EXAGERE RIVISTA - Luglio - Agosto - Settembre 2024, n. 7-8-9 anno IX - ISSN 2531-7334

Il divenire in psicoterapia. La storia di Carlo

di Claudio Fratesi

-Premessa

Pensare al Divenire mi induce immediatamente l’immagine di un casolare di campagna, quelli nati piccoli e poi allargati, con l’aggiunta di altri pezzi, mano a mano che cresceva la famiglia e si dipanava un ciclo vitale di tre o anche quattro famiglie.

Divenire significa diventare altro nel tempo, modificarsi, perdere alcune caratteristiche e farne nascere altre; divenire è un concetto che ci mette di fronte alla nostra impotenza, è inarrestabile, si diviene comunque, oltre la nostra consapevolezza e anche dopo la nostra morte diventeremo qualcosa che gli altri vedranno e comprenderanno, noi no.

Severino usa la metafora della vita come un legno che bruciando nel camino inizia lentamente ad ardere, s’incendia sempre più e nella fase centrale, quando arde al massimo dell’intensità, già si intravede la prima cenere che con il tempo aumenterà, fino a spegnersi.

È possibile affermare che il legno contenesse esso stesso la cenere? Era già cenere?

Domanda difficile!

È giusto dire che la cenere è una delle possibilità del divenire che possiede il legno.

Pertanto ogni oggetto, animale, persona, gruppo ha un numero finito di possibilità di divenire altro. 

Siamo strutturati per concepire il divenire come sinonimo di vita; ad esempio la Gestalt ci insegna che in ogni nostra percezione è coesistente il divenire: percepiamo due punti luminosi che si accendono alternativamente come un unico punto che si sposta da una posizione all’altra, pur sapendo che si tratta di due punti luminosi fissi e distanti.

Divenire e vivere sono nel nostro vissuto psicologico la stessa cosa, anche la percezione che abbiamo di noi stessi è la percezione di un essere che è contemporaneamente lo stesso pur cambiando di continuo, un essere che deve cambiare continuamente per rimanere vivo e mantenere la continuità restando in fondo lo stesso di sempre.

Parlando di Psicoterapia è fondamentale il concetto di epigenetica: niente viene perso del passato e tutto si sovrappone.

Scoperta dopo scoperta, tecnica dopo tecnica, il nuovo si affaccia sul vecchio e lo contiene, il presente contiene il passato e non esisterebbe se non fosse esistito il vecchio.

Il niente non può esistere perché il passato è comunque presente nella memoria, è l’essere stato.

Una persona, una coppia o una famiglia in difficoltà chiedono aiuto perché hanno bisogno nel presente di un’organizzazione migliore, di relazioni migliori che non generino sofferenza, ma è un presente che contiene il passato.

È compito del terapeuta aiutare queste persone a trovare, nella loro finita serie di possibilità, l’organizzazione e quindi il funzionamento migliore per eliminare la sofferenza sintomatica.

Tutto si complica perché il terapeuta, per essere efficace, non può agire esternamente ma deve essere dentro, essere parte di quel sistema che vuole aiutare.

Pertanto, tra le finite possibilità del divenire di quel sistema terapeuta-paziente, devono esserci punti di coincidenza tra  le aspettative dei pazienti e quelle del terapeuta.

Per il terapeuta e la famiglia l’aspettativa è la stessa: creare una relazione terapeutica che aiuti pazienti e terapeuti a trovare in quello spazio l’organizzazione migliore e più funzionale.

Questi spazi di relazioni sane e chiare, che sono le sedute di psicoterapia, indurranno i pazienti a sperimentare relazioni nuove fuori dalla terapia.

A questo punto è lecito porci una domanda: se ciascuno di noi funziona nella maniera migliore che ha trovato, è possibile allora non amarsi?  È possibile che l’essere umano non abbia amore per sé stesso?

Ѐ forse più corretto dire che quel tipo di funzionamento raggiunto, quelle relazioni costruite sono l’organizzazione migliore che quella persona o famiglia hanno trovato; quindi, anche nei casi estremi e drammatici dei suicidi, potrebbe trattarsi del migliore amore possibile verso sé stessi che le persone sono riuscite  ad avere. Il divenire migliore sarebbe quindi, in questi casi, il paradosso del porre fine al divenire stesso.

In questo articolo cercherò di illustrare, nel racconto di una terapia, le possibili evoluzioni che un sistema umano, individuale, di coppia o familiare può avere per divenire al meglio rispetto alle proprie caratteristiche, diventando altro mantenendo sé stesso, per bruciare al meglio la propria legna o, per dirla alla Battiato, per ‘trovare l’alba dentro l’imbrunire’, pena la disgregazione.

Una storia di psicoterapia.

Carlo aveva 14 anni quando l’ho conosciuto alcuni anni fa.

Giunse accompagnato dalla madre, una signora di 45 anni, molto preoccupata per il comportamento del figlio che, a suo dire, da qualche mese aveva invertito la marcia della crescita e stava regredendo in tutte le azioni quotidiane volte all’autonomia.

Carlo aveva smesso di giocare a calcio, di andare con il motorino, lamentava di avere tante paure che non riusciva a descrivere, paure che gli stringevano lo stomaco, non riusciva a stare da solo e tantomeno ad andare in giro da solo, tutte attività che prima svolgeva con grande tranquillità.

Per capire qualcosa di più su quello che stava accadendo al figlio, la mamma si era rivolta anche agli insegnanti che infatti avevano notato un calo nel rendimento scolastico di Carlo, soprattutto lo vedevano estraniato, chiuso in sé stesso, distratto da altro.

Si trattava di una costellazione di sintomi molto preoccupanti che mi facevano pensare ad un esordio psicotico.

Chiesi notizie sul padre del ragazzo e la signora mi disse che il marito era un personaggio pubblico molto conosciuto nel paese dove vivevano, un uomo che assolveva a diverse cariche pubbliche, molto rispettato e stimato, un uomo conosciuto, forte e deciso.

Chiesi come il padre avesse reagito di fronte ai disagi del figlio e la signora rispose che il padre dapprima lo aveva fatto con fermezza, appellandosi alla morale sulla mascolinità, sulla necessità di essere forti e sicuri nella vita ma poi, con il tempo, vedendo che Carlo stava sempre peggio, si era di fatto arreso e aveva delegato tutto nelle mani della moglie.

Mentre la madre parlava, Carlo ascoltava in silenzio, si disse poi molto dispiaciuto di non essere forte come prima e di preoccupare i genitori; non sapeva come gestire quelle paure che gli procuravano un grande senso di vergogna verso gli amici e i compagni di scuola.

Chiusi il colloquio cercando di rassicurare il ragazzo e chiesi alla madre di tornare con il marito per fare tutti insieme il quadro della situazione.

Fissare l’incontro non fu facile perché la signora non sapeva nulla riguardo ai numerosi impegni del marito, pertanto ci accordammo che il giorno seguente mi avrebbe telefonato dopo averlo consultato e così fu.

Passate un paio di settimane vidi la famiglia, Carlo seduto al centro, la mamma sembrava una ragazzina rispetto al marito, un uomo alto e robusto che dominava con la sua presenza scenica.

Parlammo a lungo di Carlo, del reciproco rapporto che ciascun genitore aveva con il figlio e anche del loro rapporto di coppia; emergeva chiaramente la dinamica di una famiglia molto tradizionale, con un padre capofamiglia e la madre circoscritta al ruolo di casalinga e donna di casa.

Fu un primo incontro conoscitivo, volto a instaurare una relazione di fiducia con la famiglia, una relazione che permettesse nel tempo di entrare nei contenuti e di diventare terapeutica.

Ci rivedemmo due settimane dopo e, visto che i sintomi di Carlo non accennavano a nessuna riduzione, presi la decisione di utilizzare delle metafore, utili per ampliare il discorso e uscire dall’angolo sterile dell’elenco delle paure del ragazzo.

Utilizzai la metafora del ‘freno a mano’ e chiesi ai genitori se avessero un’idea sul perché Carlo fosse caduto in un loop che lo costringeva a ‘tirare il freno a mano’ invece che decollare verso l’autonomia.

Entrambi risposero in maniera generica, non avevano idea sul perché: il padre fece autocritica dicendo che per motivi di lavoro era molto spesso fuori casa, la madre ribadì che Carlo era sempre stato un ragazzo sveglio e che forse i problemi avevano origine a scuola.

In definitiva non riuscivo a capire che cosa stesse succedendo a Carlo e per quale motivo fosse ai limiti di un crollo psicotico.

Era necessario spostarsi su una visione diacronica e iniziai a fare domande sulla loro storia recente (è necessario un tempo perché si sviluppino i sintomi, ciò accade perché un evento o una situazione relazionale ostacola il naturale sviluppo del ciclo vitale di una famiglia; l’ostacolo ,che in certi casi arriva al blocco evolutivo, altera i ruoli e i confini generazionali e nel tempo questa alterazione genera sintomi in uno degli appartenenti alla famiglia), chiesi se negli ultimi anni fosse avvenuto qualcosa di importante sul piano concreto.

Come sempre, il padre silenzioso lasciò alla moglie la delega a rispondere e la signora, un po’ stupita e poco convinta che fosse importante, disse che circa due anni prima era morta la suocera, una signora anziana e vedova da un’infinità di tempo che viveva al piano terra della loro casa.

Una morte avvenuta, secondo la mamma di Carlo, serenamente perché la suocera era molto anziana e pronta ad ‘andare via’.   

Chiesi quali ripercussioni ci fossero state a seguito di quella morte e sempre la mamma rispose che erano rimasti molto dispiaciuti, che era naturale morire da vecchi e che la vita aveva ripreso velocemente con i ritmi e gli impegni quotidiani.

A questo punto mi rivolsi al padre di Carlo e chiesi notizie sulla madre, sul loro rapporto e sulle relazioni in famiglia prima che la madre morisse.

Con tono distaccato iniziò a dire molte cose sulla madre, del rapporto viscerale che aveva con lei; lui, figlio unico di una madre rimasta vedova molto presto, una donna forte che non aveva mai chiesto nulla a nessuno, una donna generosa e buona. Disse che c’erano stati screzi tra nuora e suocera, ma non cose rilevanti.

Ebbi l’impressione che questo tono distaccato nascondesse qualche emozione scomoda e gli chiesi direttamente se si sentisse in pace o sentiva di avere conti in sospeso.

Dapprima riprese il discorso incentrato sul “tutto bene”, ma poi qualcosa accadde, iniziò a dire che si portava dentro un dispiacere, come se avesse fatto un torto all’amata mamma; mentre parlava la voce divenne più cupa e improvvisamente uscì un pianto accorato.

Tra i singhiozzi disse che non si era più parlato in casa di quella donna come non fosse mai esistita, non aveva visto il dispiacere sul volto della moglie, non erano più tornati al cimitero dal giorno del funerale, come fosse morto un cane.

Usciva rabbia e senso di colpa: “Era una donna eccezionale, ha fatto tutto per me e anche per noi famiglia, perfino la casa dove viviamo l’ha comprata lei con tantissimi sacrifici e tu -rivolgendosi alla moglie – le tenevi ‘il muso’ per le cazzate.”

Un’autentica Catarsi!

Non dimenticherò mai l’enorme imbarazzo che vidi sul volto della moglie. Carlo seduto si guardava le scarpe, la madre nervosamente guardava qua e là, soffermandosi incredula sul volto arrossato del marito, incredula e spaventata da quelle lacrime che mai aveva visto e probabilmente nemmeno immaginato.

Accolsi al meglio possibile quel pianto e quel senso di colpa che quell’uomo aveva trattenuto per oltre due anni, il senso di colpa per una grande ingiustizia: non avere onorato la morte di una donna che si era sacrificata per tutti loro.

La madre di Carlo rimase attonita, rispose con voce flebile, disse che non aveva mai mancato di rispetto alla suocera e che nemmeno il marito le aveva mai chiesto di andare al cimitero.

Chiusi l’incontro soffermandomi sull’importanza di quanto era emerso, feci una battuta scherzosa a Carlo e fissai un successivo incontro, questa volta non ci fu nessun ostacolo sulla data che avevo individuato.

Tutto l’incontro lo incentrai sulla figura della nonna scomparsa, una donna forte; fu un racconto di aneddoti, marito e moglie parlarono delle difficoltà incontrate spesso nella gestione della casa, emerse il conflitto sotterraneo che c’era sempre stato tra la nuora e la suocera.

Carlo disse cose molto belle sulla nonna, ricordi di tante ore trascorse con lei, ore belle e divertenti.

Il padre di Carlo questa volta parlò della madre con calma, la descrisse come una donna che aveva tanto sofferto per essere rimasta vedova dopo pochi anni dal matrimonio, una donna forte e generosa che aveva cresciuto l’unico figlio da sola, una donna che era riuscita ad avere anche tante soddisfazioni dal figlio, dal nipote e, tutto sommato, anche dalla nuora con la quale c’era stato affetto e rispetto.

Conclusi l’incontro invitandoli ad andare al cimitero e a stare uniti davanti alla tomba della nonna di Carlo, ne avremmo parlato insieme nell’incontro successivo.

Rivedendoci chiesi come fosse andato il funerale, perché esplicitai con chiarezza che a distanza di oltre due anni stava avvenendo in quel momento il vero funerale della nonna di Carlo.

Raccontarono che era stato bello andare insieme, Carlo disse che aveva sentito una emozione nel guardare la foto della nonna, il padre ,visibilmente contento, ringraziò moglie e figlio di questa visita che sentiva un regalo per lui e soprattutto per la mamma che non c’era più.

Sempre il padre, divenuto improvvisamente loquace, raccontò di un suo viaggio di lavoro in Romania, disse:” là i morti li seppelliscono vicino alle case, ho visto dei bambini che giocavano a pallone in mezzo alle lapidi, ho pensato che era bello vedere la gioia dei ragazzi sopra le tombe dei nonni”.

A questo punto la terapia aveva fatto una svolta importante, avevamo tolto un masso che stava in mezzo al fiume ed ora si poteva iniziare a parlare delle loro relazioni  e di tutto quanto fosse emerso.

La terapia continuò per altri sei mesi, alla fine la situazione relazionale era completamente mutata, i ruoli erano più morbidi, la comunicazione ampia e diretta e Carlo era ritornato ad essere il ragazzotto di prima.

La famiglia aveva ripreso lo sviluppo funzionale perso, il lutto non elaborato aveva congelato i ruoli e limitato la comunicazione tra loro.

Il padre di Carlo, dopo la perdita della madre, si era allontanato psicologicamente dal nucleo familiare e questo aveva comportato uno sviluppo anomalo del ciclo vitale.

Carlo di fatto era diventato il recettore di un dolore non espresso del padre, un dolore sconosciuto che si era tramutato in angoscia e regressione.  

Il divenire di questa famiglia era una delle molteplici possibilità che essa possedeva per divenire nel futuro, si trattava però di un divenire disfunzionale, non congruo al suo sviluppo sano.

Il divenire funzionale, per non usare termini medici, è quello che permette lo sviluppo dell’autonomia dei figli e la piena adultità dei genitori, che significa un buon rapporto di coppia e una buona soddisfazione rispetto ai ruoli svolti in famiglia e nella società.

Il divenire è inevitabile, è sinonimo di vita stessa, può essere però un divenire che fa star bene o che fa star male.

La famiglia era andata in crisi quando l’allontanamento del padre era diventato eccessivo e Carlo, inconsapevolmente, con i sintomi lo stava richiamando a casa.

Il padre di Carlo non poteva permettersi di vivere e di sopportare quel dolore perché era troppo lontano dall’immagine che si era costruito negli anni in famiglia e pubblicamente, un’immagine molto sostenuta dalla moglie.

Tutto era aggravato dal rancore che il padre di Carlo nutriva verso la moglie.

I sintomi di Carlo permettevano di scaricare il dolore del padre, mitigavano la solitudine della madre, evitavano il confronto-scontro tra i genitori e richiamavano il padre a casa.

L’intervento psicoterapeutico ha permesso a questa famiglia di riassestarsi sui ruoli, al padre di rientrare psicologicamente nel nucleo familiare,  alla madre di avere un ruolo meno subalterno, ha permesso, infine, a Carlo di prendersi carico delle proprie ansie e non di quelle altrui, ansie naturali di un ragazzo di 14 anni.

Alla fine del percorso terapeutico le emozioni erano tornate al loro posto: il padre si era permesso di sentire e mentalizzare le proprie emozioni senza perdere la faccia e senza perdere il ruolo, la madre aveva potuto accrescere la propria presenza, non solo come madre e donna di casa, Carlo si era finalmente liberato di un peso non suo e aveva ripreso il suo percorso di crescita.

Padre e madre si erano riavvicinati e non c’era più ‘bisogno’, per essere riuniti, di un figlio bloccato a casa.

-Conclusioni

In questo articolo ho tentato di comprimere un concetto così vasto e filosofico come il divenire nel ristretto campo di una psicoterapia familiare

Nella famiglia trattata abbiamo visto il concetto del divenire svilupparsi in un percorso funzionale, fisiologico e positivo e in un percorso disfunzionale, bloccante e castrante per la personalità di tutti, soprattutto di Carlo.

Entrambi i percorsi erano  possibili e praticabili per la famiglia.

Non sono le condizioni iniziali a determinare il percorso di vita di una famiglia, ma sono le relazioni che si sviluppano in essa.

Sono le relazioni il perno centrale dello sviluppo in una famiglia, il primo compito di un terapeuta è stabilire una relazione chiara con i pazienti, una relazione di aiuto che condurrà alla crescita di tutti, compreso il terapeuta.

È impossibile non comportarsi ed è impossibile non divenire, si diviene comunque. Il tema centrale, rimanendo circoscritti nell’ambito clinico di una psicoterapia, è aiutare una famiglia a trovare il miglior divenire possibile.

Il terapeuta non sa quale sia il miglior percorso, il miglior divenire di una famiglia, ma un vecchio proverbio cinese recita che ‘per sapere quale sia la strada giusta è necessario evitare di prendere le strade sbagliate’. Restano quindi al terapeuta  solo gli strumenti per capire quali siano  le strade sbagliate  e  aiutare i pazienti a sceglierne altre.

    

Bibliografia

E. Severino “La legna e la cenere, discussioni sul significato dell’esistenza” (Rizzoli 2000)

Z. Bauman “L’arte della vita” (Laterza 2009)

C.Bogliolo “Psicoterapia Relazionale della Famiglia” (Angeli 2001)

A.A. Schutzemberger- E.B. Jeufroy “Uscire dal lutto” (Di Renzo 2005)

G. Madonna “La Psicologia ecologica” (Angeli 2010)

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