di Gianfranco Pecchinenda
Riflettere su reale e virtuale è una sfida teorica rischiosa. Nel senso comune il reale si oppone al virtuale. Se però ci soffermiamo, anche brevemente, sul significato di entrambi i termini, ci troviamo immediatamente di fronte ad alcune problematiche non semplici da definire. Quello che vorrei provare a fare in questo intervento è mostrare come il virtuale, più che contrapporsi al reale, costituisca una parte essenziale d’esso, sia un elemento imprescindibile affinché la realtà possa esistere, allo stesso modo in cui l’oblio è necessario alla memoria o la menzogna alla verità.
Per poter delineare in modo efficace il mio discorso in poche righe, sono necessarie alcune premesse. Innanzitutto è importante ricordare che ogni società produce una propria definizione della realtà. Ed è solo a partire dall’acquisizione di tale definizione, che è possibile considerare il rapporto tra reale e virtuale. Ricordiamo, inoltre, che uno dei grandi meriti della filosofia del XX secolo, è stato quello di riuscire a far accettare – soprattutto grazie alla diffusione del metodo fenomenologico – il fatto che la realtà possa avere diversi modi di presentarsi, pur senza cedere a banali quanto inutili tentazioni relativistiche. L’ipotesi delle diverse sfere di realtà, o delle cosiddette province finite di significato, con la loro accentuazione del tema dell’intenzionalità della coscienza, costituiscono un baluardo critico ed epistemologico oramai insormontabile per qualunque approccio positivista.
“La” realtà tuttavia esiste. Ed esiste oggettivamente, non solo per il senso comune, ma anche per chiunque voglia affrontare, senza necessariamente semplificare troppo, la spiegazione teorica del comportamento umano. Esiste, dunque, una realtà dotata di una sua struttura oggettiva. Essa ha una forma che si pone di fronte a noi in modo ineludubile e resistente a ogni possibile desiderio soggettivo di modificarla. Essa è lì. La possiamo percepire come esistente anche indipendentemente dai nostri organi di senso. La sua presenza è corroborata continuamente e costantemente dagli altri esseri umani con cui ci capita di interagire.
Il mio barista è un essere reale, così come lo sono il panettiere e il tabaccaio. I miei fratelli sono esseri reali. I miei studenti sono esseri reali. I miei amici, i miei colleghi, sono tutti esseri reali. Così come sono reali il caffè che bevo, il pane che mangio, i sigari che fumo, gli oggetti che tocco, le mani che stringo, le conversazioni che intrattengo, le immagini che osservo. La realtà è – come recita un celebre e indispensabile manualetto di sociologia fenomenologica – “una caratteristica propria di quei fenomeni che noi riconosciamo come indipendenti dalla nostra volontà” (non possiamo cioè farli sparire semplicemente desiderando che spariscano).
La realtà è il ponte gettato tra le sponde delle realtà possibili
Ci sono realtà più reali di altre? Il modo più semplice e più vicino al sentire comune per poter rispondere adeguatamente a una tale questione, comporta la necessità di dover introdurre almeno una prima distinzione tra realtà di tipo materiale e realtà di tipo immateriale. Le realtà del primo tipo derivano la loro oggettività dal fatto di poter vedere corroborata la loro presenza grazie al richiamo dei sensi: un oggetto materiale può essere visto, toccato, odorato, gustato, ascoltato…; quelle del secondo tipo hanno necessariamente bisogno del supporto di un determinato sistema di segni per poter ricevere una corroborazione di carattere intersoggettivo. Noi non possiamo vedere, ascoltare, toccare una società; tuttavia essa esiste realmente e la sua presenza oggettiva è indubitabile. Così come sono reali i pensieri, le parole, i suoni. La realtà ha insomma sempre bisogno di oggettivazioni, ovvero di processi attraverso cui le intenzioni soggettive degli esseri umani possano diventare accessibili agli altri membri della specie umana. La nostra vita quotidiana non solo è piena di oggettivazioni, ma è resa possibile soltanto ed esclusivamente grazie ad esse. Noi tutti siamo continuamente e costantemente circondati da “oggetti” che proclamano le intenzioni soggettive dei nostri simili.
Senza addentrarci ulteriormente in tali complesse questioni, proviamo a riflettere sul semplice gesto del barista al mattino, nel momento in cui colloca un piattino vuoto sul bancone di fronte a me, che avevo solo detto, entrando, “buongiorno Peppe”, per evidenziare come in quel semplice gesto del barista sia presente l’intenzione di preparare il caffè da far depositare in una tazzina già predisposta con lo zucchero da potermi servire sul piattino. Il fatto che io possa comprendere e condividere le intenzioni soggettive di un altro essere da un suo semplice gesto, la dice lunga sull’importanza cruciale dei processi di oggettivazione e – tra questi – della cosiddetta “significazione”, cioè la produzione umana di segni, ovvero di quelle oggettivazioni che hanno la particolarità di servire esplicitamente da indicatori di significati soggettivi.
Come abbiamo visto nel caso appena descritto, tutte le oggettivazioni (anche un semplice oggetto, come un piattino vuoto) possono essere usate come segni (disporre un piattino vuoto su un bancone può voler significare l’intenzione soggettiva di Peppe di presentarmi il caffè), anche se non sono state originariamente prodotte con questa intenzione. Vi sono però certe oggettivazioni originariamente ed esplicitamente prodotte per servire da segni. I segni sono in genere riuniti in una quantità di sistemi. Così vi sono sistemi di gesticolazioni, di movimenti corporei tipici e standardizzati, di complessi prodotti materiali lavorati, eccetera. Il punto nodale da rilevare è che i segni e i sistemi di segni sono oggettivazioni nel senso che essi sono accessibili a tutti indipendentemente dell’espressione delle intenzioni soggettive di chicchessia. Questa capacità di distacco e di astrazione dalle espressioni immediate della soggettività, è quanto di più caratteristico nell’ambito della produzione umana della realtà. I segni e i sistemi di segni sono tutti fondati sulla loro capacità di “distacco”, e possono essere differenziati dal grado in cui possono essere astratti dalla situazione dell’incontro diretto.
Il linguaggio – un sistema di segni vocali – è certamente il più importante sistema di segni presente nelle società umane. I suoi fondamenti risiedono nell’intrinseca capacità espressiva degli organismi umani, ma è possibile parlare di linguaggio solo quando l’espressione vocale è divenuta capace di distaccarsi o di astrarsi dall’immediatezza degli stati soggettivi. Pur avendo origine nella situazione dell’incontro diretto, il linguaggio è tale quando diventa autonomo e indipendente dai soggetti che lo utilizzano. Io parlo mentre penso: lo stesso fa l’interlocutore con cui sto interagendo. Entrambi udiamo ciò che ognuno dice, e questo rende possibile un accesso continuo e reciproco alle nostre due soggettività. Una vicinanza intersoggettiva che nessun altro sistema di segni è in grado di produrre. Inoltre io ascolto me stesso mentre parlo; i miei propri significati soggettivi diventano oggettivamente accessibili per me, oltre che per l’altro, acquisendo così un carattere sempre più reale. In altri termini il linguaggio rende “più reale” la mia soggettività non soltanto per il mio interlocutore nella conversazione ma anche per me stesso. Questa capacità del linguaggio di cristallizzare e stabilizzare per me la mia stessa soggettività si mantiene, sia pure con qualche modifica, quando il linguaggio è separato dalla situazione dell’incontro diretto.
In quanto sistema di segni, il linguaggio ha dunque la qualità dell’oggettività. Esso si impone a me come una realtà esterna e coercitiva. Esso classifica e ordina tutte le possibili (o quasi) esperienze, consentendomi di incasellarle in categorie generali i cui termini hanno un significato non solo per me stesso ma anche per i miei simili. Una volta classificate linguisticamente, tutta una serie di esperienze possibili diventano anonime (oltre che oggettive); esse possono in linea di principio essere identiche a qualunque altra che ricada nella categoria in questione. Per esempio, io prendo il caffè al bar: questa esperienza concreta e soggettivamente unica è classificata linguisticamente sotto la categoria “fare colazione al mattino”. In questa tipizzazione essa ha senso per me, per altri, e presumibilmente per “chiunque” (più precisamente per tutti coloro che rientrano nella categoria di coloro che fanno colazione al bar bevendo un caffè). In questo modo, le mie esperienze biografiche sono continuamente classificate secondo ordini generali di significato che sono reali sia soggettivamente, sia oggettivamente.
A causa di questa sua capacità di rendere le esperienze e i significati soggettivi in termini oggettivi, il linguaggio, trascendendo l’immediato hic et nunc, può collegare diverse sfere di realtà rapportandole a un’unica e onnicomprensiva realtà di riferimento. Per esempio, io posso interpretare il “significato” di un sogno integrandolo linguisticamente nell’ordine della realtà (giocando ad esempio un numero al Lotto). Una tale integrazione fa sì che la realtà separata del sogno possa essere trasposta nella realtà della quotidianità, diventando di fatto una parte componente di quest’ultima. Il linguaggio diventa in questo caso un “simbolo”, ovvero un segno che getta un ponte tra diverse sfere di realtà.
È solo comprendendo il senso in questo senso che è possibile introdurre il tema della virtualizzazione della Realtà, collegandolo a quello della “corrispondenza”.
Ciò che è possibile, non sempre è anche realizzabile
Virtuale è tutto ciò che è possibile (in potenza, o potenzialmente) che diventi reale. Il Reale è pertanto definibile come una manifestazione del possibile. Se osservo una partita di calcio, i pixel che rappresentano i giocatori e quelli che rappresentano il pallone, sono dei segni ai quali “corrispondono” degli esseri umani (calciatori) e una sfera, che esistono in una realtà materiale indipendente dallo schermo su cui si manifestano. I pixel simulano in questo caso la realtà. Se però osservo una partita alla Playstation, i pixel simulano qualcosa che non corrisponde a nessuna realtà di tipo materiale. Si tratta in questo caso della simulazione di una simulazione. In entrambi i casi, però, non ci troviamo di fronte a qualcosa che si oppone alla realtà, bensì ci troviamo di fronte a manifestazioni dell’esperienza integrate da diverse forme potenziali di realtà.
Si tratta in sostanza di sfere di realtà diverse; di differenti province finite di significato. Il loro manifestarsi può essere messo in relazione alla realtà (intesa nella sua corrispondenza materiale) solo attraverso i ponti simbolici che siamo in grado di elaborare attraverso tecnologie sempre più sofisticate. La più rivoluzionaria di tali tecnologie è stata – come è noto – la scrittura. La sua applicazione e successiva integrazione con altri strumenti (dalla fotografia al cinema, dalla televisione ai videogames) tecnologici, ha reso possibile una tale proliferazione di sfere di realtà, da rendere oggi assai complessa la distinzione stessa tra reale e virtuale, dando vita inoltre a notevoli confusioni teoriche, non ultima quella che vede, appunto, addirittura contrapposte una realtà (reale) a un’altra serie di realtà (virtuali), laddove pare evidente si tratta di manifestazioni inseparabili di uno stesso ambiente: l’ambiente umano.
Husserl – come spesso è accaduto – ha chiarito con alcuni esempi la diversa fenomenologia sulla quale si presentano le diverse sfere di quella che resta un’unica e irriducibile realtà: Prendiamo l’esempio di un suono – egli dice. Siamo di fronte a un “fatto percettivo”; siamo cioè di fronte a una stessa realtà oggettiva, condivisibile da tutti coloro che hanno un apparato uditivo (le orecchie) funzionante. Siamo di fronte a “questo” suono perché abbassiamo “questo” tasto del pianoforte e non un altro, e non di un altro strumento. Da un lato abbiamo una causa immediata (abbassamento di un tasto) e dall’altro una conseguenza caratteristica (avremmo potuto scegliere accidentalmente o volutamente un altro tasto e allora avremmo ottenuto un altro “fatto percettivo”), ma con caratteristiche diverse (“questo” secondo suono e non “quello” precedente). Mentre riflettiamo sulle caratteristiche specifiche dei diversi possibili suoni, ovvero delle diverse modalità in cui i suoni possono presentarsi al nostro udito, sottovalutiamo un aspetto fondamentale del processo: ovvero la realizzazione di “un” suono come manifestazione specifica di qualcosa che potremmo definire come “il suono”. Husserl direbbe che quando ascoltiamo “un” suono specifico, ci troviamo di fronte alla manifestazione di una delle possibili caratteristiche de “il” suono. “Un” suono è il contenuto della mia attenzione percettiva in un dato momento (l’hic et nunc); un accidentale contenuto che potrebbe anche mutarsi pur rimanendo e conservandosi la caratteristica universale “suono”. Percepire (o anche solo immaginare di percepire) “il” suono, sarebbe impossibile senza immaginare o percepire “un” suono. Quest’ultimo è una mera possibilità; una virtualità.
Il filosofo spagnolo Ortega y Gasset esprimeva in termini molto simili la sua concezione della realtà. I sensi – sosteneva in sostanza il filosofo spagnolo – da soli, non sono in grado di fornirci ciò che è necessario per poter esperire in maniera adeguata la realtà. I sensi e l’intuizione sensibile, senza il sostegno di quelli che lui definiva i “concetti”, sarebbero insufficienti per poterci muovere adeguatamente nell’ambiente circostante. I concetti sono letteralmente degli organi (virtuali) di cui dispone (grazie all’uso elaborato del linguaggio) l’essere umano per potersi orientare nel mondo. Vedere, secondo Ortega, non è soltanto un vedere degli organi di senso (degli occhi) ma è un vedere accompagnato dalla conoscenza formale degli oggetti che noi possediamo grazie al concetto. È “il” suono cui fa riferimento Husserl. È ciò che ci fa percepire le cose al di là della pura impressione sensoriale. La missione del concetto non consiste nel prendere il posto dell’intuizione, dell’impressione reale. “La ragione non può, non deve aspirare a sostituire la vita”. Ciò che dà al concetto quel carattere formale è il suo contenuto schematico. Il concetto trattiene solamente lo schema della cosa. I limiti della cosa, la linea in cui è inscritta la materia, la sostanza reale della cosa. E questi limiti non significano altro che la relazione in cui un oggetto si trova rispetto agli altri. Il concetto – scrive Ortega – “esprime il luogo ideale, il vuoto ideale che corrisponde ad ogni cosa all’interno del sistema della realtà.”
Il virtuale e l’essenza del reale
Virtuale, ancora, è dunque solo ciò che è possibile in potenza, ma che non può attualizzarsi in quanto realtà. Tuttavia – e questa è una delle grandi rivelazioni apportate dalla fenomenologia – nessuna realtà si presenta mai di fronte a noi priva della caratterizzazione astratta fornitagli dalla sua virtualità.
Tornando alla definizione di senso comune da cui siamo partiti, è possibile adesso comprendere più chiaramente il fatto che quella tra reale e virtuale non è una pura e semplice opposizione, bensì una vera e propria integrazione necessaria. Reale e virtuale sono due facce di una stessa medaglia. Nessun essere umano è in grado di definire o percepire il reale senza accompagnarlo con la sua definizione virtuale. La percezione umana ha una natura complessa, e presenta delle caratteristiche che al senso comune sfuggono completamente. Husserl affermava che non è possibile nessuna percezione individuale senza compiere al contempo una “ideazione” (ovvero un’astrazione esemplificativa). Noi, passeggiando nel parco, non percepiamo semplicemente un quadrupede, due quadrupedi, tre quadrupedi e così via, ma tre cani. Abbiamo una conoscenza della “caninità” (ovvero un’idea dell’essenza che definisce i quadrupedi che definiamo “cani” e non gatti, pecore, leoni etc.), di una categoria astratta (come quella di “suono”), e grazie a essa (e solo grazie ad essa) riusciamo a percepire l’individualità che ci troviamo di fronte qui e ora.
Visione dell’individuale (percezione attraverso l’organo della vista) e visione delle essenze (l’idea astratta della categoria) sono dunque intimamente connessi e congruenti, anche se designano due momenti distinguibili per la loro natura (materiale e immateriale). Non si tratta di visione “reale” e visione (o immaginazione) “virtuale”. La visione individuale è in realtà possibile anche a partire da altri atti offerenti, come la fantasia e l’immaginazione, e anche in questo caso la visione individuale e la visione d’essenza confluiscono nel medesimo atto.
D’altra parte non possiamo trascurare più di tanto il fatto che, a conferma della relatività storica dei modi attraverso i quali cerchiamo una conferma oggettiva della realtà che ci si pone di fronte, la cultura occidentale moderna si è caratterizzata per attribuire un peso maggiore alla vista rispetto agli altri sensi. Come sappiamo, infatti, l’esperienza della realtà è continuamente supportata dal nostro apparato sensoriale. I sensi, però, ci fanno percepire della suddetta “realtà” soltanto gli effetti connessi ad alcune delle loro qualità specifiche. Questo fenomeno – come acutamente evidenziava Rudolf Arnheim – è diventato patrimonio generale e condiviso solo in parte. «È vero – egli sosteneva – che quando diciamo “sento questo fiore” usiamo un’espressione semplificata per dire “sento l’odore di questo fiore”; e “sento il violino” sta per “sento il suono del violino”; viceversa, “vedo l’albero” non sta per “vedo l’immagine dell’albero”, ma l’espressione va intesa letteralmente. Si pensa, infatti, di vedere l’albero stesso»: un’idea che diventa priva di senso ed enigmatica appena ci si riflette. Il peso che, nella percezione della realtà attribuiamo alle immagini che percepiamo attraverso gli organi della vista, è tale da permetterci di affermare che ciò che vediamo riflessa non è solamente, appunto, l’immagine della realtà, ma la realtà in quanto tale. Al che non è neppure obiettabile il fatto che si tratti “soltanto” della percezione di una superficie, o delle apparenze di una realtà “altra” e più profonda che si celerebbe al di là di questa. Sul rapporto tra immagine e realtà la storia del pensiero occidentale mostrerebbe infatti alcuni percorsi abbastanza significativi e utili, ma che ci porterebbero troppo lontano rispetto ai fini più limitati che vorrei proporre qui.
Abbandonando dunque qui tale questione, vorrei ancora una volta sottolineare il fatto che l’apporto più straordinario dell’approccio fenomenologico sia stato quello di fornire un punto di partenza collocabile nella nostra situazione “reale” per eccellenza; la nostra realtà esistenziale. Io sono qui e ora. Sono situato in un luogo e in un tempo. I fenomeni percettivi che attraverso i sensi mi consentono di orientarmi, mi forniscono un sapere che è afferrabile in concetti. Essere situati significa trovarsi immersi in quello che Husserl definiva un orizzonte di dati originari composti da fenomeni reali e virtuali inestricabilmente interconnessi.
Una volta chiariti questi punti, sarà possibile affrontare con strumenti epistemologici più adeguati le (complesse) questioni che emergono dal diffondersi sempre più invasivo delle nuove tecnologie digitali nella nostra vita quotidiana.
Il fatto che i nostri sguardi e i nostri sensi più in generale siano sempre più inghiottiti dagli schermi dei nostri computer e smartphone, non implica necessariamente che la realtà sia scomparsa. È una modalità particolare (storicamente condivisa) della percezione della realtà che sta scomparendo. Si tratta di un modello di realtà, di un principio di realtà che è stato costruito nell’arco di millenni e che si sta rapidamente trasformando sotto la spinta delle tecnologie più avanzate. Affrontare in termini semplicisticamente dicotomici il “reale-virtuale”, sottovaluta l’indispensabile presenza dell’uomo e del suo essere situato (anche) organicamente. Dell’uomo-organismo inteso in senso esteso, con una coscienza intenzionale rivolta verso “province finite di significato” indifferentemente (questo sì) materiali o immateriali, vere e simulate, reali o virtuali.
La virtualizzazione può essere considerata la manifestazione di un fenomeno presente nell’ambito della cultura contemporanea, divenuta dilagante a seguito della diffusione della digitalizzazione dei processi comunicativi, in virtù della quale le modalità esperenziali rivolte ad oggetti materiali hanno cominciato ad essere orientate prevalentemente verso le rappresentazioni d’essi. Si tratta, in altre parole, degli sviluppi di una più radicale trasformazione dell’esperienza connessa ad un processo di astrazione e de-materializzazione, i cui albori possono essere fatti risalire perlomeno al periodo della nascita della scrittura, che ha reso il linguaggio “esteriore” rispetto all’uomo, facendolo diventare qualcosa che esiste in modo “oggettivo”, indipendente dall’esperienza umana del parlare. Alla realizzazione di un tale complesso processo hanno peraltro contribuito strumenti spesso eterogenei quali l’orologio (e, in misura diversa, il calendario), che ha fatto per il tempo ciò che la scrittura ha fatto per il linguaggio; quali il denaro, che ha reso astratte le transazioni e le misure di valore e di scambio, collocando le singole potenziali esperienze di transazioni materiali sotto l’ombrello dell’astrazione; quali – in particolare – la fotografia, che riguarda più significativamente una fase della storia della cultura occidentale in cui cominciava a delinearsi una nuova realtà sensibile, costruita socialmente grazie alla mediazione della riproduzione immateriale dei luoghi, delle cose e delle persone.
Da questo punto di vista, il periodo critico di trasformazione che caratterizza la recente introduzione delle tecnologie digitali è connesso al fatto che, da questo momento in poi, non necessariamente troveremo una corrispondenza tra la rappresentazione (l’immagine-digitale) di un determinato oggetto materiale e l’oggetto stesso. Ovvero, un’immagine (e lo spazio-tempo dell’esperienza cui essa rimanda) comincia ad assumere uno statuto assolutamente indipendente dalla realtà fisica connessa alle categorie spazio-temporali tradizionali. Il dibattito su questi temi ha ovviamente origini lontane nella riflessione epistemologica occidentale, e non a caso ha subito una svolta considerevole a partire dall’ampliarsi delle controversie sugli effetti sociali corrispondenti alla nascita del cinema, per poi trasferirsi all’ambito della televisione, dei videogiochi e degli altri nuovi media elettronici.
Una serie di autori, ai quali non si può non riconoscere, molto spesso, una certa tonalità apocalittica, hanno insistito sugli effetti confusionali derivanti dall’esposizione alle immagini elettroniche, parlando di “scomparsa della realtà”, di “fusione” tra realtà e finzione, e così via. Al di là dei giudizi su queste posizioni, alcuni spunti di riflessione possono risultare assai significativi, come quando viene sottolineato il fatto che, nella dimensione microscopica dello schermo, la realtà finisce per subire quella che – rifacendoci a Simmel – si potrebbe definire una sorta di abbreviazione prospettica. «Il mondo si avvicina, ma perde le tonalità emotive, la forza d’urto, infine anche il sapore».Il mondo reale viene visto come attraverso uno schermo; mentre la realtà simulata appare sempre più prossima, vicina, vera, concreta. I grossi urti del mondo esterno e l’angoscia che essi possono produrre tendono ad essere ridimensionati, riportandoli all’esperienza mediata e tutto ciò che accade al di là dello schermo appare in fondo soltanto verosimile: assomiglia alla realtà ma non è reale.
Il tema della contaminazione tra reale e virtuale, oltre ad essere divenuto in questi ultimi anni sempre più presente in molte delle principali sceneggiature televisive, cinematografiche e videoludiche, è anche stato uno tra i più classici pilastri di molta letteratura occidentale, almeno a partire dalle straordinarie avventure del Quijote in poi. Ma, restando nell’ambito del nostro discorso, come possiamo tracciare la linea di demarcazione tra i due nostri ipotetici universi, in una cultura così tecnologizzata?
Norbert Elias in uno degli ultimi lavori pubblicati prima della sua scomparsa, richiamava l’attenzione degli studiosi di scienze sociali sulla necessità di dover affrontare più analiticamente lo sviluppo socionaturale degli esseri umani, enfatizzando in tal senso la centralità – talvolta considerata troppo superficialmente, se non addirittura trascurata – del processo di emancipazione simbolica che ha consentito all’uomo, nel corso di un lungo processo di civilizzazione, di rendersi indipendente dalle costrizioni dettate dal mondo della natura.
Lo studio della capacità tecnica umana di creare simboli e di comunicare attraverso di essi, che può essere considerata un risultato unico della cieca inventiva della natura, avrebbe potuto fornire secondo Elias un’immagine socio-biologica più adeguata sia alla comprensione delle caratteristiche comunicative dell’uomo, sia alla comprensione della formazione dei simboli come processo di sintesi progressiva. In altri termini, il grande sociologo tedesco era interessato a stabilire nella sua ricerca le modalità di esistenza dei simboli come strumenti appresi di comunicazione, in modo diacronico e nell’ambito di un quadro evolutivo che contemplasse lo sviluppo sociale come sua continuazione a un livello più alto. L’idea di fondo è quella per cui ogni concetto deve sempre essere considerato come impregnato di tracce derivanti da precedenti stadi di sviluppo sociale, ragion per cui ogni rappresentazione simbolica finisce per costituire – appunto – una sorta di sintesi progressiva rispetto ad una fase precedente di esistenza umana.
A tal proposito lo stesso Elias scriveva: “Sono necessari modelli multidimensionali delle società umane al fine di affrontare l’evidenza empirica. La difficoltà consiste nel fatto che gli scienziati sociali, e in particolare i sociologi, sono ancora prigionieri di una teoria scientifica filosofica che ha avuto inizio con Cartesio ed è stata rafforzata dai fisici dell’epoca. A quello stadio non c’era bisogno di modelli teorici multidimensionali. Tutti gli oggetti della fisica, cioè secondo molti filosofi tutti gli oggetti, sembravano appartenere ad un medesimo e unico livello di integrazione”. In sostanza la sociologia avrebbe bisogno non soltanto di sviluppare la percezione e la rappresentazione simbolica in termini processuali, ma anche e soprattutto di orientare la propria ricerca nella piena comprensione del fatto che gli eventi devono essere collocati in una sequenza di livelli di integrazione differenti.
C’è un esempio molto semplice, ma soprattutto molto chiaro, al quale amo spesso rifarmi, che forse riuscirà a rendere meglio il senso dei concetti finora espressi:
Supponiamo che io stia visitando una città che non conosco, con la pianta della città in mano. In questo caso non ho alcun problema nel distinguere tra due diversi modi di esistenza. Le strade, le case, le piazze possono essere classificate come realmente esistenti. La pianta della città è una rappresentazione simbolica di quella realtà. In questo caso non è necessario dubitare della corrispondenza tra simbolo e realtà. (…). Non è irragionevole concettualizzare la relazione esistente tra una città ed una sua mappa come una relazione tra qualcosa che esiste veramente e la sua mera rappresentazione simbolica.
Per quanto suggestiva, è però la riflessione ulteriore che di seguito propone Elias a rivelare tutta la sua straordinaria acutezza e profondità teorica:
Come merce – egli scrive – le mappe appartengono allo stesso livello di realtà della città che rappresentano. Come rappresentazioni simboliche della città, esse si pongono allo stesso tempo al di fuori della città. Ci si deve poter distanziare dalla realtà fisica della città per poter disegnare o utilizzare queste mappe; si deve, in altri termini, ascendere mentalmente a un livello di sintesi superiore a quello dell’esistenza hic et nunc della materia.
Come si può notare uno degli aspetti fondamentali che emerge dalle riflessioni del sociologo tedesco concerne proprio il fenomeno della corrispondenza tra sfere di realtà diverse. Tale diversità – viene suggerito – non andrebbe letta tanto nei termini di contrapposizione tra reale e virtuale, tra un mondo reale e “altri” mondi fantastici, quanto in base al grado di sintesi raggiunto dai simboli presenti all’interno di ognuno di essi in relazione agli altri.
Come se fosse reale
Recentemente il neurofisiologo francese Alain Berthoz ha proposto una lettura particolarmente originale utile alla chiarificazione di questi temi, coniando peraltro un neologismo – la vicariance – che ritengo assai utile. La vicariance viene definita da Berthoz come la sostituzione di un processo con un altro che conduce allo stesso fine. Si tratta di uno strumento assolutamente fondamentale per la sopravvivenza di tutti gli organismi viventi, in quanto li dota di una straordinaria capacità di creare, innovare e interagire con gli altri “con tolleranza e generosità”. Esso sarebbe anche lo strumento basilare per la formazione di quella meravigliosa capacità umana di creare mondi virtuali. “Questi mondi – egli scrive – sono quelli che l’uomo inventa nella realtà della vita quotidiana per trasformarla in funzione dei suoi desideri e delle sue credenze. Sono quelli che l’immaginazione forgia nei romanzi e nelle fiction. Sono anche quelli cui si può accedere grazie alle nuove tecnologie delle realtà digitali, affascinanti e inquietanti, in cui possiamo teletrasportarci elaborando degli avatar di noi stessi. Sono infine quelli dell’utopia”.
Essendo principalmente un fisiologo, l’autore in questione descrive nella sua opera principalmente quelle che sono le basi neurali delle diverse forme di vicariance, senza ovviamente avere la pretesa di ritenere che esse debbano anche essere considerate dei fondamenti in senso ontologico. Tuttavia questa sua prudenza, ovviamente connessa all’ancora immaturo livello di conoscenza dei complessi meccanismi sottostanti al funzionamento neuronale del cervello, spingono Berthoz ad avventurarsi nei territori dell’arte, della letteratura o della stessa sociologia, alla ricerca di quelle categorie costanti dell’esperienza fenomenica degli individui che anche noi abbiamo provato ad analizzare nel corso di questo lavoro. Uno dei punti di partenza del ragionamento proposto da Berthoz prende spunto da un esempio del celebre neurobiologo francese Jean-Pierre Changeux sulla proliferazione dei neuroni nel corso dell’ontogenesi. L’apparente confusione generata da tale proliferazione, conduce alla selezione di una serie di reti pertinenti utile al buon funzionamento dei neuroni. Questo è un aspetto fondamentale che caratterizza l’umano: sopravvivere andando al di là del reale, ovvero sfuggendo alle costrizioni rigide delle norme grazie alle nuove risorse di cui l’evoluzione ha dotato il suo cervello, per trovare delle soluzioni originali ai problemi posti dall’interazione con l’ambiente o con gli altri individui. È così che ha origine quel processo di creazione di “mondi possibili” di cui l’uomo è uno straordinario specialista.
La tesi di Berthoz a tal riguardo è che la vicariance possa essere considerata una delle conseguenze dell’evoluzione del cervello umano; “l’evoluzione – egli scrive – ha favorito la duplicazione. Ma la vicariance è qualcosa in più di una duplicazione: in questo caso il vicario è un inventore. La nostra tesi è che la vicariance sia il nome di quei meccanismi del cervello che creano i mondi. In questi mondi si possono interpretare delle sceneggiature per anticipare il futuro, e anche per far sì che esso si realizzi. Grazie a questa digressione attraverso l’irreale, il cervello diventa non solo un simulatore, un emulatore, ma anche un interprete, un creatore”.
Si pensi ad un simulatore di volo per piloti. Per simulare una tromba d’aria, è necessario introdurre nei programmi del computer responsabile dei movimenti dell’aereo molteplici informazioni: innanzitutto quelle connesse alle proprietà dinamiche dell’aereo, poi quelle relative all’ambiente (la gravità, i venti, le variazioni di pressione, etc.). Tali modelli interni rappresentano un aereo virtuale, un doppio dell’aereo. Lo stesso si può dire per un simulatore di automobili o anche per i più sofisticati dei robot. Il pilota può affidarsi a esso per alcuni compiti basilari (come ad esempio la stabilità dell’aereo), in modo da potersi dedicare meglio ad altri compiti più complessi. Questo doppio virtuale dell’aereo è quello che Berthoz definisce un suo vicario, in grado di assicurare una guida automatica. È quello che egli definisce un processo di vicarizzazione. L’evoluzione avrebbe messo a punto lo stesso genere di meccanismi, creando nel nostro cervello dei “modelli interni”. Tali modelli sono delle reti di neuroni in grado di simulare le proprietà dei sistemi che essi rappresentano. Essi si trovano a tutti i livelli del funzionamento cerebrale, a partire dal midollo spinale fino alle strutture complesse implicate nelle funzioni cognitive di più alto livello. Si ipotizza, ad esempio – scrive Berthoz – che il cervelletto possieda dei “modelli interni” della dinamica degli arti. Esso consentirebbe la simulazione anticipatrice della traiettoria di un movimento prima della sua esecuzione. Altre regioni del cervello, come la corteccia parieto-insulare, parteciperebbero alla costituzione di modelli interni delle leggi del mondo fisico, come ad esempio la gravità. L’ipotesi più originale e significativa di questo suo lavoro è quella di mettere in luce che i modelli interni delle proprietà di un corpo e del mondo, siano essenziali per poter sostituire una strategia ad un’altra.
Con il suo meraviglioso linguaggio poetico, il filosofo Maurice Merleau-Ponty aveva intuito la presenza di un processo del genere quando aveva scritto che le “cose esterne” hanno un loro equivalente al nostro interno; esse evocano “una forma carnale della loro presenza”.
I modelli interni non sono, pertanto, utili soltanto per anticipare gli effetti di un gesto e per regolarlo in relazione alle costrizioni dell’ambiente. Essi hanno anche la proprietà supplementare di consentire di simulare l’azione al fine di trovare strategie alternative, o per organizzare un altro movimento per ottenere lo stesso risultato (una vicarianza funzionale), o, ancora, per poter inventare delle nuove azioni, inedite nell’ambito del repertorio funzionale normale. “I modelli interni – sintetizza Berthoz – sono dunque dei potenti strumenti che consentono al cervello di potersi astrarre da un dialogo troppo rigido con il reale”.
“Essere” senza “dover essere”: la realtà è l’esperienza di un caffè al bar sotto casa
Il nostro lavoro di osservatori (così mi piace definire gli scienziati sociali), deve sempre prestare innanzitutto attenzione alla rigorosità di un metodo che descriva i phenomena. Il che significa costringersi a rimuovere e ad evitare nei limiti del possibile ogni distrazione, inclinazione, simpatia, valutazione preacquisita nei confronti di ciò che siamo chiamati ad analizzare. Bisogna cioè osservare e descrivere il fenomeno che ci interessa: la realtà. E la realtà è una sola. E il virtuale è parte integrante d’essa. Il tutto dipende dall’interazione dei soggetti (uomini in carne e ossa, organismi viventi dotati di cervelli complessi costantemente orientati verso la realtà) con gli altri soggetti e con l’ambiente in cui tutti loro sono calati. È ad essi che dobbiamo rivolgere il nostro sguardo, esattamente come così come appaiono alla nostra coscienza… piuttosto che come noi pensiamo che dovrebbero essere.
E così, tornando al bancone del bar sotto casa da cui siamo partiti, ritroviamo la realtà del caffè così come si presenta alla nostra esperienza, piuttosto che come potrebbe o non dovrebbe essere. E cos’è quindi – in realtà – una tazza di caffè? Potremmo definirla – come brillantemente ci ricorda Sarah Bakewell – in base alla sua composizione chimico-farmacologica; dal punto di vista botanico, rispetto alla pianta del caffè, e aggiungere una sintesi di come i suoi chicchi vengano coltivati ed esportati, del processo di macinazione, di come l’acqua calda venga fatta filtrare attraverso la polvere di caffè e quindi versata in un recipiente modellato per essere presentato a un membro della specie umana che lo ingerisce per via orale. Potremmo analizzare l’effetto della caffeina sul corpo o discutere del commercio internazionale del caffè. Potremmo riempire un’enciclopedia con questi fatti, senza però riuscire a chiarire che cosa sia questa particolare tazza di caffè che abbiamo davanti. Diversamente, se avessimo seguito un’altra strada e rievocato un insieme di associazioni squisitamente personali e sentimentali – come fa Proust quando inzuppa la sua madeleine nel tè e da lì parte a comporre sette volumi –, nemmeno questo ci avrebbe consentito di cogliere questa tazza di caffè come un fenomeno immediatamente dato. Al contrario, questa tazza di caffè è un aroma ricco, a un tempo terroso e fragrante; è il pigro movimento di un riccio di vapore che sale dalla sua superficie. Quando la portiamo alle labbra, è un liquido che ondeggia placidamente e un peso nella nostra mano contenuta in una tazza dal bordo spesso. È un tepore sempre più prossimo, dopodiché diventa un gusto scuro e intenso sulla nostra lingua, che inizia con una scossa lievemente austera per poi rilassarsi in un piacevole calore, che si diffonde dalla tazza lungo tutto il nostro corpo, recando con sé una promessa di lucidità e ristoro duraturi. Questa promessa, le sensazioni già descritte, l’aroma, il colore e il gusto, fanno tutti parte del caffè in quanto fenomeno. Ed emergono tutti dal suo essere esperito. Se li trattassimo come degli elementi puramente “soggettivi”, da dover rimuovere per poter essere “oggettivi” riguardo al nostro caffè, non rimarrebbe più nulla della nostra tazza di caffè in quanto fenomeno – ossia , come essa appare alla nostra esperienza, di noi che beviamo il caffè. Questa tazza esperenziale di caffè è la sola di cui noi possiamo parlare con sicurezza, mentre tutto ciò che concerne la crescita dei chicchi e la composizione chimica sono voci riportate. Esse potrebbero essere interessanti, colte, scientificamente importanti, chiarificatrici, anche. Ma la nostra attenzione, talvolta, più che essere attratta da ciò che spiega, distingue o, appunto, chiarisce, viene sollecitata dalla richiesta di senso soggettivo, dal bisogno di significati esistenziali che prescindano da queste distinzioni logiche. È vero o è falso? È bianco o è nero? È reale o è virtuale? Talvolta s’impone l’irresistibile bisogno di un linguaggio di derivazione genuinamente artistica, di un sistema di segni che eviti che domande del genere possano anche soltanto emergere: Dicono che l’ellenismo consista nel distinguere, definire, separare – scriveva molto acutamente Miguel de Unamuno agli inizi del Novecento – io invece – come lui – preferisco indefinire, confondere.