EXAGERE RIVISTA - Gennaio-Febbraio 2024, n. 1-2 anno IX - ISSN 2531-7334

Il genogramma spezzato – intervista a Silvia Dai Pra’

di Gianfranco Brevetto

 

Silvia Dai Pra’, nel suo ultimo racconto Senza salutare nessuno, edito da Laterza, introduce, sapientemente, una pagina di storia tormentata e mai metabolizzata. La questione istriana, le vicende storico-politiche delle terre irredente, le cause e gli sviluppi della vittoria mutilata, si mescolano con un corpo a corpo con la memoria familiare e personale. Cosa ha impedito e impedisce e questa parte del passato di essere considerato tale? Come può la conoscenza di eventi, date, luoghi, persone salvarci dalla dannazione dell’oblio e ricostruire un legame capace di dare senso alla nostra storia personale?

Nel libro lei cita il genogramma e la sua capacità di svelare relazioni, ma anche lutti personali e psichici. Lei fa, in quel caso, riferimento alle decimazioni occorse nelle foibe. Parallelamente, però, esiste anche un genogramma della memoria che è necessario opportunamente ritagliare per sopravvivere: sua nonna vi chiede, prima di un vostro viaggio nella ex Jugoslavia, di non salutare nessuno. Perché?

– La storia di mia nonna Iole mi ha sempre incuriosito, fin da quel viaggio del 1988 in cui scoprii che era cresciuta in un paese che ormai non era più Italia, un paese istriano in cui si parlava una lingua straniera. Del suo passato, però, lei non parlava affatto, e questo ha prodotto un buco, uno spazio vuoto nella memoria che da lei è arrivato fino a me – questo strappo, questa cancellazione, di sicuro ha origine da un trauma: cosa può significare andare a riconoscere il cadavere di tuo padre scomparso e riemerso dalla terra quando hai appena compiuto sedici anni? Non lo so, non posso saperlo: quel che è certo è che lei non si riprese mai più – anche nelle lettere che scriveva a una sua amica istriana, si capisce come, più mia nonna invecchiava, più il pensiero tornava ossessivamente lì, a quella foiba, a quel paese che non aveva più visto da quando aveva sedici anni.

Devo dire però, anche, che questo buco nella memoria è comune a molti istriani. Mentre facevo ricerche ho scoperto un sacco di persone, anche amici, che avevano origini istriane: e anche loro, come me, ne sapevano poco o nulla, non erano mai tornati, non avevano ascoltato racconti.

– Quali i motivi di questo oblio necessario?

– Ci possono essere tanti motivi alla base di questa rimozione, ma la principale penso vada ricercata nella pessima accoglienza che l’Italia riservò ai giuliano-dalmati al loro arrivo in Italia: basta citare l’orribile episodio del treno della vergogna, quando a un convoglio di profughi fu impedita una sosta alla stazione di Bologna, ma ce ne sono tanti, anche di minori e meno conosciuti. Fu attaccata l’etichetta di “fascisti” a centinaia di migliaia di persone che, semplicemente, non volevano vivere nella Iugoslavia comunista. Ci fu una sorta di spargimento di fake news e di meccanismo del capro espiatorio, favorito dal fatto che l’Italia non avviò mai una vera e propria riflessione sul proprio passato e sull’adesione della popolazione al fascismo. Finita la guerra, tutti erano improvvisamente diventati antifascisti: eppure qualcuno fascista doveva esserlo stato, se il regime era andato avanti per vent’anni. Ecco arrivare i profughi, quelli che se ne andavano dalla Iugoslavia comunista, quelli che, dicevano le voci, “fuggivano dalla vendetta popolare”: ecco trovati “i fascisti”. Una follia, soprattutto se si pensa che l’Istria invece aveva una lunghissima tradizione operaia ed era forse una delle zone che più aveva pagato, in termini di denunce, confini, processi, nel ventennio. Ma all’improvviso dichiararsi istriano era subito una nota di demerito: eri un mezzo straniero, un morto di fame, un fascista. Così, molti preferirono lasciare che la memoria si perdesse.

– La sua appare molto di più di una ricerca delle origini, mette, sin da subito, in luce una serie di sentimenti contrastanti, antinomie storiche e politiche che in apparenza si sono chiuse nei primi anni dopo l’ultimo conflitto.   Cosa rende ancora attuale i versi di Ungaretti da lei citati in epigrafe: cessate di uccidere i morti?

– Ogni anno il tema delle foibe riemerge per polemiche politiche, puntualmente qualcuno tenta di appropriarsi di quei cadaveri, di sbatterli da una parte e dall’altra, chi per scagliarli contro la resistenza, chi per insultarli; c’è chi sventola bandiere della X Mas il giorno del ricordo, c’è chi di notte va a distruggere le targhe per gli infoibati e a disegnarci sopra falci e martello. “Cessate di uccidere i morti / non gridate più” significa chiedere rispetto, chiedere di abbassare i toni da tifo da stadio per permetterci di ascoltare la loro storia.

Ritornando nei luoghi, familiari, della ex Jugoslavia lei trova un mondo che riconosce con difficoltà. Un mondo profondamente cambiato anche politicamente, i suoi eccessi, i suoi estremismi. Questa situazione appare, per alcuni versi, speculare all’appropriazione di alcune vicende, come quella delle foibe, degli esuli, della guerra partigiana, da parte di alcune ideologie politiche. Perché si ha difficoltà a considerare questo passato una storia comune?

– In Istria, cercando quella foiba di Vines che non riuscivo a trovare, continuavo ad imbattermi in monumenti ai caduti di quella che, nella mia testa, chiamavo occupazione tedesca, ma che le targhe chiamavano invece occupazione italiana e tedesca. Io avevo le storie dei miei morti da cercare, quelle targhe mi facevano altri nomi. Il cimitero di Santa Domenica di Albona parlava chiaro: non c’erano solo le tombe degli infoibati, ma anche quelle dei morti fatti dai nazifascisti nell’ottobre del 1943. Lo storico Elio Apih scrive «Bisogna essere stati in Istria, nell’ottobre 1943 (ed io vi sono stato) per capire cosa significava l’espressione ‘atmosfera di morte’. Seicento, forse mille gli uccisi dagli insorti slavi e comunisti, poi vengono i tedeschi e quadruplicano, spesso sparando su quanto si muoveva. Non ci fu famiglia, in certe zone dell’Istria, che non pianse un suo membro morto, e non pochi paesi dovettero ampliare il proprio cimitero».

Molti testi che ho letto sulle foibe del ’43, invece, decidono di raccontare una storia parcellizzata: c’è il periodo degli infoibamenti, e poi arrivano i nazisti e tutto finisce, come se tornasse la pace. Alla faccia della pace!

– Come venirne fuori?

– Io ho deciso di raccontare tutte le storie. I morti che ricordiamo noi, e i morti che ricordano loro. Di raccontare le vicende che quel piccolo cimitero, quello di Santa Domenica di Albona, mi raccontava: la grande strage della tragedia mineraria dell’Arsa nel 1940, le foibe, l’operazione litorale adriatico del periodo nazifascista… e l’esodo: quello lo raccontavano le tombe abbandonate, quasi divelte, a cui nessuno portava più un fiore da chissà quanto.

L’Istria è un luogo stupendo, è stata una regione multietnica prima che esistesse lo stesso concetto di multietnicità: è stata ferita a morte da chi ha deciso di soffiare contro la convivenza delle etnie, il fascismo prima, e poi il comunismo che, per quanto sia a parole internazionalista, a quella convivenza ha dato il colpo finale.

– Nella sua articolata analisi delle vicende di quelle terre, e mi riferisco alle travagliate vicende dell’ultimo dopoguerra, le ricorda il meccanismo del victim blaming, perché è ancor oggi, e questa volta mi riferisco anche alle cronache recenti,  così facile che le vittime siano considerate dei colpevoli?

– Il meccanismo del victim blaming è qualcosa che le donne conoscono da sempre, la colpevolizzazione della vittima è un classico, pensiamo all’idea ancora diffusa che lo stupro venga “ispirato” dalla vittima o alle tante cronache che continuano a descrivere gli autori di femminicidio come dei poveri disperati che hanno reagito così perché abbandonati dalla moglie. Nel libro, però, lo cito in un altro contesto, a proposito del lungo pregiudizio che ha gravato sugli infoibati, come se il fatto di essere stati uccisi fosse sufficiente a suggerire che, in fondo, qualcosa avevano fatto, che, in un certo modo, dovessero “rendere conto delle loro malefatte”. Ma il mio bisnonno aveva un negozio di alimentari, suo cognato era un imprenditore che non riusciva a partecipare alle gare d’appalto perché non aveva la tessera del partito fascista. Con loro sparì un’ostetrica, nella vicina foiba di Terli tre sorelle di cui una incinta all’ottavo mese. Come si fa ad andare a distruggere targhe dedicate a queste persone, di quale malefatte vogliamo incolparli?

Ricostruendo le vicende nelle campagne dell’albonese emerge la figura di Mate Stemberga, un contrabbandiere a cui il Partito Comunista Croato diede il compito di coordinare la lotta nella zona d’Albona, esautorando gli antifascisti locali, i cui vertici erano italiani. Mate Stemberga avviò una serie di eccidi che nulla avevano a che vedere con la lotta partigiana, e per cui i vertici antifascisti protestarono, inascoltati, ignorati e messi da parte – basti pensare alla fine che fece Lelio Zustovich, capo del Partito Comunista di Albona, che entrò in conflitto coi croati la cui lotta, sosteneva, era unicamente nazionalista. Lelio Zustovich, antifascista da sempre, due anni di confino politico, fu deportato dagli slavi nel 1944 e il suo corpo non fu mai ritrovato.

– Per rivenire alla sua esperienza personale. Lei spesso mette, nel suo testo, in parallelo la sua condizione di nipote e figlia con quella, attuale di madre. Qual è il peso della memoria nel suo essere donna e madre?

Ricercare le origini, tentare di ristabilire una verità sul proprio “romanzo personale dei nevrotici” è un vero e proprio leit motiv della scrittura delle donne, forse il libro-monumento su questo è Menzogna e sortilegio di Elsa Morante – ma quanti capolavori scritti dalle donne esistono che cercano di situare se stesse in una linea che attraversa la storia, quante autobiografie che diventano, di fatto, una “autobiografia degli altri”, perché sanno che noi altro non siamo che il prodotto, il risultato di ciò che c’è stato prima di noi.

Io, da una parte, avevo una storia lineare: una nonna staffetta partigiana, un bisnonno comandante partigiano, libri scritti dal mio bisnonno, interviste a mia nonna, qualche migliaio di serate passate con lei che mi raccontava della sua vita. Dall’altra parte, quella paterna, invece, non sapevo nulla, avevo solo vaghi indizi: l’Istria, un padre problematico, una nonna che sembrava avere passato la sua vita vegetando in un’apatia depressiva, una costante guerriglia tra mio padre e lei. E andando a ritroso finivo sempre lì, alle foibe, al momento in cui mia nonna era diventata ciò che era: quel momento che le aveva cambiato la vita, destinandola a una non-vita; e che l’aveva resa la madre che era stata, e che aveva fatto diventare mio padre quello che era diventato, e poi, risalendo, si arrivava a me, l’ex bambina che passava ogni mese d’agosto con un padre anoressico e una nonna incomprensibile.

I traumi si allentano, ma, se non affrontati, si trasmettono di generazione in generazione, sotto forma di incomprensibili rancori, di nevrosi; poi, quando arriva una figlia, l’unica cosa che sai dire è: vediamo se riesco a interrompere la catena, almeno questa catena.

Anche se a volte la verità non si trova; ma basta cercarla, basta nominare le cose, guardarle in faccia, dar loro un nome, perché certi dolori lontani all’improvviso diventino ciò che sono: lontani.

 

Silvia Dai Pra’

Senza salutare nessuno

Un ritorno in Istria

Laterza 2019

 

 

 

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