di Monica Pratelli
Parlare della memoria richiede un ingresso nella complessità, per i molteplici riferimenti neurobiologici e psicologici che essa comporta, ma non è questo l’intento. E’ la memoria come ricostruzione della storia personale che questo breve contributo intende trattare, poiché la narrazione e il racconto di sé creano percorsi di senso, che offrono un importante contributo alla costruzione dell’identità individuale e sociale. Lo sguardo rivolto al passato permette una rielaborazione delle esperienze pregresse; narrarsi è come prendere in carico se stessi, riappropriandosi della propria storia attraverso un approfondimento critico.
I ricordi affiorano con estrema facilità; bastano un odore, un sapore, un’immagine a incoraggiare la memoria, rendendola viva al punto da confondere il passato con il presente. Bastano una frase, una voce, una scena di un film, una canzone, a condurci verso sentieri conosciuti, ancora percorribili, magari con uno sguardo nuovo, più maturo ed esperto, ma pur sempre curioso, affettuoso, talvolta intimorito delle nuove letture possibili. La psicoterapia sistemico-relazionale, individuale, familiare o di coppia, dedica un tempo alla memoria, un tempo alla ricerca di connessioni, per leggere il passato con uno sguardo più ampio, che va oltre il punto di vista egocentrico, che esplora le relazioni significative per noi e per i membri della nostra famiglia, alla ricerca di risorse indispensabili per vivere il presente e per progettare il futuro.
Il racconto di sé è uno strumento che consente di cogliere in profondità i vissuti emotivo – affettivi connessi con la propria esperienza storica; narrare aiuta a ricordare, a pensare, a entrare in relazione più profonda con
noi stessi e con gli altri significativi, dando agli eventi una nuova collocazione nella nostra mente. Sono molteplici gli strumenti utilizzati per invitare a parlare di sé, tra questi è diffusa l’autobiografia, una vera e propria forma di scrittura, che può sembrare eccessivamente autoreferenziale, ma sappiamo bene che, quando riempiamo un foglio bianco, l’altro è al nostro fianco, invisibile, ma importante. Anche chi sostiene di scrivere per sé, in realtà, tiene presente il lettore, interagisce emotivamente con esso, lo ascolta, lo intrattiene, lo usa come aiuto all’esplorazione. In questo caso la memoria si trasforma in linguaggio, stimolando l’autoriflessione, l’osservazione del proprio comportamento e la ricerca di nuove possibilità. Raccontarci è un bisogno, una necessità; lo facciamo in tanti modi diversi, con persone diverse, con registri diversi.
Tutti abbiamo bisogno di raccontarci, ma, talvolta, non lo facciamo per paura, per il timore di rivivere momenti difficili, di entrare di nuovo in contatto con vissuti che vorremmo buttar via. “Non ci voglio pensare!” diciamo spesso, ma la memoria imprime tracce indelebili, che riaffiorano talvolta sotto forma di ferite che, se profonde e negate, necessitano di cure. Le esperienze condivise con narrazioni originali e personali testimoniano il nostro diverso sguardo, la nostra intima chiave di lettura, spesso attribuita all’altro o dall’altro ricevuta, ma che ha a che fare, comunque, con una storia, che in Terapia Familiare è possibile condividere. Uno strumento utilizzato frequentemente è il genogramma, cioè è la ricostruzione della mappa familiare. E’ stato introdotto da Murray Bowen (1913-1990) ed è un particolare albero genealogico che rappresenta in forma grafica le relazioni di parentela tra i componenti di una famiglia su almeno tre generazioni e che viene arricchito dal racconto dell’individuo, che fornisce informazioni importanti sugli eventi del ciclo di vita e sulla storia della propria famiglia.
Quando è utilizzato in Terapia Familiare questo strumento aiuta a far emergere i diversi punti di vista, le diverse letture della storia da parte dei vari membri, perché la storia non è mai la stessa, ogni individuo ha vissuto
gli eventi con sguardi ed emozioni diverse o assumendo anche su di sé stati d’animo altrui.
Il Genogramma Fotografico si pone obiettivi simili, ma privilegia l’uso delle immagini, attraverso un percorso di costruzione e ricostruzione dell’esperienza di vita. Dobbiamo molto, a questo proposito, al professor Rodolfo de Bernart, che ha dedicato studi ed esperienze all’uso di questo strumento, che offre la possibilità di esplorare la propria storia attraverso le fotografie dei singoli, delle coppie e dei gruppi significativi della famiglia. Il genogramma fotografico permette di “stare” di fronte all’immagine prima che arrivino le parole, di osservare distanze e vicinanze, di dare voce alle emozioni nascoste. Il terapeuta invita il paziente a portare non più di trenta foto, che possono servire a narrare la propria storia e la storia della propria famiglia partendo da più lontano possibile. Durante la seduta ci sarà la possibilità di descrivere le singole foto e di disporle poi in uno spazio predisposto. La ricerca delle foto, soprattutto di quelle più distanti nel tempo, implica spesso il “viaggio a casa”, la visita alle famiglie di origine, che rappresenta, di per sé, un contatto stretto con il passato e una rievocazione di esperienze significative sul piano affettivo.
Vorrei però soffermarmi in modo particolare su un altro strumento, che prende il via da quello ora descritto e che ne può essere un’integrazione. Si tratta del Genogramma con Immagini d’Arte, da me ideato e utilizzato ormai da tempo.
Ho iniziato ad utilizzare il Genogramma con Immagini d’Arte durante un processo terapeutico con una giovane donna di nome Chiara.
Chiara, all’inizio della terapia, ha 31 anni, è laureata in Storia dell’arte (Facoltà di Lettere con indirizzo artistico). La sua famiglia è così composta: padre (60 anni, commercialista), madre (56 anni, segretaria nello studio del marito), fratello (29 anni, studente universitario un po’ in ritardo con gli esami). Chiara ha alcuni incarichi di lavoro, ma che la impegnano per tempi brevi; collabora con l’università come cultrice della materia, scrive qualche articolo per una rivista d’arte e per un pomeriggio alla settimana lavora in una galleria d’arte.
Chiara mangia e dorme pochissimo, se si escludono le brevi uscite per lavoro, sta sempre in casa, non ha amicizie, dopo la fine di un fidanzamento durato sei anni, teme di non poter più avere rapporti con l’altro sesso, confessa di trascorrere lunghi momenti con gli occhi nel vuoto. Qualsiasi tentativo di parlare della sua storia e della sua vita precedente va regolarmente a vuoto.
Chiara non accetta di parlare della propria famiglia; alla richiesta di portare delle foto si oppone con decisione.
– Ho più di trent’anni – dice – devo vivere la mia vita, costruirmi un futuro, senza pensare al passato.
Le reazioni di chiusura sono molto forti.
Facendo leva sui suoi interessi e sulla sua preparazione, le propongo di “costruire” la propria famiglia utilizzando immagini artistiche.
Chiara, anche questa volta, risponde negativamente alla mia richiesta (“La mia famiglia non serve, sono grande ormai”. “Il problema è mio”).
Inaspettatamente, la seduta successiva, porta però un’immagine. “Ho trovato questa e mi sembra adatta a Federico (l’ex fidanzato), se ce la faccio, la prossima volta vedo se riesco a portare qualcos’altro”.
Prende così il via un lavoro che è stato molto significativo e coinvolgente.
L’elaborazione del genogramma attraverso le immagini d’arte si è protratta per alcune sedute. Quando Chiara descrive le immagini alterna momenti di rabbia a momenti di dolcezza e di commozione a seconda delle persone della propria famiglia che rievoca.
Ciò che mi è sembrato significativo è il fatto che Chiara non ha scelto le immagini in base a somiglianze fisiche, bensì in relazione a elementi simbolico-metaforici.
Il lavoro con Chiara è stato solo l’inizio e ho continuato a utilizzare questo strumento ogni volta che l’ho ritenuto necessario, senza nulla togliere ad altre modalità di lavoro.
Ho una raccolta di immagini, che con il tempo ho arricchito. Si tratta di ritratti di individui, coppie, famiglie… volti talvolta nitidi, che comunicano facilmente stati d’animo, oppure evanescenti, dall’espressione vaga e imprecisa, che permettono una più libera narrazione da parte dell’osservatore. Le immagini sono raccolte in contenitori, come fossero album di famiglia e la persona è invitata a farne una scelta libera.
Ecco, le consegno questi album. Contengono immagini d’arte. Le chiedo, per il nostro prossimo incontro, di farne una scelta. Non più di trenta immagini, che serviranno a raccontare la sua storia, la storia della sua famiglia, partendo da più lontano possibile.
Non è certo una richiesta semplice, ma è accessibile a tutti; le immagini aprono le porte alla memoria, creano connessioni, offrono la libertà di esplorare momenti significativi, partendo da un colore, dall’espressione di uno sguardo, da una postura, da una piega amara della bocca, da un sorriso, da uno sfondo.
Per migliore chiarezza procedo con un esempio, descrivendo il percorso terapeutico svolto con Elisa, una donna di 38, sposata con Carlo e madre di Alessandro, che ha 17 anni. Elisa si è sposata giovanissima poco dopo aver iniziato un percorso universitario tanto atteso. Elisa soffre di attacchi di panico, che sono iniziati dopo la nascita del bambino. In seguito a una terapia farmacologica ha vissuto un periodo piuttosto tranquillo per qualche anno, ma poi, inaspettatamente, gli attacchi di panico si sono ripresentati con un blocco del respiro, apnee prolungate, disorientamento, senso di smarrimento. Elisa ha un tono di voce spento, narra le vicende della propria vita in modo neutro, con scarsa connotazione emotiva, come se raccontasse una vita altrui. La sua è una bellezza velata, nascosta da occhiaie che rendono il suo sguardo appassito, deluso, privo di speranza.
La richiesta di utilizzare le immagini d’arte per parlare di sé e della sua famiglia viene accolta passivamente, senza il minimo coinvolgimento, ma, a mano a mano che il lavoro procede, la sua espressione verbale si colora di affettività, il non verbale diviene più esplicito, concedendosi la rabbia, la gelosia, l’espressione di bisogni e desideri.
Ecco di seguito alcune delle immagini scelte da Elisa per rappresentare la propria famiglia corredate dalle parole che ne hanno accompagnato la descrizione.
Anna, la nonna paterna
(Gino Severini, 1934 ca)
Elisa ha della nonna un bel ricordo. Ci teneva molto ad essere elegante e, anche se non aveva tante possibilità, poneva attenzione all’abbigliamento. Mentre parla Elisa prende dalla borsa il portafoglio e ne estrae la foto di nonna Anna. E’ molto simile al quadro di Gino Severini, l’espressione del volto è “chiusa”, lo sguardo guarda oltre. Elisa riferisce che, da piccola, giocava “a signore” indossando i vestiti di nonna Anna e che, le è rimasto in eredità un suo cappotto nero con la pelliccia al collo, che fa il solletico. Si era dimenticata questa cosa e sorride mentre la ricorda.
Armando, il nonno paterno
(Annibale Carracci, 1583 ca)
Il nonno è morto da pochi anni; lo ricorda come un uomo un po’ “contadino”, pensava solo al cibo, non era tanto educato. Il contrario della nonna, sempre in ordine, ben pettinata. A pensarci ora non erano certo una coppia affiatata, non ricorda di averli sentiti ridere insieme. Il padre era spesso preoccupato per la propria mamma, pensava spesso a lei, come se avesse la percezione che non fosse felice. Quest’attenzione verso nonna Anna faceva arrabbiare la mamma di Elisa.
“Hai sempre nella testa tua madre!” gli diceva spesso. Forse il babbo temeva che la mamma non fosse felice con nonno Armando.
Gli abiti del nonno sapevano di cibo, gli piaceva stare in cucina a controllare le pentole sul fuoco.
Teresa, la nonna Materna
(Carlo Carrà, 1926 ca)
“Non ho foto di nonna Teresa, ma questo quadro le somiglia, o meglio, somiglia alla storia che mi è stata narrata. E’ rimasta vedova presto, con cinque figli. Li ha tirati su da sola, lavorando nei campi dei vicini, i quali, presi da compassione, le davano spesso qualcosa da mangiare. I figli sono cresciuti e me la sono sempre immaginata lì, sulla porta, ad aspettare che tornassero a casa. Il senso di solitudine è stato raccontato dalla mamma; solitudine, ma anche ammirazione per una donna che, con forza, è riuscita a crescere i propri figli, tre dei quali hanno anche studiato. Nonna Teresa è morta che io ero ancora piccola, non ne ho ricordi nitidi, ma, in questo momento, mi sembra di sentirne l’odore. Odore di terra, di fieno, di muschio, quasi odore di presepe, di povertà.”
Alberto, il nonno materno
(James Ensor, 1883 ca)
Ecco nonno Alberto, morto a meno di quarant’anni. Era bello, simpatico, sempre allegro, traditore. Aveva le donne ai suoi piedi, lavorava poco e metteva incinta la nonna. La mamma però ne ha sempre parlato con il sorriso; forse ha avuto bisogno di crearne una sorta di mito, per sopportarne meglio la morte avvenuta quando lei era ancora piccola. La mamma era la seconda dei cinque figli ed era l’unica femmina, per cui ha aiutato molto la nonna quando il nonno è morto in un incidente di caccia.
A dirla tutta sembra che non si sia trattato proprio di un incidente, ma di una resa dei conti da parte di un marito tradito, ma questa cosa Elisa l’ha solo “sentita” nell’aria, da mezze parole, sospiri, sguardi complici degli zii. Elisa pensa che la mamma abbia fatto il possibile per salvare la reputazione di suo padre agli occhi delle figlie, attraverso la citazione di episodi buffi di quando era bambina, a cavalcioni sulle sue spalle o a fare smorfie davanti allo specchio.
Ubaldo, il padre di Elisa
(Antonio Allegri “Correggio”, 1522 ca)
“Ecco mio padre. E’ proprio lui. Sempre assorto, molto religioso, con principi morali solidi e rigidi. Da piccole ci leggeva il vangelo e anche ora lo tiene sul comodino.”
Elisa dice di avere paura di lui, anche se non è mai stato aggressivo con nessuno. Ha paura del suo giudizio, della sua perfezione. Ha sempre aiutato la sua famiglia di origine, legatissimo a nonna Anna, la portava anche al cinema. “Figuriamoci i commenti della mamma…!”.
Però è stato ed è un bravo padre per le figlie.
“Ho paura, paura che muoia, di non fare in tempo ad abbracciarlo. Perché io non ricordo di averlo mai abbracciato. Ne ho sempre avuto tanto desiderio, ma come si fa ad abbracciare un uomo così serio. So di averlo deluso, di non essere stata la figlia giusta per lui. Quando sono rimasta incinta e ho interrotto gli studi l’ho deluso tanto. Non si è arrabbiato, ha accettato tutto e ha organizzato il matrimonio. Non ha pensato neanche per un attimo che io potessi fare una scelta diversa.
Questa immagine odora di chiesa, di cera, di domeniche in cui ci portava a messa tutte e tre, lui con la faccia seria e assorta, io a sbirciare qua e là alla ricerca di cose curiose. Il mio corpo aveva bisogno di muoversi, ma sapevo di dover stare ferma e, quando era il momento di congiungere le mani, lmi prudeva sempre dappertutto.”
Ancora Ubaldo, il padre
(Andrea Mantegna, 1500 ca)
“Anche questa immagine l’ho scelta per mio padre. Rappresenta la paura di cui parlavo prima, ma anche un lungo periodo di depressione che ora sembra passato, ma che lo costringeva a stare tanto a letto. Era sempre stanco, bisognoso di riposarsi. Forse è iniziato con la morte della nonna, non so. Con Alessandro ha sempre avuto pazienza, gli ha permesso di sfogliare i suoi libri, di accartocciarne qualche pagina; gli ha raccontato storie di quando era piccolo e doveva inventarsi i giocattoli da solo. Mio padre si è fatto da solo, ha creato la sua piccola azienda partendo da zero, con impegno. Anche ora ha l’eleganza di nonna Anna e non si concede mai un errore, mai un comportamento scomposto. Mi viene da pensare in questo momento a quanta fatica e quante rinunce può aver fatto, per vivere con dignità, come lui stesso dice.
Quando entro nella mia vecchia casa sento il silenzio, anche i miei passi fanno un rumore troppo forte, so che mi aspettano, ma ho anche paura di disturbare. Non so come spiegare, è una sensazione strana.”
Laura, la madre di Elisa
(Godfried Schalcken, )
“Ecco qua la mia mamma. Io la immagino così, con una luce che illumina senza disturbare. Con noi è sempre stata presente e disponibile. Ha imparato da piccola a fare la mamma, con i suoi fratelli. Io credo che lei mi apprezzi, anche se sono diversa da lei. Quando eravamo bambine voleva vestirci uguali, ma io rifiutavo i vestiti da “femmina”, le trine, le gale, i fronzoli. Volevo solo pantaloni e. soprattutto, tute da ginnastica. So che lei rimaneva male, me ne accorgevo, ma non riuscivo a fare diversamente. Leggevo negli occhi della mamma il desiderio di vederci simili, di trattarci alla pari, forse le sembrava di fare differenze, ma ero io che volevo essere diversa. Lei forse aveva sofferto la differenza, lei che era cresciuta troppo in fretta, per lasciare ai fratelli la possibilità di essere bambini.”
Ancora Laura, la mamma
(Felice Casorati, 1918 ca)
“Ma anche questa immagine mi ha ricordato la mamma. Quando vado a trovarla ho l’impressione che abbia trascorso i giorni precedenti in solitudine, ad aspettarmi. Questo quadro mi trasmette proprio questo senso di solitudine, di distacco dalle cose. Tutte quelle ciotole vuote disposte sul tavolo rappresentano l’assenza della famiglia; la ciotola accanto forse è l’assenza del babbo. I miei genitori non sono stati litigiosi, non hanno fatto scenate davanti a me e a mia sorella come capita in tante famiglie. Forse però sono stati distanti, soli tutti e due, ciascuno a modo proprio. La loro è una vicinanza “educata”, neutra.”
Aurora, la sorella di Elisa
(Giorgio de Chirico, 1936)
“Aurora ha quattro anni più di me. Di lei mi colpisce questa espressione, che le vedo spesso negli occhi. Si estranea, assorta nei propri pensieri, che sembrano tristi, ma chissà!
E’ difficile leggere nei suoi occhi, sembra che guardino sempre oltre, che ti trapassino.
Aurora non ha figli e credo abbia sofferto tanto per il fatto che io invece, pur essendo più piccola di lei, ho avuto Alessandro molto presto. Non ha mai parlato del desiderio di avere un bambino né della delusione per non averlo avuto. Non so se lei e il marito hanno cercato di averne. Abbiamo avuto destini diversi: io un figlio quando ero ancora una studentessa, lei un lavoro che l’appassiona.”
Ancora Aurora, da piccola
(James Abbott McNeill Whistler, 1873)
“Ecco mia sorella da piccola, vestita di tutto punto. Lei non si ribellava al gusto di mamma, anzi le piaceva vestirsi da principessa. Forse un po’ la invidiavo; non avevo il coraggio di indossare quella roba, ma forse mi sarebbe piaciuto almeno un po’. La nostra differenza era davvero forte. Un giorno in un negozio la commessa disse:
Non sembrano neanche sorelle!
Avrei ucciso quella commessa con le mie mani. Per essere sorelle ci vuole altro che un vestito uguale e noi siamo sorelle, altro che!
Vorrei veder sorridere di più Aurora e spesso ci riesco, con le mie battute; faccio un po’ l’animatrice, ma che fatica! Ora mi chiedo se davvero Aurora era felice dei suoi vestiti da principessina o se, magari, mi ha invidiato un po’. Io scorrazzavo libera, giocavo a pallone con i maschi e lei … seduta a guardarmi. Mi teneva d’occhio su richiesta della mamma, ma forse avrebbe qualche volta desiderato tirare anche lei un calcio a quel pallone.”
Elisa
(Edvard Munch, 1894 ca)
E’ con questa immagine che Elisa parla della sua adolescenza, vissuta con fatica, con un rapporto difficile con il proprio corpo, con il cibo, con i ragazzi.
Riferisce di aver avuto tanti amici maschi, di divertirsi con loro, ma questo destava disappunto nei genitori, soprattutto nel padre, che esigeva un comportamento corretto. Le sue ginocchia erano sempre erano sempre piene di lividi per le cadute.
Si divertiva tanto con gli amici, ma poi si sentiva strana, come se a divertirsi fosse un’altra lei, come se fosse una sorta di gioco del far finta, che poi la faceva sentire insoddisfatta. Ricorda che una volta, rimasta sola in casa, aveva giocato un po’ a fare la principessa indossando gli abiti della sorella. Davanti allo specchio si muoveva con grazia, si piaceva, assaporava l’odore delle trine, ascoltava il fruscio delle stoffe, che sfioravano il suo corpo. Si sentiva bella e le piaceva molto, ma doveva riporre tutto prima che gli altri rientrassero, era stato solo un gioco.
La famiglia di Elisa
(Felice Carena, 1929)
“La mia famiglia l’ho sentita così, anche se questo è un papà un po’ in disordine, mentre il mio è sempre stato impeccabile. Qui io non ci sono, la bambina è mia sorella. Ricordo di averli guardati spesso loro tre insieme, come da spettatrice. Loro si somigliavano di più, erano più gruppo. ma forse ero io che non riuscivo ad essere “vera”; facevo il maschiaccio per distinguermi dalla principessa e poi non mi sentivo adeguata agli occhi di mamma e babbo; volevo diventare ingegnere e sono rimasta incinta deludendoli. Non se lo aspettavano, di sicuro.”
Elisa parla di nuovo di quell’abbraccio al padre tanto desiderato e mai cercato, del suo bisogno di contatto fisico con lui, anche solo attraverso il gesto di aggiustargli il colletto della camicia.
Elisa
(Edvard Munch, 1893)
Con questa immagine Elisa descrive se stessa oggi. Il suo è un grido pieno di mille emozioni inespresse: il dolore per non essere riuscita a conciliarsi con autenticità con la propria famiglia di origine, la rabbia per non sentirsi capace di ascoltare i propri desideri, il senso di colpa verso il figlio, con la consapevolezza di non offrirgli una vita serena. Dice di sentirsi spesso soffocare e che, forse, basterebbe un grido come questo per stare meglio, ma non ci riesce.
L’altra faccia di Elisa
(Marcel Duchamp, 1910)
“Mi vergogno da morire, ma questa immagine la sento mia. Se la confronto con l’altra che ho scelto per la mia adolescenza, sembra che i conti non tornino, ma questa rappresenta forse un mio grande bisogno. Il bisogno di guardarmi e di farmi guardare, senza vergogna, senza quella maledetta timidezza che mi ha sempre impedito di sentirmi davvero donna. Così riesco ad essere solo in poche circostanze, poi mi devo rivestire in fretta, come se nulla fosse stato.”
Carlo, il marito
(Francisco Goya, 1808)
Il colosso di Goya permette a Elisa di parlare del marito, un uomo che vuole apparire forte, che si impone, che non ascolta nessuno, a parte la propria madre. Ci sono momenti in cui Carlo assume atteggiamenti di prevaricazione, anche con il figlio.
“Ci tratta male, o, almeno, io sento questo. Quest’immagine mi ha fatto entrare in contatto con la mia paura. Sì, in certi momenti ho paura delle sue reazioni, lo vedo enorme di fronte a me, gigantesco, eppure non mi ha mai sfiorata con un dito. Però, da tempo, sembra che mi odi, che voglia distruggermi, mi impedisce di fare ciò che mi piace, di proseguire i miei studi interrotti. Lui però i suoi studi li ha continuati indisturbato; l’arrivo di Alessandro non gli ha impedito di pensare alla sua carriera, alla sua vita. Ora penso che se fossi riuscita a chiedere aiuto ai miei genitori, se avessi chiesto loro di occuparsi un po’ del bambino, magari ce l’avrei fatta anch’io a continuare l’Università, ma mi sentivo in colpa ai loro occhi. Però neanche loro si sono proposti, neanche loro hanno pensato che potevano darmi una mano.”
Elisa e Alessandro, suo figlio
(Andrea Spadini)
“Questi siamo noi, io e mio figlio. Ho scelto questa scultura, perché dà meglio l’idea di come siamo noi. Siamo un tutt’uno, scolpito nel solito marmo. Ci capiamo al volo. Il rapporto di Alessandro con il padre non è buono; penso che non si senta capito da lui. Alessandro è molto attento a me, mi fa compagnia, mi fa ridere, mi racconta le sue cose.”
Viene fatto notare a Elisa che qui suo figlio è raffigurato come un bambino piccolo, mentre, in realtà, ha 17 anni.
“E’ vero! – Non ci crederà, ma me ne rendo conto solo ora. Per me lui è sempre piccolo, come se appartenesse solo a me.”
Elisa e Carlo, suo marito
(Paul Gauguin)
Ecco la coppia, descritta da Elisa. Due persone distanti, divise da una staccionata. Forse basterebbe poco per avvicinarsi, la staccionata sembra fragile e si potrebbe perfino aggirare l’ostacolo, visto che di lato il passaggio è libero, ma lei sente che guardano ciascuno un panorama diverso, ciascuno di loro due vive una dimensione propria, mancano la condivisione, il progetto.
Ad osservare bene però sembra che la donna sia davanti casa, mentre l’uomo un forestiero che arriva. “Se Carlo arrivasse da me con un nuovo sguardo negli occhi, se mostrasse interesse per me, forse io sarei curiosa di provare di nuovo. In fondo ci siamo amati tanto. Forse io chiedo un cambiamento solo a lui, forse questa donna dovrebbe fare un passo, accogliere il forestiero, farlo entrare, chissà!”
Ancora Elisa e Carlo, suo marito
(Paola Gandolfi, 1995)
“Questo quadro mi rappresenta, rappresenta bene come mi sento spesso con lui. Occhi e bocca coperti. Sento un impedimento a guardare avanti, al mio futuro. Sento, da parte sua, l’imposizione di tacere, di non esprimere i miei bisogni. Questa immagine mi dà quel senso di soffocamento di cui abbiamo parlato, mi sembra di sentire a pelle tutte quelle sensazioni fisiche che arrivano quando mi vengono le crisi. Credo di avere sempre avuto il problema di tirare fuori i miei veri pensieri, fin da bambina.”
Io e Luca
(Gisberto Ceracchini, 1933)
Con questa immagine Elisa racconta dell’altro, della persona di cui si è innamorata. Dice di sentirsi a disagio per non averne parlato prima. Luca è un collega coetaneo, con cui, gradualmente, ha instaurato una relazione sempre più intensa, che accoglie ogni sfera della coppia: l’ascolto, l’intimità, la condivisione, la sessualità, quando è possibile. Questa immagine rappresenta l’ascolto reciproco, i momenti carichi di semplicità e leggerezza che con lui riesce a vivere. Con Carlo non ricorda di avere mai avuto momenti così. Ogni argomento è sempre stato ascoltato da lui solo in chiave critica, alla ricerca del difetto.
Ancora Elisa e Luca
(Aurelio Bulzatti, 1994)
Questa immagine rappresenta per Elisa la propria apertura alla sessualità già descritta nell’opera di Marcel Duchamp.
“Con Luca non ho vergogna del mio corpo, riesce a entrare in contatto con sensazioni intense di piacere; con lui c’è reciprocità, un dare e un avere senza fare i conti, senza dover tirare le somme.”
Ci fermiamo qui.
Altre opere narrano la storia di Elisa, ma forse queste sono sufficienti a descrivere lo strumento del Genogramma con Immagini d’Arte.
Il lavoro richiede alcune sedute, durante le quali le opere scelte vengono osservate e descritte, ma, come abbiamo visto, la descrizione va oltre l’immagine, permette l’esplorazione di contenuti profondi, di emozioni nascoste e inespresse, consente di avvicinarsi alle rappresentazioni interne che un individuo ha del mondo, delle proprie figure di attaccamento, di sé stesso, delle relazioni.
Successivamente, quello che ormai è divenuto un album di famiglia, viene sfogliato di nuovo insieme, offrendo la possibilità di integrare con nuovi contenuti. A una seconda “lettura”, quasi sempre si accede a nuove riflessioni e consapevolezze, che aiutano a giungere a una più profonda conoscenza di sé, delle relazioni significative, delle proiezioni, dei bisogni.
Quando Elisa osserva di nuovo le sue immagini nota da sola che il tono emotivo prevalente di tutto il suo racconto è di tipo depressivo, ricerca nessi importanti, individua i temi prevalenti della solitudine, della distanza, della ridotta intimità, della rabbia inespressa e compressa, imprigionata in una mascolinità non autentica, nel senso di inadeguatezza al cospetto di modelli di perfezione, nel senso di colpa.
Un elemento da evidenziare riguarda la scelta di più di un’immagine per parlare di un unico membro della famiglia, come se questo materiale offrisse ancor più la possibilità di entrare in contatto con più aspetti del sé e dell’altro (il padre perfetto, ma depresso; la madre che illumina, ma che è sola, la sorella elegante, ma distante, sofferente…).
Ogni immagine sembra poi ricollegarsi a connotazioni sensoriali: il fruscio delle stoffe, l’odore di trine, di muschio, di chiesa, il solletico della pelliccia, il silenzio, il rumore dei passi.
Le voci della memoria si intrecciano nelle diverse accezioni: ricordare, rimembrare, rammentare. Un gioco di combinazioni che coinvolge la mente, il cuore, il corpo e le senso-percezioni. Un canovaccio che concede la libertà di esplorare gli affetti, di riconoscerne i contrasti, gli opposti, procedendo verso nuove letture. Ci vorrà altro tempo per una elaborazione sufficientemente buona.
L’intento non è quello di svelare il finale della storia di Elisa; ogni lettore può sentirsi libero di formulare ipotesi, congetture, supposizioni.
Il Genogramma con Immagini d’Arte forse può essere un nuovo strumento, che non sostituisce, ma integra altre modalità di lavoro in psicoterapia.
Come abbiamo visto, le immagini attivano senso-percezioni, e tracce emozionali corporee, consentono di ripercorrere con nuovi sguardi vecchi sentieri, rivelando bisogni inespressi, affetti congelati. Le immagini sono una “madeleine”, un’opportunità per entrare in contatto con la memoria, dandone senso e viaggiando nel passato alla ricerca di miniere inesplorate.