di Annibale Fanali
Ho articolato il mio breve intervento a partire da alcune parole dell’en-ciclo-pedia di Jacques Derrida, che hanno dato un senso più complesso al mio modo di essere psichiatra e psicoterapeuta. Le parole che ho scelto sono decostruzione, differenza, logocentrismo, cornice, smarrimento e rimpatrio.
Decostruzione
Un mot-carrefour direbbe Sérres[1] che per me si incontra con deistituzionalizzazione e pratica antistituzionale. “Decostruzione”, è bene subito precisarlo, non “decostruzionismo”. Mentre la decostruzione è un processo, il decostruzionismo è una teoria. Come Clifford Geertz, Derrida non ama gli “ismi”. Per Derrida infatti decostruzione “resiste alla teoria perché dimostra l’impossibilità della chiusura, ovvero della chiusura di un insieme o di una totalità entro una rete organizzata di teoremi, leggi, regole e metodi”[2]. Rovatti fa anche qualcosa di più: per evitare di ridurre ogni autonoma e possibile versione come “nuovo tipo logico più generale ed astratto” intitola un numero monografico della rivista Aut Aut dedicato a Derrida, “Decostruzioni” e non semplicemente “decostruzione”.[3]
Tutto questo vale anche per un’altra parola, deistituzionalizzazione, che ho conosciuto nel corso degli anni 70 per averla direttamente vissuta e messa in pratica e che mantiene con decostruzione uno stretto rapporto. La deistituzionalizzazione non è infatti un metodo, se con metodo si intende un insieme di procedure standardizzate, né una teoria. È una pratica ogni volta unica, non legata come la decostruzione alla globalità, ma alla singolarità e alla “località”.
“Istituzione negata” e “istituzione inventata” sono i termini con cui si è denominato un processo di apertura che ha portato all’emergere non soltanto del possibile, ma di ciò che non era previsto, l’impossibile. Impossibile, una delle parole simbolo di Derrida. Se mi avessero detto che quel mondo, il “manicomio”, si sarebbe dissolto nel giro di pochi anni, non ci avrei creduto. È infatti accaduto qualcosa che allora non avrei mai potuto prevedere.
La negazione: “mi non firmo”, quando Basaglia il primo giorno a Gorizia si rifiutò di firmare il registro delle contenzioni è emblematica, un marchio, direbbe Derrida. Cosa succede se non si contiene? Un tema scottante che si ripropone anche oggi. Cosa succede se si tengono le porte aperte? O ancora, cosa succede se si decide di non fare i TSO nel lavoro territoriale dopo la 180? È in questo modo che si apre la strada alla disseminazione. Negazione quindi come primo, determinante passaggio di un processo. Negazione della realtà istituzionale e della rassegnazione che l’accompagna: non è vero che questo mondo, è intoccabile e indistruttibile, perché il mondo può essere anche diverso; questo mondo si può cambiare e oltrepassare, pensando ed affermando ciò che nelle istituzioni è indicibile e inconcepibile rispetto a ogni consapevolezza storicamente determinata.
Attraverso la negazione emergono le strutture portanti dell’esclusione, su cui abbiamo agito per smontarle ed abbatterle e, con l’apertura delle contraddizioni che ad essa sono seguite, si è avviato un percorso a spirale, che ha dato i suoi frutti. Oggi il manicomio, come istituzione, che ha il potere di pianificare sistematicamente la distruzione di esseri umani, dopo una vita di segregazione, dalla prima crisi al tavolo di dissezione, non c’è più. Ma come ci insegna Derrida la decostruzione non finisce mai. Il rischio del manicomialismo, e non il manicomio in senso stretto, è sempre purtroppo presente. Bisogna continuare senza mai fermarsi, sempre agendo, in modo pragmatico ed evolutivo e non puramente applicativo, come accade quando l’attività pratica è sempre preceduta da una teoria che si presenta come un ordine ideale assoluto già predeterminato nelle cose, come una struttura naturale, non fondata culturalmente, predeterminata e indipendente dagli eventi e dai soggetti concreti e che proprio per questo si caratterizza come una pratica senza critica.
Nella decostruzione c’è nella singolarità di ogni situazione specifica, l’apertura verso un orizzonte relazionale che perturba e destabilizza l’esistente, le sue regole, i suoi statuti, e pur non evitando le cristallizzazioni che di volta in volta si formano, continua a sottoporle ogni volta alla critica destabilizzante.
Nell’esperienza antiistituzionale in questo modo abbiamo prodotto innovazioni non soltanto utilizzando e applicando conoscenze teoriche elaborate altrove, ma facendo riferimento a conoscenze che, come dice O. De Leonardis[4], erano “costitutivamente locali, puntuali, ancorate al contesto concreto e alla materia specifica”. Per questo la pratica di negazione manicomiale non ha prodotto modelli normativi e generalizzazioni: se li avesse prodotti non avremmo potuto più considerarla una pratica della complessità perché, secondo le affermazioni di Morin, sarebbe entrata in contraddizione con sé stessa. Tali conoscenze si sono prodotte con la curiosità del quotidiano e con la sosta davanti al minimo, guardando i problemi da vicino, non in modo astratto o distratto, né con quello “sguardo da lontano”, oggettivante, che si caratterizza per la freddezza e il distacco dell’osservatore esterno e neutrale. Perché le istituzioni, ancora oggi, si superano destrutturandole dal di dentro, con la continua concatenazione di perturbazioni evolutive a partire da una realtà sulla quale agire perché, come afferma lo stesso Derrida, “non c’è stabilità assoluta, eterna, intangibile, naturale. Una stabilità non è una immutabilità, è per definizione sempre destabilizzabile”[5]. Un’affermazione non ontologica, ma epistemologica che chiama ad un movimento incessante di azioni all’interno di un contesto e di conseguenti ricontestualizzazioni. Cercando sempre e soprattutto le differenze e andando oltre la compattezza di una realtà apparentemente indecostruibile. Si parte in sostanza dai dati dell’esperienza nella vita quotidiana dell’istituzione o dagli esiti di un processo per ricostruirne le condizioni. L’analisi può essere faticosa, ma con pazienza e con umiltà si affronta passo passo ogni singola concrezione cristallizzata, “metafisica”, per poi cominciare a trattare con atti concreti quella materia, quella forma di vita, rielaborandola e trasformandola direttamente nel contesto, perché la “posta in gioco non è solo un sapere, ma un modo di vivere”[6]. Ma ogni forma di oltrepassamento può accadere anche nel gioco che si apre sul confine tra il dentro e il fuori di ogni istituzione. Un salto verso i confini deve pur essere praticato. Rendendoli permeabili, approfittando della loro acquisita porosità per consentire passaggi dal dentro al fuori e viceversa dal fuori verso il dentro: l’unico modo concreto ed efficace per trasformare le chiusure istituzionali in qualcosa d’altro. Franco Basaglia scrive nelle Conferenze Brasiliane: “Rendere visibili gli invisibili è stato un imperativo categorico… Giorno dopo giorno, anno dopo anno, passo dopo passo, disperatamente trovammo la maniera di portare chi stava dentro fuori e chi stava fuori dentro”.[7] In “entrare fuori” ed “uscire dentro”[8] (espressioni dal sapore paradossale) c’è qualcosa di più. Per chi sta dentro, entrare fuori significa rientrare nel tempo, entrare nel mondo da cui è stato escluso, entrare in relazione. «Chi sta chiuso percepisce il fuori non come un’uscita ma come un’entrata in uno spazio libero”. Diversa è la condizione di quelli che stanno fuori ed entrando escono dentro, perché escono dal proprio mondo per entrare in un mondo altro. Il motto “entrare fuori, uscire dentro”, è ricavato da una cartella clinica di un paziente, Nannetti Oreste Fernando, detto NOF.[9]
Differenza
Ogni fatto è l’esito di un atto. Con questa affermazione possiamo cogliere la sfumatura di significato che in Derrida esiste tra difference e differance. La prima difference è il fatto, un sostantivo dove è chiara la distinzione tra due cose. La seconda è una forma verbale, derivante da differre: una “a” che serve ad evidenziare la dimensione dinamica della differenza e che ha consentito che da un’unica radice conseguissero due effetti diversi. Una “a” quindi la cui identità in quanto differenza, non può essere racchiusa in una definizione statica ed immobile, e che, per i suoi effetti destabilizzanti, implica la sua inclinazione al gioco e all’avventura. Una “a” indispensabile, come abbiamo visto, per agire sulla compattezza e impenetrabilità del logos istituzionale. Con il differimento inoltre (e la temporalità che lo caratterizza) si può oltrepassare il pensiero della contraddizione, in quanto con la temporalità è possibile il passaggio alla relazionalità e grazie ad essa alla complementarità che, con il gioco circolare e ricorsivo degli opposti e ai rapporti di differenza che intrattengono reciprocamente, consente contaminazioni creative e sviluppi impensabili.
Chi ama la dialettica, come Derrida, si muove in quest’ottica. Un altro studioso in un altro campo lo fa: Boszormenyi Nagy con il suo approccio dialettico e contestuale alla psicoterapia. Per privilegiare la relazionalità bisogna amare il dialogo. Non a caso Morin, il grande teorico della complessità preferisce parlare di “dialogica”. Dialogica perché due logiche, due nature, due principi sono connessi in una unità senza che con ciò la dualità si dissolva nell’unità. [10] Ma il dialogo non è al centro del pensiero di Derrida. Al centro della sua riflessione “decostruttiva” c’è il “logocentrismo”. Con tutte le conseguenze che possono derivare dalla decostruzione di questa parola.
Logocentrismo
Un altro mot-carrefour, che si incrocia o genera altre parole: fallologocentrismo; dirvorazione. E che ha a che fare, come per la decostruzione, con il tema della metafisica che, Derrida, sulla scia di Heidegger, ha sempre cercato di oltrepassare, per il suo amore per la “dialettica”, un amore anche mio, viscerale ed antico. Una parola, la dialettica, da sottoporre al vaglio della decostruzione. Solo agendo sulla compattezza del logos si può pervenire alla “decostruzione”, un termine/strumento prezioso che appare ogni volta che si intravede all’orizzonte una condizione di “possibilità”. Ma per farlo il filosofo, come anche lo psichiatra, deve rinunciare a un sogno di purezza, che corrisponde alla tentazione della totalità come valore. Ma che valore ha la totalità o la conoscenza senza infinito? L’attacco al logos, come parola e come pensiero, si muove insinuando in esso una differenza, attraverso la differance, che permette il dinamismo e la proliferazione del differente e che differendosi continuamente va oltre non solo rispetto alla centralità del logos ma anche, come prima ho detto, alla tensione conflittuale del pensiero della contraddizione. Questo differimento si produce come disseminazione. Il logos è alla fin fine un testo, e il testo viene destrutturato all’infinito: il testo, muovendosi sul terreno scabro del linguaggio reale, e rimanendo ancorato all’immanenza della realtà, si decostruisce e genera morceaux, la cui ricombinazione si apre verso testi/percorsi di senso alternativi, trasformandosi in pre-testo sul quale si va a costruire un secondo testo, che a sua volta diventa pre-testo e così via all’infinito senza mai giungere alla ruvida e accidentata densità del senso. “Il senso è sempre in cammino”, si può dire parafrasando una frase depositata nei “canonici” testi dell’ermeneutica. In questo movimento non si ritorna mai a qualcosa che già c’è, ma si va sempre e comunque verso qualcosa che manca. Nel nostro modo di intendere la psicoterapia il testo della terapia è aperto e decentrato, va oltre i confini del testo paradigmatico. Nuovi “centri”, nuovi nodi si formano nella rete dei significati per forme di scelta/interesse (non sempre definitive) da parte degli attori della terapia.
Ma ciò che ora sto dicendo riferito alla psicoterapia e al rapporto con il paziente nella relazione terapeutica, non è privo di nessi, voglio ripeterlo, con quanto è avvenuto nella psichiatria antiistituzionale nei confronti del paradigma psichiatrico oggettivante (paradigma nell’accezione di Kuhn), e rispetto al valore e al significato della voce inascoltata e negata del paziente “dirvorata” nelle pratiche oggettivanti. Con la rottura del paradigma si è prodotto il passaggio, sempre tormentato e quindi ancora non concluso, dal modello clinico oggettivante ad altre visioni, che oggi si aprono ad una visione integrata bio-psico-sociale, tuttora in corso di elaborazione e che considera al centro del sistema di cura il paziente nella sua interezza e nella complessità della sua esistenza. Per quanto riguarda il rapporto del logocentrismo con la voce il suo superamento è rappresentato dalla negazione nell’approccio al paziente del linguaggio monologico che vive peraltro in una relazione stretta e vincolante tra parola e scrittura nel senso che il rapporto tra parlanti è codificato e sedimentato nella forma depositata sui manuali del paradigma psichiatrico dominante nei quali si conferma e si trasmette il sapere disciplinare, che si configura come sapere istituzionale, come paradigma.[11] Stiamo parlando di un sapere sovraordinato (“la figura che la scrittura introduce all’interno della tematica del linguaggio è quella dell’istituzione”[12]) che si fonda sul valore d’assenza, l’assenza del referente, dell’emittente e del destinatario.[13] In questo caso la tecnica come metodo, come modello, come “scrittura” si separa dalla storia della sua formulazione per diventare puramente applicativa.
Ma nella relazione si producono altri inquietanti interrogativi, nei percorsi della decostruzione. L’altro quando oggetto subisce un gesto di appropriazione, questo è chiaro. Ma questo non può avvenire anche quando l’intenzione è autenticamente soggettivante? Derrida, un maestro nella complicazione di ogni forma acquisita, in un seminario sull’ospitalità arriva a parlare dell’altro come ostaggio e di “struttura di ostaggio”, quando ciascuno può perfino diventare l’ostaggio dell’altro. Se questo è vero entrambi, allora, terapeuta e paziente, arrivano a sperimentare questa possibilità.[14] Ma è il momento che cambia, perché siamo in una fase diversa dell’esperienza decostruttiva, ed anche in un punto diverso del suo percorso. E questo anche per capire che il processo decostruttivo è sempre in cammino. La sua caratteristica, come abbiamo visto, è l’errance.
Cornici, confini
Questo aspetto ci porta a dare uno sguardo al problema delle cornici, come pratica e come rapporto tra dentro e fuori nel dispiegarsi dei processi all’interno della relazione terapeutica. Le cornici in Derrida non chiudono soltanto, creando immobilità, si aprono all’esterno, funzionano in senso osmotico, hanno una qualità porosa (che non è la stessa cosa di confonderle o mescolarle) la cui presenza favorisce le oscillazioni e gli sviluppi. Quando non si può più fare affidamento alla linea retta o circolare che circonda uno spazio omogeneo e ben definito da confini rigidi, come invece avviene nei processi decostruttivi, le cornici possono traboccare e dilagare, lussare “il corpo stesso degli enunciati nella loro pretesa alla rigidità univoca o alla polisemia regolata” ed essere “una paratoia a un doppio senso” dove il dentro e il fuori perdono la loro nitida purezza. In questo senso il rapporto tra dentro e fuori si caratterizza sia come gioco che come differenza (nella sua accezione di differance) quello che in “Della Grammatologia” Derrida ha anche chiamato supplementarietà. Il formarsi cioè di un supplemento che inserito in una catena di supplementi perturba il dentro in una catena infinita di rimandi. Se il testo nella relazione ha questo carattere di apertura, non c’è però nemmeno un metacontesto che vada bene per tutte le stagioni[15]. Ragionare sul testo, sul contesto o sul metacontesto non è, nel pensiero di Derrida, un punto di arrivo, ma solo momentanea riflessione per fare il punto su quanto sta accadendo in un determinato momento, peraltro condiviso, nel corso della relazione. Analogamente a quanto avviene quando occorre sostare “a cavallo di un muretto”[16] per osservare contemporaneamente un sotto ed un sopra o un al di qua ed un al di là. Il terapeuta e il paziente, sono l’uno accanto all’altro per osservare ed osservarsi, nelle pause autoriflessive. L’importante è non perdersi e mantenere sempre vivo lo spirito critico.
Se nella relazione con l’altro le cornici hanno quindi il senso di un confine, cosa si produce nell’incontro psicoterapeutico? E cosa succede quando si affronta un ignoto che non riguarda soltanto il paziente ma anche il terapeuta? Il consiglio di Whitaker è il moving in e il moving out. Ma approfondiamo la cosa in senso derridiano. Rovatti, ne parla a proposito della “luce nera”: una metafora che si incontra in alcuni tra i più importanti saggi di Derrida, poi raccolti in La scrittura e la differenza. In particolare, nel saggio in cui Derrida discute l’interpretazione data da Foucault al cogito cartesiano e in quello dedicato a Lévi-Strauss. Cosa fare di fronte all’ignoto? Girare le spalle deviando o accettare lo smarrimento? Cedendo così, in questo secondo caso, alla seduzione dell’ombra per lasciarsi “risucchiare nel mondo negativo della notte, del buio abissale, del vuoto?”. Derrida accetta lo smarrirsi senza però “cedere alla seduzione dell’ombra al di là della luce”. Derrida “rimpatria”, ritorna indietro sui propri passi. Ma non nello stesso modo di Descartes. Il rimpatrio per Derrida è indefinito ritorno sui propri limiti, che perciò stesso non sono mai gli stessi da cui è partito e da cui si è allontanato. L’iter di iterabilità è sempre anche alter, cioè non solo ripetizione ma anche alterazione. Derrida non rientra in una neutralità, la sua precedente, comoda e che mantiene la sua precedente purezza, ma – in un circolo non virtuoso, evolutivo, spiraliforme – accetta la sfida di una nuova realtà, contaminata dall’esperienza della notte, che “apre le faglie e rende porosa la lingua”, dice Rovatti, accogliendo vortici e spiazzamenti.[17]
Una frase sintetica convincente di Rovatti[18]: la sua è una “oscillazione del pensiero tra normalità del rimpatrio e folle audacia dello spiazzamento” con l’esperienza contaminante dell’alterità. Lo spiazzamento: l’apertura verso ciò che fa vacillare il senso, l’avvicinarsi all’oscurità perturbante, al versante notturno della parola. Quando oltrepassiamo il confine rassicurante del noto per esplorare l’ignoto è normale provare un indefinibile senso di inquietudine. È l’esperienza dello smarrimento. Ma se proviamo, lentamente e con gradualità, ad addomesticare l’ignoto e se cerchiamo di illuminarlo, quando i soggetti in gioco nella relazione cooperano e interagiscono, vivendo anche come un movimento, uno scarto (il clinamen di Lucrezio in De Rerum natura) rispetto alla immobilità statuaria della relazione frontale, ed a nominarlo per renderlo più accessibile e meno misterioso, a “chiaroscurarlo” insomma, anche il malessere, come anche lo stupore, che accompagna questa esperienza, possono attenuarsi. Ho parlato di soggetti in gioco, non di semplice interazione tra un soggetto ed un oggetto, come avviene quando l’altro è trasparente e privo di voce, e in quanto oggetto non coopera ma è guidato, come una macchina eteronoma. Ma l’altro, è opaco non trasparente, in quanto tale è “segreto” perché “altro”[19]. Derrida in questo passaggio sostiene a grande voce il valore dell’opacità rispetto alla trasparenza e, dal mio punto di vista, vede l’alter (il paziente) direttamente compartecipe del processo di comprensione, intesa come cum-prendere, prendere insieme, coraggiosamente, nel procedere decostruttivo della relazione terapeutica.
Derrida non ama la luce che tutto illumina, non ama la chiarezza, l’evidenza, la certezza, l’indiscutibilità. Non ama chi su tutto questo erige il monumento della verità. La sua predilezione non è però anche per quella forma di rovesciamento della luce nel buio, il suo contrario perdersi nella notte, ma per il “forse” di chi crede nella verità, ed anche nella consistenza coerente di chi non rinuncia ai momenti di stabilità, precisando tuttavia che “gli amici della verità sono senza la verità, benché non vadano senza verità”.[20] Per Derrida[21], persona in questo senso decisamente umile, è infatti questo il vero “amore della verità”. In questo suo senso paradossale e aperto, che prevede l’errance, il procedere lungo il cammino, il camminare senza sentiero, tracciando il sentiero nel cammino, come anche, per non perdersi, il “rimpatrio” e le soste autoriflessive etiche ed estetiche. Il metodo in questo senso non può che avvenire nella decostruzione, attraverso la differance e non nella semplificazione, nel rifiuto cioè di ogni teoria unitaria e di ogni sintesi totalizzante e definitiva, per cercare nell’oscurità, la “chiarezza dell’intrico del suo farsi”.[22]
Questo nel suo insieme è, in conclusione, il messaggio che attraverso la lettura di alcuni testi di Derrida, ora sento “mio”. È attraverso questi testi che ho ripercorso criticamente, con una lettura del tutto personale, la mia storia di psichiatra e psicoterapeuta.
[1] “Una parola del linguaggio ordinario che gioca un ruolo cruciale, assumendo un significato del tutto singolare e costituisce un incrocio di più piste tematiche”. Per esempio: ponte, declinazione, biforcazione (Rignani O., Metafore del corpo postumanista: Michel Sérres., Milano, Mimesis, 2018)
[2] Derrida J. Come non essere postmoderni, Milano, Medusa 2002, pag. 46
[3] Rovatti Pier Aldo, “L’uso delle parole. Decostruzione”, Aut Aut, 327, 2005
[4] De Leonardis O., Il terzo escluso, Milano, Feltrinelli, 1990.
[5] Derrida J., “Verso un’etica della discussione” in Limited Inc., Milano, Cortina, 1999
[6] Maurizio Ferraris, Introduzione a Derrida, Bari, Laterza, 2003
[7] Basaglia F., Conferenze brasiliane, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000.
[8] https://boink.noblogs.org/post/2009/12/08/entrare-fuori-uscire-dentro/. Negli anni ’90 un convegno a Roma nell’ex manicomio S.Maria della Pietà, dove è oggi visitabile nel padiglione 6 il Museo della Mente a Roma, “Entrare fuori, uscire dentro”.
[9] Durante il ricovero nell’ospedale psichiatrico di Volterra, il Nannetti ha prodotto un libro graffito nel muro del reparto Ferri, lungo 180 metri per un’altezza di 120 cm. inciso-scolpito con tante fibbie del panciotto che era parte della divisa del “matto” di Volterra. Il “libro di muro” di N.O.F. (Nannetti Oreste Fernando), nel cortile del reparto “per giudiziari” Ferri, dobbiamo considerarlo come un lavoro prodotto dall’emarginazione che è durato quindici anni. Se non avesse scritto ed inciso questa sua monumentale opera, non avremmo conosciuto la grandezza di questo personaggio manicomiale, umile ed escluso, ma non dal suo mondo poetico e immaginifico.
[10] Morin E., “Le vie della complessità”, In Bocchi G., Ceruti M., (a cura di), La sfida della complessità, Milano, Feltrinelli, 1985.
[11] Vegetti descrive l’omologia tra l’occhio freddo della dissezione (alla base della medicina antica nella tradizione galenica c’era la conoscenza anatomica ed anatomopatologica) e la scrittura. “Lo stilo si infigge indifferentemente nel torace dell’animale e sulla pagina del trattato”. Lo stilo, anche sul piano etimologico è in qualche modo connesso, dice Serres in Hermes V, con distinguere che ha il suo corrispondente latino in stinguere, dall’area semantica di stimulus e di stylus. Perché si abbia una forma precisa è necessario che sia preliminarmente incisa, tagliata, decisa. Si incide la materia dura. Forse anche la scienza è dura perché si fonda sul principio di incisione. Ma la scienza “dura” non ha al cuore i bisogni dell’uomo malato o della collettività, che sono messi tra parentesi in nome della serietà scientifica e di una trasmissione asettica, precisa, univoca delle conoscenze.
[12] Petrosino S., “Del segno” in Derrida J. La disseminazione, Milano, Jaca Book, 1989 (ed.it)
[13] Derrida J., Margini, Torino Einaudi, 1997 (ed. it)
[14] Per quanto riguarda il concetto derridiano di “struttura di ostaggio”, cfr. J. Derrida, “Passo d’ospitalità. Quinta seduta (17 gennaio 1996)”, in Dufourmantelle A. Sull’ospitalità, Milano, Baldini & Castoldi, 2000 (ed.it)
[15] Zoletto D., Il doppio legame Bateson Derrida. Verso un’etica delle cornici, Milano, Bompiani, 2003
[16] Rovatti P.A., Le nostre oscillazioni. Filosofia e follia, Merano, Ed. alpha beta, 2019
[17] Le citazioni sono in Rovatti P.A., La follia in poche parole, Milano, Bompiani, 2000
[18] Rovatti P. A., op.cit
[19] Derrida J., Al di là delle apparenze. L’altro è segreto perché altro, Milano-Udine, Mimesis, 2010
[20] Berto G., “Illuminismo”, Aut Aut 327, 2005
[21] Derrida J., Politiche dell’amicizia, Milano, Cortina, 1994,
[22] Maria Zambrano, Chiari del bosco, Paravia Bruno Mondadori, Vedi anche la postfazione all’edizione italiana di Carlo Ferrucci