EXAGERE RIVISTA - Luglio - Agosto - Settembre 2024, n. 7-8-9 anno IX - ISSN 2531-7334

Il corpo è un’abitazione buia. Sui paradossi dell’anima(le)

di Gianfranco Pecchinenda

 

 

 

Il corpo è la carne

 

Quando ho visto il cadavere di mio padre disteso sulla barella mentre veniva portato fuori dalla sala operatoria, ho subito pensato: “questo non è lui”. In seguito – sinceramente non ricordo bene la scena, ma la sensazione sì – quando ho sentito sotto le mie dita la sua pelle oramai fredda, ho ripetuto tra me e me quello stesso concetto: quel cadavere non era mio padre, era un’altra cosa.

Innanzitutto era una cosa, un oggetto inanimato. Quel cadavere non era più umano, dunque non poteva essere più il corpo di mio padre, né di nessun altro essere umano. Quel corpo non era più animato, dunque non poteva essere più il corpo di nessun essere vivente. Quel corpo, semplicemente, brutalmente, non era più un corpo; si era trasformato in sola carne, materia che presto si sarebbe dissolta in polvere.

Mio padre non poteva essere polvere. Dovevo dunque cercare altrove quello che restava di lui.

Niente a che vedere con quel cadavere, però; niente di materiale, insomma. Sarebbe in quel momento potuto venirmi in soccorso un altro concetto, che comunemente accompagna il concetto di corpo: l’anima. Mio padre aveva abbandonato la materia del suo corpo e si era trasformato in un’anima immateriale. E l’anima è immortale, si sa. Sarebbe bastato crederci.

Purtroppo, però, quando mio padre è morto, già da troppi anni praticavo il mio attuale mestiere; un mestiere che mi impedisce di abbandonarmi a credenze simili. Certo, con le parole si può fare di tutto, quindi avrei potuto provare a soddisfare l’impellente bisogno di credere (una frustrazione che, a partire da quel momento, mi avrebbe paralizzato per parecchio tempo), utilizzando, al posto dell’abusato concetto di anima, un qualche suo meno improbabile succedaneo. Avrei insomma potuto provare a credere in qualcosa di alternativo che potesse creare in me quantomeno l’illusione di una qualche ipotetica immortalità. Purtroppo, ripeto, non ero intellettualmente attrezzato. Non mi restava che continuare a fare quello che fanno tutti gli esseri umani. Anzi, più correttamente, quello che fanno tutti gli organismi viventi: sopravvivere e, eventualmente, riprodursi.

Tuttavia resta irrisolta la domanda: cosa sopravvive? cosa si riproduce?

Posso provare a tornarci su.

 

Primum vivere, deinde philosophari

 

Non vorrei dare l’impressione di uno che gioca con le parole. L’argomento, d’altronde, è fin troppo serio: il corpo e l’anima. Eppure di parole si tratta; le parole con cui identifichiamo le due caratteristiche ritenute essenziali per definire gli esseri umani. L’uomo – dice la tradizione filosofica di senso comune più diffusa in Occidente – non è un animale come tutti gli altri perché, oltre ad avere un corpo (come tutti gli altri animali), egli ha anche un’anima.

La nostra, si sa, è una cultura fondata sul dualismo. E questo nonostante, almeno da Spinosa in poi, abbiamo avuto a disposizione tutti gli strumenti dialettici e razionali sufficienti per poterci sbarazzare di quella che, tutto sommato, resta una tra le più assurde e inverosimili definizioni dell’essere umano. Anzi, non sarebbe stato necessario nemmeno arrivarci, fino a Spinosa. Sarebbe bastato già il vecchio Epicuro, il quale sosteneva che l’anima è una parte dell’uomo, così come lo sono gli occhi e le mani, e che la loro sostanza è materiale. Già ai suoi tempi, dunque, Epicuro giungeva a una delle più significative conclusioni oggi rivelate dalle neuroscienze, e cioè che tutta la conoscenza, le emozioni e i sentimenti umani derivano in prima istanza dalle impressioni del corpo. Ovviamente ne seguiva che anche tale materialità dell’anima seguisse l’ineluttabilità di un suo drammatico destino: la morte. Se l’anima è indistinguibile dal corpo, va da sé che essa sia destinata a morire insieme ad esso. Non sono bastate comunque queste riflessioni, né quelle di Aristotele, Spinoza o anche – perché no – quelle dello stesso Nietzsche (solo per citarne alcuni), per porre fine all’inesauribile dibattito sul dualismo umano.

C’è stato però un grande personaggio, a mio parere molto sottostimato, che meglio di ogni altro è riuscito a cogliere l’acutezza della posizione spinoziana relativa alla paradossale insostenibilità di ogni posizione dualistica, ed è il filosofo e romanziere spagnolo don Miguel de Unamuno. “Perché si filosofa?” – egli si chiedeva – “perché, vale a dire, si indaga sui primi principi e sui fini ultimi delle cose? Perché si cerca la verità disinteressata? Dire che tutti gli uomini tendono per natura alla conoscenza, sta bene; ma perché?

La risposta che il pensatore basco propone, assume come punto di partenza la necessità di considerare che ogni filosofo è innanzitutto un essere umano, un uomo in carne e ossa che si rivolge ad altri uomini come lui. E che pertanto la filosofia non può essere prodotta soltanto con la Ragione, ma anche con il Sentimento, “con la carne e con le ossa”, appunto, “con tutta l’anima e con tutto il corpo”.

La prima solida contrapposizione che Unamuno propone è dunque quella nei confronti dei tanti intellettuali dell’Io sostanziale, quello con la lettera maiuscola, l’Io teorico introdotto dai molteplici filosofi dualisti che tanto successo hanno riscosso nella storia del pensiero filosofico occidentale.

“Sapere per sapere! La verità per la verità! Questo – sostiene inoltre Unamuno – è inumano. E se diciamo che la filosofia teorica è rivolta alla pratica, la verità al bene, la scienza alla morale, io dirò: e il bene, perché? È forse un fine in sé? Buono è solo ciò che contribuisce alla conservazione, alla perpetuazione e all’arricchimento della coscienza. Il bene è rivolto all’uomo, al mantenimento e alla perfezione della società umana che si compone di uomini. E questo, perché?”

Bisogna dunque cercare un perché.

Si tratta di uno degli elementi chiave di tutto il suo discorso. Alla ricerca di questo perché, Unamuno si lancia rispondendo con il celebre adagio latino: Primum vivere, deinde philosophari. L’uomo, prima di essere filosofo, ha bisogno di vivere.

Vivere è una cosa e conoscere è un’altra. Anzi, secondo Unamuno vivere e conoscere (razionalmente) si fondano su di un’opposizione radicale, in quanto tutto ciò che è vitale non solo è irrazionale, e dunque incomprensibile con la ragione, ma anche “antirazionale”.

Di conseguenza, tutto ciò che è razionale è antivitale.

Ed è da qui, a partire cioè da questa riflessione, che il filosofo spagnolo, prendendo spunto proprio da Baruch Spinoza, comincerà a proporre quella che a mio parere costituisce la parte più originale e significativa della sua opera, strutturata soprattutto in contrapposizione alla pervasiva tradizione neoplatonica e cartesiana tipica del pensiero razionale occidentale.

“Quello che vi è di negativo nel Discours de la Méthode di Cartesio – scrive Unamuno – non è il dubbio metodico; non è il fatto che iniziasse volendo dubitare di tutto, la qual cosa non è che un mero artificio; è il fatto che volle iniziare prescindendo da se stesso, da Cartesio, dall’uomo reale, di carne e ossa, da colui che non vuole morire, per essere un mero pensatore, ossia un’astrazione. E però l’uomo reale riemerse e si insinuò nella sua filosofia.

Le bon sens est la chose du mond la mieux partagée. Così comincia il Discours de la Méthode e quel buon senso lo salvò. E continua a parlare di se stesso, dell’uomo Cartesio, dicendoci, tra le altre cose, che aveva in grande stima l’eloquenza ed era amante della poesia, che si dilettava soprattutto della matematica, per via della certezza ed evidenza delle sue ragioni, e che venerava la nostra teologia, e che aspirava, al pari di chiunque altro, a guadagnarsi il cielo, et prétendait autant qu’aucun autre à gagner le ciel… ed è qui che si rivela l’uomo; nella certezza che “la strada verso il cielo è aperta agli ignoranti non meno che ai più dotti, e che le verità rivelate conducenti ad esso sovrastano la nostra intelligenza non ho osato sottoporle al mio debole raziocinio”.

Grazie a questa acuta riflessione, Cartesio riuscì a non trarre tutte le conseguenze del dubbio metodico, tuttavia giunse al celebre cogito ergo sum:

L’ego cogito, ergo ego sum, è però un ego immaginario – riflette Unamuno –, è un “io” irreale, ossia ideale, e il suo sum, la sua esistenza, è anch’essa irreale.

“Penso, dunque sono non può significare altro che penso, dunque sono pensante; questo essere del sono, che deriva dal pensiero, non è altro che un conoscere; questo essere è conoscenza, ma non è vita. E il dato originario non è che io penso, ma che io vivo, poiché vivono anche coloro che non pensano. Sebbene un vivere siffatto non sia un vero vivere…”.

La verità – afferma a questo punto con decisione Unamuno – è: sum, ergo cogito, sono, dunque penso, sebbene non tutto ciò che è, pensi. La coscienza di pensare non sarà innanzi tutto coscienza di essere? Sarà mai possibile un pensiero puro, senza coscienza di sé, senza personalità? Può forse esistere – si chiede ancora il filosofo spagnolo – conoscenza pura senza sentimento, senza quella sorta di materialità che il sentimento le conferisce? Non si sente forse il pensiero, e non ci si sente se stessi nella misura in cui si conosce e si vuole?

Per Unamuno la vita è pertanto innanzitutto logicamente e cronologicamente anteriore alla ragione, se non altro per il fatto che “noi nasciamo prima di chiedercene il perché”.

Per Unamuno l’uomo – e soprattutto l’uomo raziocinante – ha il difetto di vivere solamente alla superficie della vita. Sa porsi dei problemi precisi, ma, proprio perché troppo precisi, questi problemi si fondano su dati falsi che sono soltanto costruzioni della mente. L’intelletto ha il torto di inventarsi i suoi problemi; la vita, al contrario, li contiene in sé incoscientemente, questioni informulabili che nessuno riuscirà a dipanare e a mettere in equazione, e che bisogna dunque soffrire piuttosto che definire. Il pensiero, se non è di un intellettuale, non può essere semplice affare di ragionamento, ma di sofferenza, di contraddizione e d’inquietudine: il pensiero è tragico.

Questa riflessione sulla tragicità del pensiero, alla cui analisi Unamuno dedicherà il suo capolavoro assoluto – Del sentimento tragico della vita –, accompagnata alle sue considerazioni sui paradossi del dualismo e sull’assurdità della vita, fa a mio avviso di Unamuno uno dei grandi precursori dell’esistenzialismo: La vita è assurda – egli sostiene – ma di un’assurdità che lascia sperare in un senso che vada al di là delle nostre facoltà. Le costruzioni dello spirito, al contrario, sono evidentemente logiche, interamente logiche, ma soltanto fino a un certo punto. Quel punto in cui la logica si ferma, si rivolge su se stessa, e le rinchiude in un cerchio vizioso e paradossale in cui è assente la speranza. Una logica ferma, rassicurante, solida, ma chiusa, limitata e senza speranza, oppure un’assurdità spesso tragica, esasperante, irriducibile, ma aperta alla speranza: ecco, bisogna scegliere fra un mondo chiuso e uno aperto. E Unamuno sceglierà il secondo.

 

Confondere

 

Benché solidamente collocate all’interno di una tradizione che conta tra i suoi grandi referenti pensatori quali Epicuro, Spinoza e Nietzsche, nemmeno queste riflessioni di Unamuno riusciranno a scalfire più di tanto la logica cartesiana insita nel dualismo di senso comune. Né tantomeno sembrano attualmente riuscirci le neuroscienze, che pure evidenziano continuamente l’assoluta inutilità di proseguire nella ricerca del cosiddetto homunculus (che, forzando un po’, potremmo considerare un valido succedaneo dell’anima) all’interno del nostro corpo (nello specifico, del nostro cervello), perché questa cartesiana ghiandola pineale, vero e proprio “motore” del nostro Sé, semplicemente non esiste. O quantomeno non esiste dal punto di vista materiale. Tra gli altri, il celebre neuroscienziato portoghese Antonio Damasio, in un encomiabile lavoro dal titolo L’Errore di Cartesio, peraltro facilmente fruibile anche ai non addetti ai lavori, ha messo recentemente in mostra in modo difficilmente criticabile le lacune scientifiche di ogni ragionamento che, almeno da Platone in poi – e grazie ovviamente all’enorme contributo del Cristianesimo e dello stesso Cartesio – voglia fondare la conoscenza dell’essere umano a partire da presupposti dualisti.

Eppure, come dicevamo, eccoci ancora qua, a parlare di corpo e anima. Restiamo, nonostante tutto, inguaribilmente legati a questa nostra solida tradizione. Come mai? Probabilmente proprio perché (paradossalmente come avvertiva Unamuno) non si vive di sola razionalità. L’essere umano è un animale che ha bisogno di un’anima perché sente l’ineliminabile necessità di attribuire un senso alla propria esistenza. Ha bisogno di un fine, di un significato. Ha bisogno di credere che la vita non possa essere ridotta a una semplice lotta per la sopravvivenza; che vivere abbia un significato che non si limiti a essere un tragitto – più o meno lungo – verso la morte.

Vivere, insomma – per l’uomo – non può significare assistere alla trasformazione del suo corpo in un freddo cadavere, in un pezzo di carne inanimato destinato a dissolversi col tempo in polvere.

È vero che “questo” è ciò che ci dice la scienza. Ma è altrettanto vero che – come sanno benissimo, in primis, gli scienziati stessi – la razionalità e le spiegazioni scientifiche nulla possono contro l’angoscia esistenziale derivante dalla consapevolezza della morte.

E allora? Allora, ecco l’anima. Ecco l’ipotesi di un homunculus che si erge al di là della sostanza materiale e sopravvive al declino, all’invecchiamento, alle malattie, alla morte della materia. Ecco che la storia di ogni uomo può assumere così un senso e un significato diverso. Per ulteriori informazioni rivolgersi alla religione che si ritiene più adatta, più soddisfacente. Oggi è possibile anche scegliere (quasi) liberamente il tipo di immortalità da poter conquistare, aderendo a uno dei grandi monoteismi tradizionali, oppure lasciandosi convincere da qualche esoterica setta (pseudoreligiosa o, anche, pseudoscientifica) più o meno istituzionalizzata. Ogni uomo può decidere dove collocare la propria biografia personale, nell’ambito di una più ampia, onnicomprensiva e rasserenante eternità elaborata intorno a una narrazione di carattere globale. La fine della sua anima, se e quando arriverà, potrà così avere comunque un senso. La vita avrà significato qualcosa. La morte sarà stata sconfitta. La morte non esisterà. O meglio, continuerà a esistere soltanto la morte del corpo, non quella dell’anima: la sua unica e vera essenza. Non ci resta che accettare il paradosso!

Insomma, sembrerebbe proprio avere ragione, ancora, don Miguel de Unamuno: la vita è veramente paradossale, inevitabilmente paradossale. È il contrario delle opinioni stabilite, ma la vita non sa che farsene delle opinioni stabilite. Non ci resta dunque che accettare il paradosso: “Il paradosso – egli scrive – è il mezzo più deciso e più efficace per trasmettere la verità agli addormentati e ai distratti. Convertire i paradossi in luoghi comuni significa aumentare e rinnovare la loro benefica influenza. Il fatto stesso di esistere, è d’altronde un paradosso, perché l’esistenza è ingiustificata; e il fatto che questa esistenza senza ragione implichi in sé il bisogno di un Dio o di un suo succedaneo (la Ragione), costituisce un ulteriore paradosso.

La fede nell’immortalità – scriveva Unamuno a chiare lettere in Del sentimento tragico della vitaè irrazionale. Per questo, un pensiero che non si distacchi dalla vita, è più vicino alla poesia che alla logica, e “il vero pensiero non accetta altro metodo che quello della passione”.

Unamuno, potremmo dire, colloca pertanto la verità in una tensione e in una contraddizione. La certezza non è per lui l’organizzazione del mondo e della vita intorno a un unico polo razionale, ma al contrario la rottura, l’esplosione, la scintilla che scocca fra due poli opposti. Ortega y Gasset sosteneva in modo eloquente che: “Ciò che fa di un problema un problema, è il fatto di contenere una contraddizione”. Un pensiero deve pertanto sempre tener conto delle sue contraddizioni interne. Per Unamuno bisogna dunque vivere e nutrirsi delle proprie contraddizioni: “dobbiamo accettare il conflitto come tale, e viverne”. Noi viviamo soltanto di contraddizioni e per delle contraddizioni; la vita è tragedia, e lotta perpetua senza vittoria e senza speranza di vittoria: è contraddizione.

Nella realtà i contrari si toccano, si oppongono e si richiamano a vicenda: l’errore intellettualistico – come metterà esplosivamente in mostra tutto il movimento esistenzialista – è quello di voler troncare questo legame. Ed è per questo che nessuna teorizzazione sull’uomo e l’esistenza umana può mai fare del tutto a meno del contributo del linguaggio artistico o letterario. Una delle più significative riflessioni di Unamuno, presente nel suo romanzo Nebbia, è peraltro la seguente: “Dicono che l’ellenismo è distinguere, definire, separare; be’, io invece preferisco indefinire, confondere”.

 

La carne con un vuoto dentro

 

Procediamo, dunque, alla ricerca dei paradossi prodotti dalla logica stessa del pensiero razionale. Immergiamoci, confondiamoci. Gli esseri umani, come dicevamo, hanno un’esistenza che non può essere ridotta al solo dispiegarsi delle esigenze di sopravvivenza connesse al suo corpo materiale. Gli animali, tuttavia, possiedono un corpo che, dopo la morte, diventa carne. Carne, peraltro, molto utile alla sopravvivenza degli altri animali, uomini compresi. Uomini che se ne appropriano per macellarla, mangiarla oppure portarla al mercato e trasformarla in merce da vendere ad altri uomini che, dopo averla a loro volta scambiata con altra merce (o con denaro), la mangeranno.

Seguendo il suggerimento di Unamuno sull’utilità dell’arte, introdurrei a questo punto un racconto, una favola della celebre scrittrice inglese Beatrix Potter, che mi ha sempre colpito, fin da quando la leggevo ai miei piccoli figli. In essa si narra la storia di un maialino che, dotato di una sorta di salvacondotto personale concessogli dalle autorità, un giorno si reca personalmente al mercato per vendere se stesso. Per mettere in vendita, cioè, la propria carne. La madre lo aiuta a prepararsi, gli mette in ordine i vestitini per renderlo presentabile e appetibile al mercato, gli sistema il cravattino e lo pettina accuratamente, mentre la sorella – cosciente del tragico destino che attende il fratellino – piange lacrime amare nascosta in un angolino della sua stanza.

Nel corso del suo lungo cammino verso il macello si fa tardi e il povero maialino si ferma in una sorta di osteria per trascorrere la notte. Qui – in una scena tra le più raccapriccianti che si possano immaginare – il povero maialino vede poggiato su di un tavolo imbandito, un piatto con un cosciotto di prosciutto fumante e ben condito. Nonostante la perplessità, il maialino proseguirà in seguito il suo cammino verso il mercato, in modo diligente e responsabile.

Perché un maiale che sa di essere un maiale – si chiedevano innocentemente i miei figli – dovrebbe recarsi così docilmente al macello senza ribellarsi?

La risposta, per quanto complessa e paradossale, può essere molto interessante ai fini del nostro discorso: perché, in realtà, solo un animale che sa di essere un animale, è in grado di obbedire e di condurre ordinatamente se stesso al macello. Se il protagonista di questo racconto fosse un animale “normale” – se fosse cioè un maiale che non sa di essere un maiale – sarebbe più semplicemente trasportato con la forza su un camion, poi ingabbiato, legato e infine ucciso e macellato.

Ecco il paradosso: un maiale inconsapevole di essere un maiale non andrebbe mai di propria volontà al macello. Solo un maiale che sa di essere un maiale può farlo: il linguaggio, senza il quale non potremmo essere coscienti di un pericolo futuro, costituisce anche l’unico strumento in grado di promuovere l’obbedienza. I maiali, come tutti gli altri animali non umani, possono essere addomesticati, sacrificati, torturati, ma non schiavizzati. La schiavitù, quella che presuppone la consapevolezza di uno status che conduce all’obbedienza assoluta e all’annichilimento del proprio bagaglio istintuale, è un privilegio riservato alla specie linguistica: una specie che parla, ma anche una specie che tace. Una specie che, oltre a ribellarsi come qualunque altro animale, sa imparare anche a obbedire!

Gli animali sono fatti di carne. Una carne disabitata che l’uomo, solo per analogia, definisce corpo. Ma il corpo degli animali non è un corpo (nel senso in cui lo è quello umano); esso è pura carne. Gli esseri umani sono fatti di carne e di linguaggio. E grazie al linguaggio (e solo grazie ad esso), essi sono in grado di trasformare la propria carne in un corpo. Il corpo è una carne con un vuoto dentro.

Il corpo è un’abitazione oscura, buia. Una camera vuota che va riempita, animata. Gli esseri umani vivono con un animale dentro. Gli altri animali no.

È questo l’unico senso in cui, a mio avviso, ha un senso parlare dell’anima: l’animale che anima e che fa esistere la nostra carne. Gli altri animali vivono (e sopravvivono). Gli esseri umani vivono e in più, grazie all’anima(le) che essi sono consapevoli di essere, esistono.

Gli uomini sono fatti di una carne che si fa corpo. Gli animali sono fatti di sola carne.

Affinché l’animale che l’uomo porta in sé possa spingere la carne a diventare corpo, è necessario che esso si appropri di uno strumento essenziale: il linguaggio.

Solo una volta acquisito tale strumento, una vera e propria conquista dell’evoluzione, l’animale che l’uomo porta dentro (anche se molto più corretto sarebbe dire: l’animale che l’uomo è), potrà disporre di quella che, a seconda dell’epoca e della cultura, è stata definita anima, spirito, genius, mente, coscienza o anche inconscio.

 

Materia e linguaggio

 

Non ho intenzione di giocare con le parole, dicevo, come spero di aver chiarito meglio anche grazie alla storia del maialino. Avverto però la necessità di spiegare ulteriormente perché, e in che senso, il corpo non possa essere confuso così alla leggera con la sola carne (il cosiddetto corpo materiale). Perché il corpo, appunto, non è fatto solo di materia: il corpo è fatto di carne e di linguaggio.

Se analizziamo, anche superficialmente, un qualunque mito cosmogonico di un certo rilievo storico, troviamo che alle fondamenta di tutte le definizioni dell’universo e dell’essere umano c’è il linguaggio. Prendiamo la nostra Genesi. Dio creò il mondo e le sue creature, animali e vegetali, in sette giorni. Quale fu il suo strumento per una tale encomiabile creazione? Il linguaggio:

 

In principio Dio creò il cielo e la terra. Ora la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu.

Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre e chiamò la luce giorno e le tenebre notte. E fu sera e fu mattina: primo giorno. Dio chiamò il firmamento cielo. E fu sera e fu mattina: secondo giorno. E Dio disse: «La terra produca germogli, erbe che producono seme e alberi da frutto, che facciano sulla terra frutto con il seme, ciascuno secondo la sua specie». E così avvenne…

 

E così per sette giorni e sette notti, fino alla creazione degli animali e poi degli uomini.

L’azione di creare le cose materiali che popolano il mondo, risulta essere inseparabile dal linguaggio con cui vengono pronunciate: denominare significa anche definire, delimitare, separare, distinguere. Le cose sorgono a partire dal linguaggio con cui le si denomina, non solo nei miti e nelle religioni della nostra tradizione, ma praticamente in tutte le grandi cosmogonie conosciute.

Che succede però quando le divinità chiamano gli animali con il loro nome, quello che ha reso possibile la loro creazione? Succede che essi non rispondono! Gli dei, allora, esseri parlanti che hanno creato il mondo grazie al linguaggio, hanno bisogno di un animale a sua volta parlante, che attraverso il linguaggio sia in grado di proseguire sulla terra il loro lavoro: quello di ordinare e classificare la materia e tutte le cose presenti nel loro universo.

Non sappiamo se tutto dipenda soltanto da queste narrazioni cosmogoniche, e non è certo questo il luogo adatto per verificarlo. Resta tuttavia il fatto che l’uomo sembra essere dotato di una sorta di istinto: quello di portare ordine nel caos che lo circonda, utilizzando ogni genere di categoria. L’uomo è un essere che cataloga. Per proteggersi dal tempo che modifica ineluttabilmente la sostanza materiale che compone le cose del mondo, l’uomo ha bisogno di proteggersi classificando. Una volta compreso che tutte le cose mutano in continuazione, e per potersi proteggere dall’azione del tempo che tutto cambia e distrugge, l’uomo va alla ricerca di ciò che può esserci di essenziale e immodificabile in ogni cosa.

Lo strumento di cui gli dei, attraverso il linguaggio, lo hanno dotato, sono i nomi.

Dove c’è l’uomo, ci sono nomi. Di cosa sono fatte tutte le cose? Di materia e di nomi. Di cosa sono fatti gli esseri umani? Di animali e di nomi. Per una parte siamo fatti di carne, per un’altra di linguaggio.

Non avevo intenzione di giocare con le parole. Spero adesso di essere stato un po’ più chiaro.

 

Animali in fuga

 

Nomos, nel greco antico, si riferisce al legiferare. Nominare significa pertanto ordinare, classificare. L’uomo è l’unico animale che vive creando nomi e classificando esseri e cose. Ma è anche l’unico essere che ha la possibilità di ribellarsi e modificare le sue stesse classificazioni. Cosa che peraltro fa spesso nei confronti delle istituzioni, delle leggi, dei ruoli. L’essere umano è inoltre l’unico animale che, avendo la possibilità di sfuggire alle classificazioni, ha anche la possibilità di sfuggire al proprio corpo. Le classificazioni prendono il via dalla carne che si trasforma in corpo. Quasi tutto ciò che l’uomo fa, aldilà delle azioni volte alla sopravvivenza e alla riproduzione, è in effetti orientato al tentativo di ribellarsi al proprio corpo mortale, al proprio corpo che cambia, che invecchia e che poi inesorabilmente muore.

L’uomo è dunque l’animale che cerca disperatamente di sfuggire al proprio corpo: siamo animali in fuga. Per sfuggire al nostro corpo, ci riversiamo nei corpi degli altri, oppure li introiettiamo (cibo e sesso); creiamo mondi, ambienti, protesi tecnologiche alternative derivanti dalla sempre più sofisticata elaborazione del nostro sistema linguistico: a partire dall’invenzione della scrittura, e fino alla creazione dei media digitali, è di questo che si è trattato: una fuga continua!

Per non allontanarci troppo dal nostro tema, soffermiamoci su quest’ultimo punto: possiamo essere composti con una percentuale maggiore di carne e con un po’ meno di linguaggio. O viceversa. Dipende dall’epoca, dai luoghi, dalla cultura, politica, religiosa e, ovviamente, dal grado di sviluppo tecnologico.

Nelle culle della nostra civiltà, in Grecia o nell’antica Roma, e più recentemente in molte aree dell’America, gli uomini “non umani”, ovvero gli schiavi, non avevano quasi per niente diritto di parola: il loro corpo era quasi soltanto carne. Non molto diversamente da quello che oggi accade con tutti i nostri animali da macello.[1] La schiavitù, purtroppo, non è certo scomparsa, anche nel nostro Occidente, per non dire altrove. Ma non è di questo che dobbiamo parlare, se non del fatto che il corpo, in certi casi (estremi), possa essere considerato quasi totalmente di carne, così come in altri casi (estremi) – di cui parleremo in conclusione – esso possa essere considerato quasi totalmente fatto di linguaggio. Per il resto le percentuali dipendono, come dicevamo, dai contesti socioculturali di riferimento. Sono molti i casi in cui il sistema economico vigente spinge alcuni corpi a svilirsi quasi totalmente in carne da vendere in determinati mercati, esattamente come il maialino della favola citata.

Una questione importante da sottolineare riguarda il fatto che sia possibile vendere la propria carne sia per intero, sia suddividendola in pezzi.

Già, perché l’uomo è anche l’unico animale in grado di classificare i corpi in una serie di componenti diverse, autonome e indipendenti le une dalle altre. La carne degli animali è un organo unico, omogeneo, indivisibile. Il maialino della favola potrà rendersi al mercato con tutto il suo corpo; sarà l’uomo, sempre grazie alle sue capacità classificatorie, a suddividerlo successivamente in una serie indefinita di possibili porzioni: prosciutto, spalla, costole, interiora, etc. L’uomo, insomma, oltre a classificare e suddividere dualisticamente l’organismo umano in corpo e anima, è anche in grado, nominando, catalogando, suddividendo, di trasformare a sua volta il corpo (la carne) in un’infinità di pezzi. Difficilmente oggi, quando ci si reca da un medico per una visita, ci si prende cura del nostro corpo per intero: ciò che interessa è sempre un qualche organo specifico, un pezzo di carne solo parzialmente riconducibile al corpo.

Ma torniamo all’arte, rivisitiamo un’altra storia:

“Il 25 marzo a Pietroburgo accadde un avvenimento stranissimo”… Molti avranno già riconosciuto, in questa prima frase, l’incipit dello straordinario racconto di Gogol che narra le vicissitudini di un barbiere abitante sulla Prospettiva Voznesènskij di Pietroburgo che una mattina, nel fare colazione, ritrova all’interno del panino che sta per mangiare un naso. Sì, proprio un naso. Superato il primo stupore, il povero barbiere riconosce, in quell’inerme pezzo di carne, il naso di un suo cliente: l’assessore di collegio Kovalév.

Mentre il disgraziato barbiere riflette sul da farsi, in un’altra zona di Pietroburgo, l’ignaro Kovalév si sveglia senza naso, e per lui sì che è un problema. “Egli era venuto a Pietroburgo con uno scopo, e precisamente quello di cercare un posto conveniente al suo grado: se possibile, di vice governatore; altrimenti di cancelliere in qualche ministero importante. Il maggiore Kovalèv non era neppure alieno dall’ammogliarsi, ma solamente nel caso che la sposa avesse almeno duecentomila rubli di dote”. Insomma, l’assessore di collegio era uno di quelli che conta e che non poteva certo permettersi di andarsene in giro senza naso.

Le cose, peraltro, per lui peggiorano quando il suo naso comincia ad andarsene autonomamente in giro in carrozza per le vie della città, con tanto di uniforme dorata e un cappello di piume.

“Tutt’a un tratto si fermò come inchiodato accanto al portone di una casa; sotto i suoi occhi si verificava un fenomeno inspiegabile. Davanti all’ingresso si era fermata una carrozza: gli sportelli si aprirono; piegandosi, ne balzò fuori un uomo in uniforme e corse su per la scala. Quale non furono lo spavento e nello stesso tempo lo stupore di Kovalév quando in lui riconobbe il proprio naso! […]. Due minuti dopo, effettivamente, il naso uscì. Indossava un’uniforme ricamata in oro, con un grande colletto rigido; aveva pantaloni scamosciati e la spada al fianco. Dal cappello con le piume si poteva dedurre che si considerava in possesso del grado di consigliere di stato. Guardò da entrambe le parti, gridò al cocchiere: «andiamo!». Salì in carrozza e partì”.

A Kovalév venne ovviamente un colpo: come poteva pensare di diventare ministro se non riusciva neanche a tenere a bada il proprio naso?

La citazione di questi brani di un genio come Gogol mi risparmia la fatica di provare a spiegare quanto, tra gli esseri umani, i singoli pezzi di carne di cui è composto il suo corpo, valgano più per ciò che rappresentano simbolicamente (linguisticamente) nella classificazione di riferimento, che non per la materia, in quanto tale, di cui sono composti. Si ha anzi l’impressione che quanto più la società sia complessa e burocratizzata, tanto più il peso della materia, nella costituzione del corpo umano, perda rilevanza.

Al di là delle surreali vicende narrate dal maestro russo, il suo resta uno straordinario spunto per provare a rispondere alla domanda sul rapporto tra corpo (o pezzi di corpo) e identità personale.

Qual è l’essenza di un corpo?

Certo non può essere il naso. Eppure John Locke – uno dei più grandi filosofi moderni, già verso la fine del Seicento, ragionando sull’identità personale, sosteneva che la sua essenza poteva essere rintracciata solo nella capacità consapevole di riconoscersi come “se stessi”, indipendentemente dal trascorrere del tempo. L’io, stando alle sue parole, sarebbe “quella cosa pensante e consapevole – quale che sia la sostanza di cui è fatta (spirituale o materiale, semplice o composta, non importa) – che è sensibile o consapevole di piacere e dolore, capace di felicità o infelicità, e perciò, fin dove giunge quella consapevolezza, si preoccupa di se stessa. Così ognuno si accorge che, fintanto che rimanga incluso in questa scienza, il dito mignolo fa parte di lui stesso non meno di ciò che può essere più importante nella sua persona. Qualora – concludeva il grande filosofo – separando dalla persona questo mignolo, tale consapevolezza se ne andasse col dito stesso, abbandonando il resto del corpo, è evidente che allora il mignolo sarebbe la persona, quella stessa persona; e l’io, in tal caso, non avrebbe nulla a che vedere col resto del corpo”.

Dal naso di Gogol al mignolo di Locke il passo è molto breve.

Ritornando al nostro tema, quella a cui ci stiamo riferendo potrebbe essere vista come una fase di transizione che tendeva a salvaguardare un dualismo di fondo semplicemente modificando i termini della questione: l’anima diventava “coscienza”, “autoconsapevolezza”, poi “inconscio”, infine “mente”. Dal corpo generalmente inteso, il peso della materia veniva a sua volta trasferito ad alcuni singoli organi e successivamente – a parte i paradossali e talvolta provocatori riferimenti a singoli frammenti come il mignolo (o il naso) – esso finirà per approdare al cervello o a qualche area più specifica presente al suo interno. L’essenza dell’anima verrà ridotta, ma resterà pur sempre agganciata a qualche sostrato materiale. L’homunculus troverà lì la sua nuova dimora. Il dualismo resisterà ancora.

 

La carne del cervello

 

Una delle più importanti rivelazioni che emerge dalla ricerca neuroscientifica contemporanea, è che anche questi ulteriori tentativi di riduzionismo materialista stentano a produrre risultati soddisfacenti. I più affermati neuroscienziati sostengono con decisione che la strada da percorrere sia un’altra. Vedremo tra breve quale.

Proviamo prima a sintetizzare, almeno per grandi linee, quanto finora affermato: una volta appurato che la persona non può essere ridotta alla materia, e che l’anima non può essere in nessun caso considerata indipendentemente dal corpo, anche i diversi tentativi di ridurre la ricerca della sostanza vitale a una sua particella (sia essa un mignolo o la ghiandola pineale; il cervello o una più microscopica parte dell’ipotalamo) sembrano destinati all’insuccesso. Anche le neuroscienze, insomma, tendono oggi a ritenere che, così come abbiamo cominciato a considerare il corpo soltanto un concetto, e non soltanto un oggetto materiale, così dovremmo fare anche con il cervello.

Il cervello di cui s’interessano le neuroscienze – sostiene ad esempio il premio Nobel Gerald Edelman – non è semplicemente l’organo materiale, perlopiù composto da una massa grassosa di carne, racchiusa all’interno di una scatola cranica. Il cervello inteso in questo senso, indipendentemente dalle sue connessioni con il resto dell’organismo (il corpo, appunto), non sarebbe molto diverso da un cadavere: un ammasso di materia inerte. Una cosa, insomma.

Il cervello – sostiene dunque Edelman, riferendosi così al concetto di cervello esteso oramai affermatosi nelle neuroscienze contemporanee – è sempre e comunque un cervello incarnato.

Il che significa che tutte le attività neurobiologiche possibili a livello materiale, dunque empiricamente descrivibili e verificabili scientificamente, sono possibili se e solo se il cervello invia dei segnali al corpo e il corpo invia dei segnali al cervello. Le mappe cognitive connesse alle aree cerebrali eventualmente attivate, sono modificate non solo da ciò che percepiamo attraverso i sensi, ma anche dal modo in cui ci muoviamo fisicamente. Oltre a ciò, il cervello regola a sua volta le funzioni biologiche fondamentali degli organi del nostro corpo, e gestisce i movimenti e le azioni che accompagnano e orientano i nostri sensi.

Lo stesso Edelman aggiunge però anche un altro importante tassello alla comprensione del funzionamento del nostro cervello, e cioè che il corpo (di cui è parte integrante il cervello) è immerso e situato in un ambiente particolare, che lo influenza e da cui è influenzato. È opportuno sottolineare, come d’altronde fa lo stesso Edelman, che la specie umana si è evoluta (insieme al suo corpo-cervello) in una sequenza di quelle che egli definisce delle “econicchie”. Il che equivale a dire che la triade cervello-corpo-ambiente sociale dev’essere, sempre e comunque, considerata inscindibile.

Ciò a cui conduce questa semplice quanto fondamentale precisazione, è un’acquisizione di grande valore epistemologico, alla quale la sociologia fenomenologica lavora da tempo, che ritengo possa essere l’unica strada percorribile per poter approfondire adeguatamente il tema di cui stiamo discutendo.

 

Fenomenologia del corpo

 

Il punto di partenza della sociologia fenomenologica è che, al di fuori dell’interazione, non esiste alcun possibile oggetto d’analisi. Ogni oggetto deve essere considerato, sempre e comunque, un processo. Non esiste alcun elemento della realtà (materiale o immateriale) che possa diventare oggetto di studio astraendolo dal processo dialettico in cui è costitutivamente implicato.

Uno dei metodi chiave dell’approccio fenomenologico è la cosiddetta riduzione eidetica. Nel nostro caso: non dovremmo interrogarci sul “che cosa” sia il corpo, né sul “che cosa” sia l’anima, ma sul come essi (corpo e anima) si presentino alla nostra coscienza in quanto correlati della nostra esperienza. Se impostiamo la domanda in questi termini, troviamo che noi facciamo esperienza (siamo coscienti di) del corpo e dell’anima solo ed esclusivamente in termini linguistici, e più precisamente in termini concettuali.

Quanto abbiamo detto finora, dovrebbe servire a capire in che termini “corpo” e “anima” non possano mai apparire alla nostra coscienza indipendentemente da un modello di mediazione linguistica e concettuale. Non possiamo avere esperienza di un corpo: con i nostri sensi possiamo vedere un volto, delle gambe, delle labbra, dei capelli, una figura intera e così via. Per poter avere coscienza di un corpo possiamo solo fare riferimento a un concetto, di cui disponiamo grazie alle proprietà gestaltiche della percezione, che fanno sì che noi possiamo vedere delle forme, laddove esistono solo delle piccole tracce (la cosiddetta incompletezza prospettica). Allo stesso modo possiamo toccare solo la pelle di una persona, non certo il suo corpo. Possiamo penetrare anche più al suo interno, attraverso gli orifizi e le fessure che il corpo stesso offre, certo. Ma anche in questo caso potremo toccare solo e unicamente zone parziali della pelle, della carne, dei capelli, non certo “nel” corpo.

Lo stesso si potrebbe dire per tutti gli altri sensi. E soprattutto, lo stesso vale per l’esperienza che facciamo del nostro stesso corpo.

Restano illuminanti, a tal proposito, le riflessioni di Husserl, quando sostiene che “Io” non sono il mio corpo. Io sono io solo a partire (categoria ontologica fondamentale) dal mio corpo che interagisce con gli altri corpi in un ambiente dato. Il mio corpo è parte di me, mi appartiene. Esso è una parte imprescindibile di me perché lo percepisco – seppure non nello stesso modo attraverso cui posso percepire gli altri oggetti presenti nel mondo circostante.

Si avverte, qui, la presenza di un altro evidente paradosso: c’è un corpo che noi governiamo, che noi muoviamo, che agisce nell’ambiente seguendo le nostre intenzioni, la nostra volontà, che vive e che ci appartiene. È il nostro corpo. Ma c’è al contempo – come sostiene ancora Husserl – anche un altro corpo, che non mi appartiene, quanto piuttosto io appartengo a lui, ne dipendo, ne sono oggetto: un corpo che segue intenzioni e volontà che io ignoro, che mi si impongono: è un corpo che si ammala, che si consuma, che invecchia e che condiziona le mie intenzioni allo stesso modo in cui lo condizionano gli altri organismi viventi e gli altri oggetti presenti nell’ambiente.

Husserl definiva questi due corpi rispettivamente con i termini Leib e Korper.

Noi non siamo l’insieme degli organi che compongono il nostro corpo, eppure dobbiamo riconoscere che siamo anche il corpo che di tanto in tanto avvertiamo come il nostro corpo.

È questa una prima definizione di coscienza: l’attività in base alla quale riconosciamo come nostro l’organismo che ci consente di interagire nell’ambiente circostante.

Noi siamo dunque il nostro corpo soltanto a intermittenza. Ciò che determina una tale identificazione è la coscienza. Tale coscienza – com’è ben noto a chi abbia una seppur minima conoscenza di base della prospettiva fenomenologica – è caratterizzata dal fatto di essere sempre coscienza intenzionale, ovvero orientata verso un qualche oggetto (più corretto sarebbe dire, verso un qualche processo).

Possiamo avere coscienza delle lenzuola che ricoprono il nostro corpo al risveglio, così come possiamo avere coscienza di ciò che stava accadendo durante il sogno che stavamo sognando poco prima del risveglio. Possiamo avere coscienza del dolore provocato da un pugno che abbiamo ricevuto sul naso, o del dolore che ci provoca il ricordo della morte di nostro padre avvenuta tanti anni fa.

Quello che non possiamo avere, è uno stato di coscienza senza il riferimento a un qualunque fenomeno: la coscienza è sempre coscienza di qualcosa. Avere coscienza del corpo, o avere coscienza dell’anima, implica sempre e comunque il riferimento a un processo dialettico costituito essenzialmente da concetti formulati linguisticamente.

 

La paura e la tentazione

 

La paura che la materia (la carne di cui è composto il corpo) si trasformi, muoia e si dissolva, spinge gli essere umani a stabilizzarla attraverso il linguaggio (la denominazione, la classificazione, l’ordinamento). Grazie al linguaggio, la carne diventa corpo; grazie ai nomi, i corpi possono vivere assumendo un’identità stabile (non soggetta, cioè, a mutamenti e dissoluzioni) con cui entrare in relazione con gli altri corpi.

La tentazione dell’ordine è uno degli istinti sociali fondamentali della specie umana; lo strumento con cui si combatte l’azione disgregatrice del tempo. Nessun oggetto materiale o essere vivente è immune dal mutamento, dalla dissoluzione, dalla morte. Basti pensare a Funes, lo straordinario personaggio dalla memoria prodigiosa:

 

Questi, non dimentichiamolo, era quasi incapace di comprendere come il simbolo generico cane potesse designare un così vasto assortimento di individui diversi per dimensioni e forma; ma anche l’infastidiva il fatto che il cane delle tre e quattordici (visto di profilo) avesse lo stesso nome del cane delle tre e un quarto (visto di fronte). Il suo proprio volto nello specchio, le sue proprie mani, lo sorprendevano ogni volta. Dice Swift che l’imperatore di Lilliput discerneva il movimento delle lancette di un orologio; Funes discerneva continuamente il calmo progredire della corruzione, della carie, della fatica. Notava i progressi della morte, dell’umidità. Era il solitario e lucido spettatore di un mondo multiforme, istantaneo e quasi intollerabilmente preciso.

 

Come potrebbe esserci identità, ordine, stabilità, se considerassimo – come Funes – l’incessante mutamento cui sono sottoposti i nostri corpi? Come poter anche solo immaginare che il volto del bambino ritratto nella fotografia che vedo di fronte a me, e risalente a circa quarant’anni fa, appartiene alla stessa persona che sta adesso scrivendo queste righe? Come poter anche solo immaginare che quel cadavere deposto su una barella sia della stessa persona che quarant’anni prima mi prendeva per mano e mi conduceva a scuola?

Lo possiamo immaginare perché ci sono i nomi che ci identificano. Nomi che ci dicono che siamo gli stessi che eravamo quarant’anni fa e gli stessi che saremo per i prossimi quarant’anni. E che potremmo restare gli stessi anche dopo la morte, se solo riuscissimo a ritrovare un’anima, se solo qualcuno ci tenesse sempre in vita, richiamandoci e costringendoci in qualche modo a rispondere al nostro stesso nome.

Forse sono proprio i nomi la nostra unica arma per combattere la morte; sono i nomi la nostra anima.

 

La materia di cui sono fatte le anime

 

Non era per giocare con le parole che ho voluto parlare di carne e di linguaggio piuttosto che di corpo e di anima, così come mi era stato chiesto dal mio amico Gianfranco Brevetto, amabile e competente direttore di questa rivista. Non intendevo certo affermare in tal modo (sarebbe stato fin troppo banale) che l’anima non esiste; l’anima – anche se indistinguibile dal corpo e per quanto paradossale possa apparire a questo punto una tale osservazione – esiste. Né tantomeno volevo affermare che sia il corpo a non esistere; anche il corpo esiste, a patto che la carne di cui è composto sia animata dal linguaggio. Un linguaggio a sua volta particolare, che serva a classificare, ordinare, nominare e – soprattutto – che sia sufficientemente complesso da poter consentire la formazione di un tipo particolare di coscienza: la coscienza della coscienza (ovvero l’autocoscienza o coscienza di Sé).

Non è dunque l’anima che si esprime attraverso il corpo. E non è il corpo che si esprime attraverso l’anima. È la carne che, animata dal linguaggio, si esprime facendosi corpo. Un corpo la cui esistenza è concepibile solo in interazione con altri corpi, all’interno di un ambiente umano.

L’ultimo passaggio da trattare, se non vogliamo rischiare di aprire nuovi discorsi, correndo il rischio di impelagarci in ulteriori divagazioni, è dunque proprio questo: Per farsi corpo, la carne di cui è composto il nostro organismo ha bisogno del linguaggio che gli deriva dall’interazione con gli altri (gli altri intesi come corpi, ovvero carne più linguaggio). I corpi, interagendo, producono (co-producono) linguaggio, pensieri, sentimenti, parole, nomi. I corpi umani sono esseri che vivono ordinando, definendo, classificando. E nell’ambito di questi stessi processi, a partire da una certa fase evolutiva, essi giungono a distinguere se stessi come individui autonomi e indipendenti da tutti gli altri individui, acquisendo sofisticati strumenti linguistici (come i pronomi personali) e una particolare forma di coscienza di sé (l’autocoscienza), accompagnati dall’elaborazione di sentimenti complessi e assai articolati linguisticamente, come ad esempio la simpatia e l’empatia.

In fondo non ci siamo allontanati molto da ciò che, come dicevo all’inizio, aveva già intuito Epicuro oltre duemila anni fa, e cioè che tutta la conoscenza, tutte le emozioni e i sentimenti umani hanno origine in prima istanza dalle impressioni ricevute dal corpo materiale. Come abbiamo accennato, si tratta anche di uno dei punti di arrivo delle attuali neuroscienze: la teoria della cosiddetta embodied cognition, secondo cui il nostro corpo biologico influenza il modo in cui percepiamo e pensiamo noi stessi e la realtà in cui abitiamo.

È possibile comprendere meglio il delicato ruolo del corpo nella formazione della nostra immagine del mondo attraverso alcuni esempi. Pensiamo appunto all’empatia, ovvero a quel particolare sentimento in cui le emozioni dell’altro vengono proiettate dentro di noi, fino al punto da “sentirle nostre”. L’aspetto più importante di un atteggiamento empatico è riferito proprio alla presenza del corpo; la relazione con l’altro è determinata dalla percezione dei movimenti, delle posture, delle emozioni di un altro corpo di cui siamo in grado di “sentire” le emozioni.

Secondo il primatolgo Franz de Waal, tutto sembrerebbe avere inizio con la sincronizzazione dei corpi: se tiriamo fuori la nostra lingua di fronte a un neonato, restiamo sorpresi nell’osservare che il piccolo reagirà con un gesto molto simile al nostro. E se avessimo la (certamente meno probabile) possibilità di condurre lo stesso esperimento con uno scimpanzé, ci potremmo stupire ancora di più nel vederlo comportarsi esattamente allo stesso modo. La capacità di imitare i movimenti compiuti da un proprio simile, è infatti presente in tutti i mammiferi superiori e tutti i neonati sono delle vere e proprie spugne emozionali, capaci di imitare totalmente sia i movimenti sia le sensazioni degli adulti.

Un altro possibile esempio è il seguente: immaginiamo un’orchestra atipica. Un ipotetico e improbabile quartetto d’archi, composto di musicisti ciechi, sordi e indisciplinati, ognuno dei quali suona la propria parte con un ritmo diverso. Ora colleghiamo i corpi dei suonatori con fili molto sottili (un gran numero di fili per ogni parte del corpo). Ogni suonatore, mentre si muove, segnalerà inconsapevolmente agli altri i propri movimenti. In breve tempo, il ritmo e in una certa misura le melodie diventeranno più coerenti. Il processo continuerà, producendo nuovi risultati coerenti. Qualcosa del genere avviene realmente anche nelle normali improvvisazioni jazz, ovviamente anche senza bisogno di fili.

 

Storie animate

 

Prima di concludere, non ci resta che ritornare sul tema della dialettica carne-linguaggio, rivolgendo questa volta l’attenzione agli esseri umani in cui la percentuale di carne presente è molto minore rispetto alla componente linguistica.

L’esperienza fenomenologica di conoscere qualcuno si manifesta molto spesso, nella nostra esistenza, in maniera indiretta. Non abbiamo l’occasione – talvolta non ne avremmo neanche la possibilità, come accade nel caso di persone decedute prima della nostra nascita, ad esempio – di vederlo, di toccarlo. Lo conosciamo, insomma, soltanto “indirettamente”, ovvero solo grazie alle mediazioni di “altri”, sia che questa mediazione avvenga attraverso il contributo dei racconti di persone in carne e ossa, sia che si verifichi attraverso meri strumenti tecnologici, come può essere la scrittura (e quindi la lettura di un diario o di una lettera riferite alla persona in questione), la fotografia, la registrazione audio e/o video.

Considerata fenomenologicamente l’esperienza che noi viviamo, possiamo dire che si tratti di persone costituite quasi totalmente di linguaggio. Se ci riflettiamo attentamente, scopriamo che l’influenza maggiore o minore che tali esseri potranno avere sulla nostra esistenza, non dipenderà tanto dai rapporti fisici che potremmo o meno intrattenere con essi, ma da un altro genere di rapporto, che possiamo definire di tipo narrativo. I nomi di alcuni celebri personaggi letterari – ad esempio un Gregor Samsa, un Meursault o una Madame Bovary – ci rinviano ad individui la cui conoscenza è per molti di noi molto più “reale” di quanto non lo sia, ad esempio, quella di un parente non conosciuto direttamente, de visu, come potrebbe essere il caso di uno zio vissuto sempre all’estero, o di un nonno morto prima della nostra nascita.

La narrazione può essere definita come la rappresentazione di un evento o di una serie di eventi. Ora, la differenza tra gli eventi e la loro rappresentazione è la stessa che esiste tra una storia (l’evento, appunto o la sequenza di eventi) e un discorso narrativo (il modo in cui la storia viene rappresentata). Facendo un passo in avanti, al di là delle definizioni, è possibile in un certo senso sostenere che noi non possiamo mai avere alcuna esperienza diretta di una storia, ma possiamo accedervi soltanto attraverso un discorso narrativo; in altri termini, una storia è sempre una storia “mediata” – da una voce, da uno stile di scrittura, da una determinata angolazione della camera da presa, dall’interpretazione degli attori – il che significa che ciò che noi chiamiamo storia è in realtà sempre qualcosa che noi (o qualcuno per noi) abbiamo costruito. La storia è sempre costruita e mediata da un discorso di tipo narrativo. Allo stesso modo, a costo di rischiare qualche forzatura, è possibile sostenere che anche l’accesso alle persone con cui interagiamo nel corso della nostra esistenza è in prevalenza mediato narrativamente. Anzi – e questo ritengo sia uno dei punti essenziali – si può dire che lo stesso vale anche per l’esperienza della conoscenza che noi facciamo di noi stessi attraverso il discorso autobiografico.

L’accesso alla maggior parte delle persone che conosciamo avviene generalmente, di fatto, proprio in modo indiretto, ovvero attraverso delle narrazioni che di essi ci viene fornita da loro stesse o da qualcun altro. Tali narrazioni ci possono pervenire attraverso un racconto orale, attraverso la lettura di un resoconto, di un diario, di una lettera, o anche attraverso narrazioni supportate da immagini fotografiche o audiovisivi. A ben pensarci, inoltre, possiamo facilmente renderci conto che, anche di coloro di cui abbiamo più spesso un’esperienza personale diretta, conosciamo soprattutto le narrazioni di sé – o autonarrazioni – che, a seconda del grado di intimità, esse ci veicoleranno.

Da questo punto di vista, la maggior parte delle persone che popolano le nostre esistenze, sono perlopiù conosciute da noi attraverso un’esperienza che può essere definita “esperienza narrativa”. Possiamo ad esempio dire che un individuo nato quando i suoi genitori avevano trent’anni, avrà la possibilità di conoscerli direttamente soltanto in quelle che saranno le ore personalmente trascorse in loro presenza, condividendone cioè lo stesso spazio fisico. A ben vedere, ben poca cosa rispetto alla totalità degli anni della loro intera esistenza. Eppure, i propri genitori possono essere ragionevolmente considerate tra le persone meglio conosciute nella vita di ognuno, tra quelle con cui si instaurano i legami più stretti, diretti e duraturi.

Il resto di ciò che di essi si giungerà a conoscere, potrà essere trasmesso all’individuo in questione solo ed esclusivamente attraverso delle narrazioni. Racconti relativi ai primi trent’anni della loro vita (in cui fisicamente lui non poteva esserci); poi racconti relativi ai suoi primi anni di vita (in cui, pur essendoci fisicamente, non ne aveva ancora maturato la coscienza necessaria); e poi, successivamente, crescendo, racconti relativi a tutti quei periodi di “assenza, di mancata “co-presenza” fisica che, come è noto, con il passare degli anni sono in genere destinati a essere sempre più ampi.

Concluderei pertanto aggiungendo che, da questo punto di vista, il linguaggio di cui sono composti il corpo e l’anima è sostanzialmente uno strumento di tipo narrativo, e che l’esperienza che condividiamo, le persone che conosciamo, i corpi e le anime con cui interagiamo sono sostanzialmente delle storie.

L’originario problema della sopravvivenza dopo la morte e l’inevitabile dissoluzione delle materia di cui è in parte composto il corpo, dipenderà dunque più dalla qualità delle narrazioni che sapremo elaborare intorno ad essi, che non dalla speranza di qualche improbabile rianimazione della carne. Un modo come un altro per combattere il tempo e la morte; un modo come un altro per immaginare un’eternità da condividere con chi ha partecipato, nel corso dell’esistenza, alle nostre stesse storie.

 

Correggendo il testo poco prima dell’invio in redazione, c’è stato un momento – è stato un attimo! – in cui mi sono sorpreso a osservarmi. Ho immaginato cioè di osservare il mio corpo dall’esterno, mentre compiva il gesto di accarezzarsi la fronte con le dita. In quello stesso preciso istante ho rivisto l’immagine di mio padre mentre a sua volta assumeva quell’identico atteggiamento corporeo. Immediatamente dopo, ho ripensato alla scena che avevo descritto all’inizio di questo saggio: il cadavere di mio padre disteso su una barella. Poi è ricomparsa una figura che lentamente ha ripreso ad animarsi. Lui aveva ripreso a vivere attraverso il linguaggio del mio corpo, dei miei gesti. Ho percepito distintamente la sua immagine riflessa nella mia. Ho cominciato finalmente a capire in quale storia possa essersi incarnata la sua anima.

 

[1] (tra le poche rimarchevoli eccezioni, i tori da corrida)

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