accordo con Camus su questo tema è chiaro, ne’ Il caso e la necessità, Monod parte dal pensiero di Camus, l’assurdo e la filosofia esistenzialista, riempiendolo di contenuti scientifici. Sostanzialmente Monod sostiene che la scienza, per quello che ci insegna oggi, per quello che ci dice, per le nuove conoscenze sulla genetica, sull’astrofisica, conferma la visione di Camus. La scienza è sacrilega, scrive Monod. Ci fa capire che noi non eravamo previsti nell’universo, ma siamo una presenza rara, preziosa, contingente, mortale, finita, come finisce tutto. Ogni cosa ha una sua finitudine intrinseca: la nostra esistenza, la nostra specie fra le altre, la Terra, il Sole, persino l’universo. Una volta rotto l’incanto animistico, dobbiamo trovare un nuovo senso alla nostra vita e Monod lo trova in ciò che Camus gli aveva insegnato, ossia che la conoscenza è la grande sconfitta della finitudine. Moriamo è vero, però, se abbiamo contribuito alle conoscenze dell’umanità, non siamo davvero morti, attraverso il DNA e le idee noi trasmettiamo qualcosa alle generazioni future. Insomma, Monod tenta di sfidare la finitudine insieme a Camus, da laico e naturalista, per non farla vincere del tutto, per farla arretrare.
– Se ho ben compreso, per Monod, la casualità sarebbe proprio all’origine di strutture complesse come le catene genetiche. Dal punto di vista scientifico, ma anche filosofico, cosa significa assegnare al caso e alla necessità la presenza umana?
– Il caso e la necessità non è un’espressione inventata da Monod, ma di Democrito. Monod la traduce in chiave moderna spiegando che l’evoluzione biologica è un gioco, un meccanismo, in cui c’è il caso che fornisce in qualche modo il combustibile per ogni cambiamento (mutazioni genetiche accidentali, errori di copiatura nel DNA, cambiamenti ambientali imprevedibili) e questo è il contesto fondamentale perché avvenga l’evoluzione. Poi vi è anche la necessità, che è il filtro ambientale che seleziona gli organismi, la selezione naturale. Questi due meccanismi insieme generano la meravigliosa biodiversità e complessità di strutture che vediamo sulla Terra. Monod ci insegna che la vita si regge su due macromolecole (gli acidi nucleici e gli aminoacidi) e sul loro codice di corrispondenze, che è al contempo stabile da miliardi di anni e muta incessantemente. Nel loro libro immaginario, Camus e Monod reinterpretano un classico della filosofia, il De Rerum natura di Lucrezio, cercando di attualizzarne l’epicureismo in modo originale. Caso e necessità vuol dire che la presenza umana non fa parte di una grande linea di progresso inevitabile, ma l’evoluzione è un’esplorazione di possibilità e l’uomo era solo una possibilità insita ma non inevitabile, non scontata. Camus e Monod ci dicono che non eravamo previsti e che la natura è sorda ai nostri desideri e ai nostri crimini, ed è questa la bellezza della nostra presenza fragile e vulnerabile: abbiamo avuto un’occasione unica e preziosa che dobbiamo valorizzare al meglio.
– Nelle bozze del capitolo V dell’ipotetico scritto di Camus e Monod, si affronta il problema del Nulla. In questa sezione lei riporta proprio quanto affermato da Lucrezio nel libro III del De Rerum Natura: il tempo della nostra esistenza è infinito, quindi non cambia nulla se vive qualche mese in più o in meno. E’ proprio così? Quali riflessioni possiamo trarne?
– Camus e Monod nel libro (precisiamo che sono io a farli parlare, anche se faccio sempre riferimento a tesi documentate che loro hanno davvero sostenuto), contestano solo due punti a Lucrezio: il primo è l’idea epicurea che è l’uomo che conquista la saggezza e capisce di essere finito, e di essere parte di questo universo, raggiunga una sorta di atarassia, di pace dei sensi, di olimpica tranquillità. Camus e Monod sostengono, invece, che non si raggiunge nessuna atarassia, anzi, si rimane in una situazione di inquietudine, di continua ricerca. Quella di Epicuro, scriveva Camus, è una felicità di pietra. Nel finale faccio un parallelo tra il Sisifo di Camus e lo scienziato, perché secondo me lo scienziato è il vero Sisifo di Camus. I grandi scienziati della storia, e quelli che ho avuto modo di conoscere in questi anni, sono sempre irrequieti, mai soddisfatti, sempre alla ricerca della domanda ulteriore, sempre pronti a spingere il macigno un’altra volta ancora. Il secondo punto su cui Camus e Monod contestano Lucrezio è dove asserisce che non ha alcun senso la nostra esistenza, è mortale, noi finiamo, non lasciamo traccia, dunque non importa se moriamo prima o dopo, tanto ci attende un nulla eterno. I nostri atomi si ricongiungono al resto della natura e questo, lui dice, è il massimo che possiamo raggiungere in felicità. Dal canto loro, Camus e Monod cercano delle altre vie per sconfiggere la finitudine: il progresso, la tecnica, il DNA stesso. Ma nessuna regge. Cercano allora delle virtù attive nella finitudine, senza nessuna rassegnazione. Le trovano nella libertà, nella solidarietà tra stranieri, nell’etica della conoscenza. La vera vita, aggiungono, è la rivolta, rivoltarsi contro la propria condizione assurda, contro le illusioni e le false speranze. Camus ci dice che la peste è invincibile, noi siamo vulnerabili, la peste tornerà, ma il medico, il protagonista dell’omonimo romanzo, continua comunque a fare il proprio dovere, il proprio mestiere, a dire la verità, a rivoltarsi contro il male che colpisce. Quindi, anche se mortale e senza speranze, la vita vale la pena di essere vissuta anche un solo giorno in più, e non è vero che morire prematuramente non fa alcuna differenza.
– In Camus, come in Monod, vi è una presa di posizione etica forte. Da una parte la solitudine nella finitudine e dall’altra la solidarietà del genere umano in questa condizione. Si tratta di un messaggio che responsabilizza ognuno di noi e che ci pone di fronte a delle scelte. Quali?
– Questo è uno dei contenuti più belli della filosofia di Camus. Dopo aver scritto Lo straniero dice: noi siamo stranieri a noi stessi, all’universo, però lo siamo tutti e quando scopriamo di esserlo tutti, ci accorgiamo di essere insieme, di essere solidali, di avere qualcosa in comune con ogni altro essere umano. Questa idea di solidarietà umana contraddistingue l’opera di Camus, come quando sostiene che la pena di morte, e in generale la soppressione di qualsiasi vita umana, è un crimine assoluto, imperdonabile. Camus non è un credente, per lui la vita è unica e non c’è nulla dopo, proprio per questo è qualcosa di talmente prezioso che toglierla o togliersela è un atto inaccettabile. Questa è una delle virtù della finitudine, cioè il valore assoluto della dignità umana e della vita umana, che è la sua unicità. Ogni essere umano è un’occasione unica, irripetibile, ha un valore assoluto, nel suo impasto ambivalente di bene e male. Questo è un esempio di virtù che si può ottenere laicamente da una riflessione sulla nostra contingenza, la nostra fragilità. Ma vi è anche la virtù della solidarietà con la natura, con l’ambiente. Monod e Camus dicono che siamo soli, abbiamo la nostra finitudine ma, in fondo, è proprio questo il legame tra noi e il resto della natura, si tratta anche di una solidarietà ecologica. Dalla finitudine si può sviluppare una forte eticità di tipo non metafisico, non religioso, che da direzioni opposte può trovare inattesi punti di contatto con la sensibilità religiosa, ma che ha una sua totale autonomia.
Telmo Pievani
Finitudine
Un romanzo filosofico su fragilità e libertà
Cortina Editore, 2020