EXAGERE RIVISTA - Ottobre - Novembre - Dicembre 2024, n. 10-11-12 anno IX - ISSN 2531-7334

Il coraggio della sofferenza. La storia di Paolo, la legge Basaglia e ciò che ne seguì

di Gianfranco Brevetto

Il Bambino con le braccia larghe, ripercorre la storia di Paolo a cavallo degli anni che hanno segnato l’introduzione della legge Basaglia. Carlo Gnetti, giornalista e saggista, ne ha tratto un toccante libro, testimonianza e memoria dell’esistenza del fratello scomparso.

Ho letto con molto interesse questo libro che, immagino, sia frutto di una via crucis personale e famigliare dolorosa. Mi sono chiesto quali potessero essere le domande giuste da porti perché anche la curiosità personale, di fronte a queste vicende, deve farsi da parte. Partirei quindi cercando di inquadrare la vicenda che ha coinvolto tuo fratello Paolo all’interno di quella che era la situazione della psichiatria in quel periodo cruciale, stiamo parlando dell’attuazione della riforma Basaglia.

Partirei da questa frase che tu hai scritto e che mi sembra molto significativa: “Quando hai un fratello matto, riconosci qualche spicchio della tua follia nei tuoi comportamenti, così come lui cerca disperatamente la sua normalità nei tuoi. L’unica cosa profondamente diversa tra lui e me è sempre stato il volume della sofferenza, forse l’unico aspetto davvero riconoscibile della follia”.

-La risposta fa parte di un discorso abbastanza complesso. Il libro copre, come dicevi, il periodo della rivoluzione di Basaglia e la conseguente legge che ha permesso la chiusura dei manicomi. La teoria che si era consolidata intorno al suo pensiero tendeva a quell’epoca a socializzare il disagio mentale. Si tendeva a pensare, infatti, che fosse l’intera società a essere malata. Certe espressioni molto ideologiche di questa teoria arrivavano addirittura a negare l’esistenza stessa della malattia mentale. Questo ha portato, per un certo periodo, a sottovalutare il livello di sofferenza delle persone. Si pensava che la sofferenza non riguardasse più le singole persone e si potesse in qualche modo spalmare sull’intera società. Il caso di mio fratello, avendolo seguito sin dall’inizio, mi confermava però ogni giorno che, al di là della teoria e della sua realizzazione pratica, la malattia proseguiva e si approfondiva indipendentemente da quello che accadeva nel dibattito pubblico. Potrei dire che Paolo è stato uno dei precursori del nuovo corso senza esserne consapevole e senza esserne pienamente partecipe. Lui era ricoverato in un padiglione aperto del Santa Maria della Pietà, parliamo della seconda metà degli anni 70. Poi, quando la legge Basaglia entrò in vigore, fu uno dei quindici pazienti trasferiti in modo sperimentale in una comunità terapeutica, prima e unica struttura nel Lazio alternativa al manicomio. La comunità aveva come missione il reinserimento, cosa che nel suo caso non ha funzionato perché la malattia e la sofferenza si sono, via via, approfonditi. La sofferenza è una delle cose che caratterizzano più di tutte il disagio mentale, una sofferenza che supera quella del dolore fisico. Io, come fratello quasi gemello (avevamo poco più di un anno di differenza), intuivo i meccanismi della sua follia e lui si attendeva molto da me.

Restiamo alla legge Basaglia e metto insieme due domande. La prima riguarda il fatto che sia emersa, in quegli anni, una vulgata squisitamente ideologica dell’approccio basagliano; l’altra che il problema più grosso è quello delle istituzioni. Dal tuo libro risulta evidente che tu e tuo fratello vi siete ripetutamente scontrati contro queste istituzioni che, kafkianamente, si sono dimostrate sorde alle vostre esigenze. 

-La componente ideologica della legge si scontrava con una realtà che non era ancora pronta alla trasformazione richiesta dalla norma. Ma in che cosa, invece, ha funzionato in maniera evidente e addirittura esplosiva la legge Basaglia? Diciamo che già una legge precedente, la legge Mariotti, aveva introdotto i diritti civili per i malati mentali. Prima non erano neanche riconosciuti come persone in grado di decidere autonomamente della propria vita. Ai ricoverati venivano tolti, insieme ai diritti civili, tutti gli effetti personali, un po’ come avveniva nei campi di concentramento. Diventavano dei numeri. Nel manicomio poi entrava di tutto, prostitute, alcolizzati, bambini di strada, gente con nessun tipo di patologia psichiatrica. Gli psichiatri visitavano i pazienti solo al momento del ricovero in queste strutture e poi non avevano più alcun contatto diretto. Invece, ora, si andava verso un approccio di tipo personale. Tuttavia la rivoluzione della psichiatria coinvolgeva luoghi che non erano assolutamente preparati a questa trasformazione. L’esempio di mio fratello è lampante da questo punto di vista. Teniamo presente che la legge Basaglia è del ’78, ma solo nel 1999 l’ultimo paziente è uscito dal Santa Maria della Pietà di Roma. Ci sono voluti più di vent’anni per chiudere tutti i padiglioni.

E poi cosa è successo?

-Come dicevo, la comunità terapeutica ha come finalità il reinserimento e non si può trasformare in una struttura per cronici come si stava verificando nel caso di mio fratello. Lui insieme a pochi altri – che poi hanno iniziato a passare da una struttura all’altra, dove erano definiti, con un termine orrendo, residui manicomiali – erano gli irriducibili. Uscito da lì Paolo è andato prima in una casa famiglia, dove era prevista una forte responsabilizzazione della famiglia e del paziente. Lui però non è stato in grado di reggere il peso di questa responsabilità e dopo pochi mesi è dovuto andare via. È iniziato allora un rimpallo da una struttura all’altra, in gran parte cliniche private convenzionate che accettavano pazienti in quota Rsa (Residenza sanitaria assistita; oggi si tende a identificarla con i luoghi di residenza degli anziani ma in realtà sono posti letto assegnati dalla Asl a pazienti di vario tipo). Paolo è finito in una clinica per anziani (e lui ancora non lo era), poi in una clinica dove fino allora erano ricoverate solo pazienti donne e gli infermieri erano del tutto impreparati a una presenza maschile. La costante di tutti questi passaggi è che non c’erano formazione e preparazione dei medici e degli infermieri adeguate alla gestione del disagio.

Tu hai coinvolto tutta la famiglia per poter fa emergere la storia di Paolo. Che funzione ha avuto la costruzione di questa narrazione?

-In realtà la scrittura di questo libro ha avuto una doppia funzione. Da una parte la conservazione della memoria. Avevo sempre preso appunti sulle vicende che hanno riguardato mio fratello. Lo avevo fatto perché avevo paura di dimenticare quello che stava succedendo, anche per poterlo poi denunciare pubblicamente. E questa funzione persiste ancora adesso, a dodici anni dalla pubblicazione del libro e tredici dalla morte di mio fratello: è un modo per ricordarlo e tenere viva la sua memoria. Nel nostro caso poi la pubblicazione del libro, ma anche la sua costruzione che ha coinvolto mia madre soprattutto per i ricordi dell’infanzia, ha avuto una funzione terapeutica. È stato, come si dice, un modo per elaborare il lutto.

Nell’appendice del volume fai riferimento all’arte terapia, legata all’espressione artistica di Paolo, che sembra avere lasciato un segno forte.

-Per quello che riguarda l’appendice il merito è di una mia sorella che si è ricordata di questi disegni. Ho preso così contatto con l’arte terapista, che nel frattempo era andata in pensione. Qualche anno prima mi aveva chiamato per la presentazione di un caso di studio all’Università di Roma che non sapevo riguardasse mio fratello e in cui lei fece proiettare in diapositiva i disegni di mio fratello. Li aveva ritenuti molto forti e interessanti, e in effetti lo erano, tanto che io ne rimasi scioccato. Riconoscevo, in quei disegni, tutti i particolari della nostra vita, i luoghi, le persone. La terapista si era concentrata in particolare su un disegno che ritraeva l’atto di sodomia tra un pastore e una pecora. Sosteneva che si trattasse della rappresentazione simbolica di una violenza che mio fratello avrebbe subito da bambino. La cosa mi fece molto arrabbiare, perché lei ripropose questa interpretazione anni dopo, in pubblico, quando fu presentato il libro al teatro Basaglia del Santa Maria della Pietà, alla presenza di mia madre.

Ritornando alla cosiddetta gestione del residuo, nel libro racconti di quella struttura in cui il medico era un urologo, o dell’altra in cui gli infermieri erano completamente assenti. Insomma, poco importa, tanto “se sono matti, non capiscono nulla”, come ebbe a dire quel commissario incaricato di rinnovare l’assegno di invalidità di tuo fratello e che parlò della morte di vostro padre in presenza di lui, che era ancora all’oscuro di tutto. Questa cosa appare il fondale tragico di vicende drammatiche. Per chiunque abbia vissuto una lunga malattia di qualche parente, di una persona cara, l’aspetto che secondo me sarebbe da mettere in evidenza è la loro eroicità. Nel tuo racconto traspare la dignità profonda con la quale tuo fratello, e tu come familiare, avete vissuto questa vicenda. C’è bisogno di essere eroi per poter affrontare la malattia?

-Ci sarebbe materiale per scrivere un altro libro dedicato al comportamento delle famiglie. Diciamo che, in questi casi, la malattia coinvolge tutti, c’è un effetto di contagio generale. Mia madre ringraziò il medico che aveva guidato il percorso di uscita dell’ospedale, dicendogli meno male che ci siete voi perché ci avete tolto un bel problema. Eroici lo siamo stati anche grazie al fatto che parte del peso ci è stato alleviato da queste strutture alternative. Ma in altri casi non è andata così. In tanti casi ci sono stati ritorni in famiglia con atti violenza. Sono eventi che fanno notizia e che vengono enfatizzati da chi è contrario alla riforma. Meno notizia, invece, fanno le persone uscite dai manicomi che sono state rifiutate dalle famiglie. Diciamo quindi che l’eroismo ha sempre una doppia faccia. Io non mi sono mai sentito un eroe ma una persona a cui è stato tolto molto. La malattia mi ha sottratto un compagno di vita sin da quando eravamo ragazzini. Mi sono spesso chiesto perché non dovevo più avere questa cosa preziosissima che è un fratello e perché non è accaduto il contrario, cioè che tra noi due il fratello matto fossi io.


Carlo Gnetti

Il bambino con le braccia larghe

2010, Ediesse

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