EXAGERE RIVISTA - Gennaio-Febbraio 2024, n. 1-2 anno IX - ISSN 2531-7334

Il diventar altro è il contenuto di una fede in qualcosa che non è. Conversazione inedita con Emanuele Severino

di Vera Fisogni

 

L’11ottobre 2012 mi sono recata a Brescia, per incontrare il filosofo Emanuele Severino nella sua casa di Brescia, con il proposito di conversare con lui, in vista di un articolo per La Provincia di Como. L’occasione era il Premio Manzoni alla Carriera, che gli sarebbe stato assegnato quell’autunno. Sul quotidiano La Provincia, dove io lavoro come giornalista, uscì l’articolo, ma gran parte di quella chiacchierata con Severino non poté essere pubblicata: considerando l’interesse di quei contenuti, ne ho fatto subito una trascrizione e l’ho postata sul mio spazio in Academia.edu, a disposizione degli studiosi. Come si vedrà, non c’è mediazione: ho inteso lasciare le parole del filosofo come sono state pronunciate, prendendomi la libertà di disporle in capitoletti tematici. Severino non ha rivisto la conversazione, trattandosi di un testo non mirato alla pubblicazione accademica, ma ha apprezzato il lavoro.

MANZONI, DANTE E LEOPARDI

Era prima degli anni Novanta. Mi ricordo avevo incominciato a studiare Manzoni, insieme a Leopardi. Era venuto fuori che M. era un grandissimo epigono, Leopardi era un formidabile seminatore di novità, tanto che lo metto insieme a nomi come Nietzsche e Gentile tra coloro che forse più ancora di Heidegger, Wittgenstein, Dewey ha operato quella gigantomachia che è la distruzione della tradizione occidentale, quella che Nietzsche chiama “morte di Dio”. Mi ricordo che Manzoni era interessante proprio dal punto di vista filosofico. Mi ricordo che apprezzai moltissimo il saggio sull’Invenzione. Si capisce che è fortemente influenzato da Rosmini, però, insomma, ci sapeva fare. Purtroppo non ho fatto quelle puntate che ho fatto rispetto a Dante. Poca roba e l’avrei potuto riproporre per Manzoni. E cioè: Dante, insomma, passa la vita pensando alla “Divina Commedia” – lo si può dire – Ed è cattolico, praticante, tomista, e dichiara che il contenuto della sua opera poetica non aggiunge nulla al kérigma, alla dottrina della chiesa, però passa la vita a far poesia. E questo, come lo possiamo interpretare? Io direi come lo “dobbiamo”

Interpretare? Come la convinzione che l’autenticità del messaggio cristiano deve essere espressa nel clima poetico, perché se non ci fosse questa convinzione, avremmo un Dante che in sostanza non crede in quello che fa. Anche se è vero che Dante, più volte, dichiara la subordinazione della poesia, secondo canoni classici, rispetto alla verità, cioè alla Verità rivelata. Ma, il fatto che Dante, in qualche modo, coincida con la sua opera poetica, fa pensare che al di là della propria autocritica egli creda – ripeto – che il messaggio cristiano viva autenticamente nell’elemento poetico.

Allora, qui incomincia quel distacco tra attività poetica e fede religiosa che andrà poi sempre più accentuandosi: oggi è difficile trovare un grande poeta – sì, c’è stato Eliot -, un grande poeta che abbia convinzioni religiose. Ebbene, ho detto tutto questo per dire che mi spiace di non avere considerato poi Manzoni che opera press’a poco allo stesso modo. Perché anche Manzoni squalifica l’attività poetica, in quanto ha la presunzione di sovrapporsi al messaggio rivelato, e quindi in sostanza le stesse cose di Dante: “Prima di tutto c’è il contenuto”.

Ciò nonostante egli scrive i Promessi Sposi. In qualche modo un rammarico che ho rispetto a Manzoni, è che avrei potuto sviluppare lì quanto ho accennato a proposito di Dante. Se non che Manzoni è un grande epigono (…) E allora, ho deciso di far convergere l’attenzione su Leopardi, perché L. da un punto di vista filosofico, è all’altezza di Hegel, di Schelling, dei massimi pensatori. È quello che dice “no” a quella tradizione che passa anche attraverso questi giganti che sono Dante e Manzoni in campo filosofico e letterario. Leopardi compie è qualcosa che purtroppo in Italia, e tantomeno all’estero, è riconosciuto. Questo per quanto riguarda Manzoni. Manzoni era un buon filosofo.

IL PENSIERO FILOSOFICO DI SEVERINO E IL SUO ESSERE CATTOLICO

C’è stata la consapevolezza, l’intenzione esplicita di mostrare la compatibilità o aveva l’intenzione esplicita di non mostrare l’incompatibilità tra fede religiosa e discorso filosofico contenuto filosofico era assolutamente incompatibile. Il Cristianesimo, anzitutto in senso storico, ma anche il Cristianesimo nelle sue radici ultime, non solo in relazione alla chiesa di pietra – come si dice – ma anche in relazione alla chiesa dei santi. La malattia riguarda anzitutto la chiesa dei santi. Quale sia la malattia, facciamo grazia ai lettori, perché andremmo nel difficile.

VOLONTÀ, AMORE E VIOLENZA

Parliamo a livello primo, di prima philosophia. L’amore è una forma di volontà. Dire: “O voglio la tua salvezza o voglio qualcosa di te”, è una forma di volontà, in qualsiasi modo si voglia intendere. Voler nulla, comunque, è un non amare. Qui il discorso si riferisce al senso della volontà. Chiedendo pietà agli dei perché sto banalizzando: non c’è volontà senza volontà di trasformare, modificare il mondo, sin dall’inizio. Se non si vuole il cambiamento, non si vuole. Cosa vuol dire? Che qualcosa divenga “altro” da ciò che essa è. Sia pure il mio volere che la grazia di Dio mi invada: è un “voler diventar altro da quello che sono” prima di questa invasione. E allora, l’attenzione di sposta sulla figura del “diventar altro da parte di qualcosa”. E quindi il discorso si fa estremamente presuntuoso dal punto di vista del comune modo di giudicare. Però una parte del discorso c’è anche che il discorso non è il prodotto di un individuo o di un Dio. La presunzione o l’arroganza sono apparenti. perché il discorso si fa presuntuoso si farebbe oscenamente presuntuoso se fosse un mio discorso.

ALL’ORIGINE DEL SACRO

Ebbene, siamo discesi dal concetto di amore al concetto di volontà, dal concetto di volontà al diventar altro, e qui è il tema del sacro. Perché la volontà originaria è volere modificare l’ostacolo che originariamente la volontà si trova davanti, perché, per diventar altro deve innanzitutto trovarsi di fronte una barriera, perché se no sarebbe una volontà immediatamente onnipotente. No. Per ottenere il “diventar altro”, bisogna innanzitutto sbattere contro qualche cosa che fa resistenza. E questo, nel discorso che vorrei abbozzare è la nascita del senso originario del sacro. E qui chiudo perché volevo ritornare al discorso apparentemente presuntuoso. Che cos’è il diventar altro essenzialmente legato alla volontà? Non si pensa mai che il diventar altro è una sorta di squartamento della cosa che diventa altro, che deve strapparsi da sé per diventare altro. E anche l’altro che la cosa diventa è – da capo – spezzato, invaso da ciò che diventa l’altro. C’è un duplice squartamento e già qui potremmo insospettirci sul carattere violento del diventar altro.

L’AMORE E LA VIOLENZA

Parliamo dell’amore. Diventar altro: squartamento che compete a chi diventa altro e all’altro che qualcosa diventa. E quando si incomincia a veder questa violenza e i conti iniziano a tornare di meno rispetto all’amare. Sia come volersi impossessare di qualcosa, sia come volere il bene di ciò che si ama, sia nei sensi + alti indicati dal C.mo, sia in quelli più umani indicati dalla grecità.

Ma se fosse semplicemente violenza potremmo dire: l’amore è violenza, pace, se saremo capaci considerare in modo diverso l’amare. Il fatto è che e qui chiudo subito, perché è il punto centrale di quanto vado pensando da una vita, il fatto è che non si tratta soltanto di violenza, di squartamento, di queste figure che possono impressionare – ma se la realtà è violenta c’è da prendere atto – Se non che non si tratta soltanto di violenza, ma dell’errare più radicale che possa avvolgere l’esser uomo.

L’ERRARE RADICALE DELL’UOMO

L’errare è ancora più radicale di ciò che nel racconto cristiano è il peccato originale. Se vogliamo usare il linguaggio religioso, potremmo dire: “Questo è l’autentico peccato originale”. Pensare volere il diventar altro delle cose e volerlo ma (questo è il peccato originale) realizzando la colpa. Amàrtema vuol dire insieme errore e colpa. C’è questo duplice aspetto: la colpa della violenza, ma anche l’errore – l’errare della violenza. Non è detto che la violenza sia un errare. Bisogna saperlo vedere. Questo faccio vedere nei miei scritti.

DIO, VOLONTÀ, SALVEZZA

Le dico due cose. Innanzitutto il Dio non soltanto quello cristiano, ma greco e cristiano è il sommamente volente. Nel Cristianesimo è addirittura il Creatore, in un modo ancora più radicale che nel carattere demiurgico del Dio greco che persuade la terra madre ad acquistare le forme, da parte di una terra che preesiste. E allora: se c’è l’equazione volontà uguale alienazione estrema dell’uomo, e allora questa salvezza portata dal demiurgo creatore-distruttore perché è anche quello che distrugge, lì abbiamo la forma più radicale della violenza. E allora lei mi diceva: l’alternativa? Certo, non è che il discorso finisca qui. Se dovessi indicarlo direi: “C’è qualcosa di più alto dell’amore, della salvezza intesa”. Pensiamo alla figura del Paradiso, proprio Tommaso d’Aquino – c’è discussione su questo punto – sostiene la fissità del gaudio dei beati. Sono tutti riempiti secondo la propria misura dalla grazia divina, ma è uno spettacolo fermo e anche in questa concezione la salvezza dal diventar altro è la salvezza rispetto all’uomo che diventa altro (anzitutto l’uomo è il diventante in quanto

volente) la salvezza sta nel pensare un’eternità sopra il diventar altro. Che innanzitutto è l’eternità di Dio, poi è la vita eterna dell’uomo che è vissuto secondo le leggi di Dio. La duplicazione della realtà: sotto il mondo della violenza, dell’errare, del divenire, della Storia, del tempo e sopra c’è l’eternità di Dio, questo è il riconoscimento esplicito dell’esistenza dell’errare. Se noi diciamo che qualcosa è un errore, diciamo forse che il contenuto dell’errore è qualcosa che è?

LA NON FOLLIA: NEGAZIONE DEL DIVENTAR ALTRO

Se dicessimo che il contenuto dell’errore esiste, dove sarebbe l’errare? L’errare consiste nell’affermare qualcosa che non esiste. Lo diceva anche già Aristotele. Esplicita quanto è più o meno sempre stato pensato. Persuasi di qualcosa che non è, così come sognare è un sognare è credere a qualcosa che non c’è nella veglia. L’errare pensa il nulla. Stavo dicendo che questa “duplicazione” della realtà, per cui c’è il signore e sotto il servo – il divenire è il servo e il signore è l’eterno – riconosce invece l’esistenza del contenuto dell’errore. Ma se l’errore è errore, vuol dire che il suo contenuto non c’è, non ci può essere, non può esistere. A questo punto uno che non conosce quello che scrivo, avrebbe tutto il diritto di chiedermi: “E in che cosa consiste, allora, la non follia?”.

Qui ce la caviamo dicendo: la non follia è la negazione del diventar altro. Se, partendo dall’amore: l’amore porta alla volontà, la volontà porta al diventar altro, il diventar altro alla violenza e all’errore, allora, il diventar altro è il contenuto di una fede in qualcosa che non è. E che non può essere. Allora, la salvezza non viene data dalla sovrapposizione di un Dio salvifico che non riconosce l’esistenza di un mondo che diventa realtà l’errore, ma è data dalla negazione della realtà del contenuto dell’errore. E cioè è data dal riconoscimento dell’eternità di ogni cosa. Non solo delle cose bianche, delle cose più semplici, dei peli della barba. Gustavo Bontadini credeva che i peli della barba sono caduchi – come san Tommaso – e i beati non si avranno. Invece no, questo stato del mondo in cui io guardo lei e lei guarda me è un eterno. E così l’istante precedente, quelli che precedono questo che è già cambiato. Allora lei mi può chiedere: “Allora è già cambiato”.

E allora, cos’è il variare del mondo? La risposta: che questa variazione del mondo appare… Cos’è il variare, se ogni essente – ogni sfumatura, passato, presente, futuro, è eterno? Variare, allora, è il sopraggiungere degli eterni in questa luce che vuol dire l’apparire del mondo, il manifestarsi, il fainesthai.

NATURALMENTE SALVI NELLA TECNICA

Questo variare non è un diventar altro, ma un farsi innanzi delle eterne costellazioni dell’essere. Vuol dire che siamo già da sempre, ma naturalmente salvi. Quando abbiamo tirato via la trascendenza, e Leopardi è grande perché l’ha tirata via (o ha più che contribuito), tiriamo via il Sacro. Nonostante certi ottimismi nella Chiesa, siamo d’accordo che dal punto di vista del sacrale le cose vanno male. Quando gli ultimi due secoli tolgono di mezzo il sacro, non è che tirino via la volontà. Tirano via una certa volontà, il Dio viene sostituito da una certa forma di volontà, di potenza, di volontà, di creatività, al culmine delle quali c’è la tecnica. Ecco perché uno dei miei interessi principali riguarda la tecnica. La tecnica è il modo in cui, abbandonata la forma tradizionale della violenza, si promuove la forma attuale della violenza, che è pur sempre violenza.

Abbiamo eliminato l’eterno, e qui Nietzsche e Leopardi lo dicono nel modo più chiaro. Se ci fosse un eterno non potrebbe esserci il divenire altro e questo non è facile. La grandezza di questi che ho nominato è nell’averlo fatto vedere. Cioè mentre la tradizione filosofica dice: il divenire è possibile soltanto se esiste l’eterno, viene fuori questa novità. È il lato meno a mio avviso sondato nel NOSTRO TEMPO. Viene fuori questo: il divenire può essere salvato non è negato, soltanto se non esiste nessun eterno. Solo se non esiste. Non le sto dicendo perché. Dico che chi ha mostrato il perché è appunto quello che chiamo un sottosuolo. Tutti, anche i bambini capaci di dire “Dio è morto”. E anche la cultura laica questa bassura, questo bigottismo alla rovescia, dare per scontato che il sacro, il divino non esistono, sono fantasie, non esistono valori assoluti. Ancora più grave che non la sostituzione. Ne fa un dogma come qualsiasi altro dogma.

L’INGANNO DEL LAICISMO CONTEMPORANEO E L’IRA DI ARISTOTELE

Il laicismo contemporaneo tende – lei ha parlato di Vattimo -, facciamo però nomi significativi, come Heidegger, Wittgenstein, Gadamer, Quine, i neopositivisti – danno per scontato che la metafisica è morta. Perché? Bisogna dire il perché. C’è stata quella discussione tra Benedetto XVI e Habermas, elogiata perché auspica che il mondo laico si capisca con quello cattolico. Ma Habermas ha esordito dicendo: “Poiché ci troviamo in un’epoca post metafisica…”. Dice cose edificanti. Se si parla di giustizia, l’allora cardinale Ratzinger non poteva dire: “Sono in disaccordo”. Ma è quella premessa lì. Un momento, perché ci troviamo in un’epoca post metafisica?

Ci troviamo in un’epoca in cui si dà per scontata la fine di una tradizione, anche una tradizione che difende il sacro. Si dà per scontata la morte di questa potenza concettuale. Aristotele potrebbe alzarsi dalla tomba e dire: “Perché devo essere seppellito come un cane morto, perché dire no alla metafisica”. Parlo di sottosuolo. Il perché viene dato dagli ultimi due secoli. Ma sia la tradizione, sia i veri distruttori della Metafisica, tengono fermo quel senso del “diventare altro” che scatena la volontà. Perché io posso volere ed essere violento solo se sono persuaso che le cose del mondo divengano altro, perché se fossi persuaso che tutto è eterno. Perché se i popoli fossero persuasi dell’eternità del tutto, non intraprenderebbero quel tipo di agire fondato soprattutto sulla volontà di cambiare il mondo.

LA CONQUISTA DELL’INCONTROVERTIBILE

Non è “una” visione. Si arriva alla radice quando appare l’incontrovertibilià di questo dire, che non si accontenta nemmeno del principio di non contraddizione. Non si può negare il principio di contraddizione. È qui il filosofare autentico, altrimenti è una visione tra le altre: allora, perché scegliere questo che sentiamo adesso piuttosto che la saggezza degli antichi. Si tratta di capire cos’è l’incontrovertibile. Questo che è, purtroppo, assente dal discorso filosofico del nostro tempo, che dovrebbe essere una coscienza critica delle forme della fede.

Se usassi una metafora. Che cos’è l’incontrovertibile? Può essere metaforizzato, ma non spiegato. Così, se c’è un bersaglio tale che ogni freccia scagliata contro di esso, colpisce se stesso prima di colpire il bersaglio, allora quel bersaglio è l’intoccabile. Allora non è una visione tra le altre, tra cui scegliere, ma è la visione alla quale tutte le altre devono adeguarsi.

CHE COSA DOBBIAMO FARE?

Innanzitutto si tratta di capire cosa vuol dire Io, noi, dobbiamo, fare. L’ultimo sarebbe il più facile, perché il fare è la volontà, anche il dovere. E l’Io? Si procede troppo con disinvoltura. La domanda non è innocente. Se e poiché la distruzione della tradizione occidentale è inevitabile (per quel sottosuolo di cui ho parlato). Se la distruzione di quel sottosuolo è inevitabile, allora è inevitabile la dominazione della tecnica. E allora, è un discorso che si può fare anche con la politica. Nasce la politica in Grecia. La politica è autentica, solo se capisce che il nostro tempo è destinato al dominio della tecnica. Se la corrente è questa e uno è davanti al fiume e mi chiede cosa fare. Se vuoi far fatica, nuota contro corrente, ma vedrai che la corrente, nonostante questo tuo nuotare, sarai trascinato. Se vuoi essere un elemento della corrente, allora nuota nella corrente.

Oggi gli uomini, gli erranti, a cosa sono destinati? O a perire, perché nuotano contro corrente o a potenziare questa corrente in cui la tecnica vuole acquisire sempre più potenza nel mondo? Incomincia a diventare edificante quando, ad un certo momento saranno i popoli a parlare questo linguaggio; il dominio della tecnica è destinato a un tempo in cui i popoli parleranno questo linguaggio. C’è il tema, infine, della morte; è con la morte che viene dinanzi ciò a cui questo linguaggio qui nel mondo malamente allude.

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