di Gianfranco Brevetto
Chiacchierare con Carlotta Jesi mi ha fatto bene. Non lo dovrei dire, ma è così. Una piccola trasgressione professionale che è lecita quando ci si trova a vivere situazioni similari. Carlotta è comunque abituata a condividere ansie, problemi, progetti. Fondatrice di Radiomamma, autrice di diverse pubblicazioni, si è fatta portavoce attiva di quelle mamme che, a Milano, non vogliono attendere che i problemi si risolvano da soli o, peggio, che li risolvano gli altri. Iniziare con piccoli progetti, lasciare da parte le grandi opzioni, non restare chiusi a casa con i propri problemi, riappropriarsi degli spazi esistenti fuori dell’uscio di casa. Ma partiamo dai suoi bambini veramente speciali.
– Nel tuo ultimo libro[1] affronti un tema che in questi anni si sta imponendo sempre più. La dislessia non interessa solo le famiglie, ma anche la scuola e le istituzioni in generale. Queste non hanno finora dato, come ci confermano recenti articoli apparsi sui quotidiani nazionali[2], risposte soddisfacenti. Anzi, a me sembra che questa, come altre problematiche analoghe, si stiano lentamente burocratizzando. Qual è il tuo punto di vista ? e, soprattutto, come attrezzarsi?
– Vedi, intanto io in questi anni ho cercato d’informarmi su quello che succede all’estero. Nel mondo anglosassone hanno capito che è molto importante, in questi casi, un supporto peer-to-peer. Per esempio, far sì che un ragazzo dislessico, che ha deciso di andare al liceo, all’università o che è divenuto imprenditore, si incontri con i bambini o con i ragazzi delle medie e dica loro che ce la possono fare. È importante che racconti, per filo e per segno, quello ha vissuto, quale sono state le sue tecniche per superare le difficoltà. Queste cose mancano totalmente in Italia, per cui la cosa che emerge di più dal libro è la solitudine dei miei figli, ma anche nostra.
– Occorre, dunque, in primo luogo uscire dalla solitudine..
– Sì, la dislessia non è un qualcosa che si vede dall’esterno, ma emerge quando gli altri ti osservano o pensano che tu sei svogliato , che non vuoi studiare o che la tua famiglia non ti segue. L’impatto sulla famiglia e importante. Incide sui ritmi, sul tempo, sul disordine, appunto, anche all’interno della casa.
– … e poi tanta consapevolezza…
– Direi che non c’è proprio questa consapevolezza, la scuola tende troppo spesso ad isolarli. Loro sono il granello di sabbia che rallenta o dà fastidio, perché magari sono più lenti e quindi intralciano, creano confusione. La legge[3], in teoria, tutela tutti ma, in certi casi secondo me, diventa quasi un pantano, una trappola: i dislessici hanno diritto alla calcolatrice, al computer ma questo può diventare un alibi per tutti, l’importante, poi, è che non disturbino. Manca sicuramente una coscienza e una formazione adeguata all’interno della scuola. Ma manca anche all’esterno, perché comunque sei considerato diverso, ti discosti dalla normalità e vieni spesso messo da parte. Per un ragazzino che cresce, per la sua autostima è qualcosa di devastante. Di conseguenza lo è anche nei confronti del genitore.
– Nella scuola non ci sono i piani didattici personalizzati?
– I piani didattici personalizzati puntualmente vengono disattesi, il bambino comunque resta sempre un diverso all’interno della classe. Diciamo che, man mano che cresce, il bambino acquisisce una maturità ed una consapevolezza diversa, sono però anni delicati e le famiglie vengono lasciate molto sole. Come dicevo, il piano didattico è comunque un luogo formale, burocratico e non ci si può limitare a quello, cosa che accade il più delle volte. Certo è che, se le scuole fanno valere solo l’arma della burocrazia, bisogna attrezzarsi per rispondere a tono, anche per le vie legali, perché sono in ballo i diritti dei bambini. Io credo che comunque la strada migliore sia quella di parlarsi, collaborare, impegnarsi a trovare le soluzioni migliori, che non sempre sono scritte in qualche manuale o in qualche testo normativo.
– Accennavi alla legge che prevede una serie di misure compensative e dispensative, ma basta una norma?
– No, non basta assolutamente una norma. Occorre una formazione ed educazione agli insegnanti, serve educazione alla diversità in generale, maggior empatia. Ma serve ancor più una rete, soprattutto per cercare anche dei contesti al di fuori dell’ambito scolastico dove questi bambini dimostrino di essere in grado di cavarsela. Penso allo sport, l’arte e tante altre cose. È necessario un legame che tenga uniti le insegnanti, il genitore, l’allenatore, ecc. . In Inghilterra ci sono delle scuole che si specializzano in questo campo con attività e metodi diversi, anche se mi rendo conto che questo tema è molto delicato.
– Veniamo a Radiomamma. Ho visitato il sito[4] e credo di aver capito che, la filosofia di fondo, sia quella di trasformare le difficoltà in opportunità. Qual è la ricetta che proponi?
– Radiomamma è nata otto anni fa a Milano. É un’impresa al femminile sviluppatasi intorno all’idea di non fermarsi al problema ma di trovare una soluzione e, noi, cerchiamo di farlo in maniera professionale. Siamo riusciti a fare delle cose importanti, come affrontare il problema della conciliazione tra lavoro e famiglia. Io cerco sempre di trasformare quello che chiamo il mal di pancia del genitore in un progetto. In questo caso, ci siamo relazionati con il Comune di Milano ed abbiamo fatto la nostra proposta: considerare il quartiere ed il vicinato come un possibile risorsa. Abbiamo iniziato da sei scuole pilota dei Navigli, qui abbiamo sottoposto ai genitori dei questionari per poter far emergere problematiche e proposte. Il vero problema era che tutti si incrociavano a scuola, tutti avevano bisogno di aiuto, ma nessuno si fidava dell’altro e si vergognavano di chiedersi aiuto. La connessione tra queste realtà, che non dialogavano tra loro, per noi poteva essere la soluzione.
– Come si è declinata questa proposta nella pratica?
– Abbiamo iniziato con un esperimento. Per sei mesi, a partire dalle 16.30, la scuola ha dato in gestione ai genitori alcune stanze dove potevano stare con i bambini, iniziare a conoscersi. Da qui abbiamo cominciato a operare favorendo uno scambio di deleghe o la condivisione delle baby sitter. Ci siamo comportati come una dinamo, abbiamo cercato di mettere in moto un attivismo civico che desse dei frutti. Da questo progetto sulla conciliazione è nato anche il progetto Scuole Aperte del comune. In questo si è riusciti anche ad incidere, nel nostro piccolo, anche sulle politiche sociali. Noi partiamo sempre da progetti molto semplici, senza grandi opzioni.
Ti potrei anche portare altri esempi, come il nostro progetto per riappropriarci dei parchi della città. Le occasioni sono tante se la gente ci crede, il nostro compito è quello di facilitare . L’importante chiedere loro di fare piccole azioni, questo è un modo anche di scoprire tanti talenti e di valorizzare tante persone. Poi lavoriamo anche molto con gli esercizi commerciali, per esempio segnalando, attraverso il bollino “Family Friendly “ rilasciato dalle mamme, quegli esercizi che sono attenti e che pensano in maniera innovativa e creativa ai bisogni della famiglia.
– Ma non c’è il rischio che tutte queste esperienze poi si perdano nel tempo e non si capitalizzino?
– Il rischio c’è. Milano, in realtà, manca di occasioni di spazi per mettersi alla prova. Questo soprattutto per gli adolescenti. Con loro vogliamo creare dei microprogetti per far vedere che valgono, che non sono degli scansafatiche, che se tu li metti davanti a un problema che possono risolvere, loro si rimboccano le maniche e ci lavorano.
– Milano è una realtà importante, pensi che questi progetti siano esportabili anche in altre città?
– Io penso di sì. Ma diciamocelo chiaramente, un conto è fare solo un sito d’informazione, altro è creare una rete, quartiere per quartiere, come abbiamo fatto noi. Questo è quello che fa la differenza, occorre essere in sintonia col territorio e dare sempre una soluzione partendo dai singoli problemi.
– Rifacendomi al titolo del tuo ultimo libro, ho un curiosità da quando abbiamo iniziato l’intervista: ci sveli i superpoteri dei tuoi splendidi bambini?
– Certamente. Sono davanti agli occhi di tutti, basta coglierli. Il rischio per chi ha a che fare con la dislessia è quello di concentrarsi solo sulle cose che non vanno bene. Se però tu fai un passo indietro scopri che, in fondo, le cose loro le sanno fare in maniera diversa. Ad esempio il pensare per immagini o possedere una memoria molto legata ai fatti o ai racconti, le storie. Avere un olfatto molto pronunciato. Sono bambini e ragazzi che si relazionano con lo spazio utilizzando appieno tutti i loro sensi. Non ci resta che stanare queste capacità, sostenerle. Ad esempio il mio secondo figlio ha forti problemi di discalculia, ad incolonnare le cifre e, allo stesso modo, mettere in sequenza le azioni. Abbiamo cercato, in famiglia, di trattare i problemi di matematica come se fossero delle storie, cercando di fargliele visualizzare. Lo stesso abbiamo fatto anche con le semplici operazioni. Bisogna essere capaci di farsi stupire da loro, da tutte le cose positive che esprimono. Partire dal loro modo diverso di fare le cose e su questo costruire delle tecniche e delle competenze, cioè trasformare questi talenti in competenze, anche se sono altre, diverse.
[1] Carlotta Jesi, I miei bambini hanno dei superpoteri, storia della nostra dislessia, Sperling & Kupfer, 2017
[2] Da ultimo, l’intervento Disturbi dell’apprendimento? La scuola (in questi casi) esce bocciata apparso, nella sezione InVisibili dei Blog del Corriere on line, il 6 febbraio 2017 a firma di Simone Fanti.
[3] Si parla della legge 8 ottobre 2010, n. 170.
[4] www.radiomamma.it
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