EXAGERE RIVISTA - Gennaio-Febbraio 2024, n. 1-2 anno IX - ISSN 2531-7334

Il senso autocritico della psicoterapia. Intervista a Fabio Leonardi

di Gianfranco Brevetto

La psicoterapia si è largamente diffusa negli ultimi decenni, con essa il numero delle persone che vi ricorrono. Eppure sono tanti i lati ancora mitologici che conserva e sui quali occorre interrogarsi, chiarire, spiegare . Fabio Leonardi è autore di un utilissimo volume che affronta di petto questo argomento.

– Lei, nel suo interessante libro, pone alcune questioni che vanno, in qualche modo, controcorrente. Tali questioni sembrano venire al dunque rispetto alla natura e all’efficacia della psicoterapia. Perché ha deciso di affrontare questo tema scottante?

– Per capire da dove nasca l’esigenza di scrivere un simile libro, si deve partire dal considerare come la psicoterapia sia divenuta nel corso del ‘900 un rilevante fenomeno, non solo sul piano strettamente scientifico, ma anche su quello sociale e culturale. Inizialmente era una pratica clinica ristretta ad una piccola nicchia, guardata con scetticismo dagli ambienti scientifici e circondata da una marcata diffidenza all’interno dei contesti sociali e culturali. Col passare del tempo ha costruito una sua solidità scientifica, e ha sviluppato un rilevante “appeal” in campo sociale e culturale. Basti pensare a quanto in passato poteva essere fonte di imbarazzo e vergogna andare dallo psicologo, mentre oggi, come ha rilevato Hillman, è quasi uno “status symbol” (soprattutto nella società nordamericana). Tuttavia, tale sviluppo è stato talmente veloce che non risulta affatto consolidato, e nemmeno omogeneo: se non si vuole rimanere invischiati nei facili entusiasmi di una professione in grande espansione, e si adotta uno sguardo rigoroso, si possono rilevare inquietanti criticità strutturali all’interno della psicoterapia, accanto a indiscutibili punti di forza che la rendono ormai indispensabile, il tutto mischiato a mitologie fuorvianti, e a vecchi scetticismi ormai insostenibili.

Insomma, la realtà della “psicoterapia” è oggigiorno una realtà complessa, che per l’uomo comune risulta complicata e intricata: proprio da questa considerazione nasce il mio desiderio di provare a fare un po’ di chiarezza. In particolare, essendo un “insider” del sistema psicoterapia, dato che esercito questa professione da circa 25 anni, ho sentito la necessità di analizzare con rigore, e senza alcuna benevolenza, il complesso mondo delle psicoterapie per stabilire i punti di debolezza e i punti di forza, sbarazzando il campo da mitologie e scetticismi ormai desueti.

Devo ammettere che questo desiderio covava in me da molti anni, e precisamente da quando lessi tanti anni fa il graffiante e stimolante libro di James Hillman “100 di psicoterapia e il mondo va sempre peggio”. Hillman, psicoanalista junghiano, pur essendo molto lontano da me per formazione e visione della psicoterapia, ha avuto il coraggio di scrivere questo testo dissacrante, a tratti ironico, a tratti spietato, che non dovrebbe mancare nella libreria di ogni psicoterapeuta che voglia coltivare un sano senso autocritico. Ecco, il mio intento era spingere la riflessione in quella stessa direzione ed è fondamentalmente per questa ragione che ho scritto questo volume.

– Consideriamo il recente diffondersi del ricorso alla psicoterapia e la galassia di approcci. Spesso il paziente si trova nella condizione di non riuscire bene ad orientarsi anche perché non è informato rispetto a metodologie e finalità. Come sanare questo divario?

Certamente il numero di approcci psicoterapeutici esistenti è a dir poco abnorme: come rilevo nel mio libro, a seconda del criterio che utilizziamo, possiamo contarne da un minimo di settanta fino a diverse centinaia di modelli differenti, tutti finalizzati a curare la stessa classe di problemi.

Da un punto di vista meta-teorico (epistemologico), si deve riconoscere che questo dato abnorme può essere spiegato per il fatto che ogni fenomeno è inquadrabile da infiniti punti di vista, ognuno dei quali genera un proprio oggetto scientifico (come argomenta bene Evandro Agazzi). Tuttavia, da un punto di vista più prettamente teorico e clinico, una tale numerosità genera rilevanti perplessità e qualche imbarazzo, se non altro per il fatto che per quasi mezzo secolo i diversi approcci si sono duramente contrapposti rivendicando ognuno una sorta di status elettivo, ignari del loro status epistemologico che avrebbe dovuto indurli a tenere un approccio ben più relativista.

Ma il vero problema che genera questa abnorme numerosità, si rileva quando scendiamo sul piano pragmatico, ovvero quello della persona comune che ad un certo punto avverte l’esigenza di fare una psicoterapia, e si trova comprensibilmente sommersa da una così vasta possibilità di scelta. E’ come se, sedendosi al ristorante, il commensale si trovasse un menu di qualche centinaio di pagine tra cui scegliere la pietanza, con la differenza che quando si tratta di valutare un piatto è sufficiente leggere gli ingredienti, mentre quando si tratta di valutare una psicoterapia non esistono degli elementi di base che la caratterizzano e la rendono immediatamente confrontabile.

Quando ho iniziato a scrivere questo libro, che mi ha occupato cinque anni, l’idea è stata appunto quella di scrivere una sorta di manuale di istruzioni per scegliere una psicoterapia, onde consentire alla persona comune di potersi orientare. Ed è seguendo questa suggestione che ho cercato di passare in rassegna questo mondo. Alla fine ho scelto di evitare il titolo inizialmente ipotizzato “Psicoterapia: istruzioni per l’uso”, in quanto mi sembrava un po’ troppo “ammiccante”, e comunque fuorviante, sull’onda di una deriva di marketing che non approvo e cha lascio ad altri.

Non penso, infatti, che sia possibile semplificare lo status delle psicoterapie al punto da scrivere un manuale di istruzione per sceglierne quale intraprendere. Diversamente, ritengo sia invece utile aprire spazi di riflessione che consentano di fare una scelta più ragionata, ed è in questo senso che credo il mio lavoro possa dare un piccolo contributo.

– Ritiene possibile proporre ad una sorta di patto terapeuta-paziente in cui si chiariscano, possibilmente in modo preventivo, approcci, obiettivi, limiti della terapia?

In linea di principio, non solo è possibile, ma anche auspicabile chiarire approcci, obiettivi, limiti, senza dimenticare che in realtà sarebbe addirittura obbligatorio, in quanto le norme vigenti prevedono che ogni intervento sia effettuato a condizione di aver ottenuto dal paziente un consenso informato.

Tuttavia, al di là dell’obbligo, tra l’altro molto spesso eluso attraverso consensi formali, dobbiamo ammettere che è fonte di grande problematicità informare un individuo sulla natura e sulle potenziali implicazioni di un processo clinico come quello che si realizza all’interno di una psicoterapia. A voler essere precisi, per farlo in modo esaustivo e approfondito, servirebbe un mini-corso di diverse ore, che ovviamente è incompatibile con il setting di intervento, oppure servirebbe un testo da far leggere a casa (per certi aspetti, il mio libro rappresenta ciò che io direi ad un paziente per informarlo in generale su un eventuale processo di psicoterapia).

Il fatto che non si possa informare un paziente in modo esaustivo e approfondito, non deve però autorizzare a non farlo per nulla o a farlo in modo formale, e dunque il reale problema è come informare un potenziale paziente in modo sintetico attraverso un breve colloquio prima dell’inizio del trattamento.

In merito a questo esistono non poche problematicità sulle quali ho provato a riflettere nel mio lavoro.

In merito all’approccio, va detto che per far comprendere il proprio tipo di psicoterapia ad un “non addetto ai lavori”, sarebbe indispensabile confrontarlo con gli altri approcci esistenti, ma questo può introdurre una distorsione legata all’appartenenza del terapeuta, e su questo va fatta molta attenzione.

Rispetto agli effetti collaterali, si apre poi una riflessione assai delicata, a causa del noto effetto suggestivo tale per cui la descrizione degli effetti collaterali può divenire una sorta di profezia che si realizza, aumentando la probabilità che si manifestino e dunque aumentando la probabilità di generare un danno nel paziente. Come ho descritto analiticamente nel mio testo, riprendendo la riflessione di altri colleghi in ambito medico, si pone una sorta di dilemma insolubile: dal momento che più un paziente conosce i potenziali effetti collaterali negativi, più è probabile che li svilupperà, quanto è deontologicamente corretto privilegiare il dovere di informare se questo va a scapito della salute del paziente? E’ un dilemma piuttosto spinoso: questi autori che ho citato propongono, ad esempio, “la tecnica dell’occultamento autorizzato”, attraverso la quale chiedono al paziente l’autorizzazione a non informarlo su tutti gli effetti aversivi al fine di ridurre effettivamente le probabilità che si verifichino. Una soluzione su cui riflettere, che certamente non chiude la discussione nel merito di come informare.

Un aspetto fondamentale negli accordi preliminari tra terapeuta e paziente concerne la durata della terapia, che tuttavia molto spesso viene ignorato per definizione in quanto considerato un’incognita, apriori. E’ certamente vero che non è possibile stimare con precisione i tempi, in termini specifici, ma lo è in linea di massima, definendo arco temporale. Tale aspetto, tra le tante informazioni che si possono dare ad un paziente prima di iniziare, è certamente quella più immediatamente comprensibile per valutare l’impatto del percorso di cura e il suo costo economico.

In ogni caso, al di là di tutte queste complicazioni, ribadisco che dal mio punto di vista è fondamentale e possibile informare il paziente prima dell’inizio di una psicoterapia sull’approccio, gli strumenti, gli obiettivi i benefici, gli effetti collaterali, la durata e i relativi costi.

– Torniamo al suo libro e al titolo, nel quel prende, da un lato, in esame la psicoterapia come mito. Nello specifico, la psicoterapia come mito di conoscenza e consapevolezza del sé. Cosa significa?

Il mito della conoscenza e della consapevolezza affonda le sue radici nell’antica Grecia, alle origini della nostra cultura: a tal proposito, basti ricordare come nel luogo più sacro dell’antichità, il tempio di Apollo, a Delfi, riportava un’iscrizione eloquente sulla facciata del tempio: “conosci te stesso”. L’idea che la conoscenza di sé abbia un ruolo fondamentale per ogni individuo è dunque radicata nella nostra mitologia e nel corso dei secoli ha certamente avuto un’importanza straordinaria nella nostra cultura, trovando il suo apogeo proprio con l’avvento della Psicoanalisi, la quale ha elevato la conoscenza di sé a fattore di cura.

In tal senso Freud, che di fatto è l’inventore dell’idea di psicoterapia, rivendicava di aver scoperto un metodo di cura basato proprio sulla capacità di svelare realtà psichiche nascoste, di comprendere le cause dei nostri modi di essere e di comportarci. Sulla scia di Freud, molti altri approcci svilupparono differenti metodi, per comprendere le cause nascoste, e dunque generare quella conoscenza curativa. L’idea è sempre stata la medesima: se vuoi superare certi problemi, devi conoscerne le cause. Questa concezione ha permeato il senso comune, tanto che quasi tutte le persone arrivano dallo psicoterapeuta sospinti dalla convinzione di dover scoprire le cause per superare i loro problemi.

Nel mio testo evidenzio come questa convinzione sia fortemente discutibile, per tante ragioni.

Una delle più rilevanti è che è cambiata radicalmente la concezione della conoscenza, in quanto è venuto meno il concetto di verità da scoprire. Mi spiego meglio. Freud, era un uomo formatosi nella seconda metà del 1800, e quindi di cultura positivista, e come tale aveva un’idea di conoscenza quale “scoperta della verità”. Non a caso Freud arrivò a formulare il noto principio di corrispondenza, secondo cui solo le interpretazioni vere, quindi quelle che producono conoscenze vere, sono terapeutiche. Da qui si comprende l’infinita disputa all’interno del vasto movimento psicoanalitico tra quali fossero le interpretazioni vere e quali quelle false.

Oggigiorno, ci fanno sorridere queste dispute, o almeno dovrebbero far sorridere tutti coloro che si occupano di salute mentale, dato che è noto come si sia dissolto il concetto di verità, sia all’interno delle scienze umane che delle scienze “dure” come la fisica. Ormai è assodato che ogni fenomeno può essere inquadrato da infiniti punti di vista, tra i quali nessuno è più vero di un altro, ma ognuno può avere una utilità in funzione di determinati obiettivi conoscitivi. Quindi non si può più pensare di andare a scoprire le cause di un disturbo d’ansia, perché questo fenomeno lo possiamo vedere in infiniti modi diversi, e ricondurlo a infinite teorie diverse, nessuna delle quali sarà più vera di un’altra. E si capisce allora come l’idea di conoscenza sia decisamente relativa, tanto che è noto come, in ambito psicoterapeutico, funzionano sia le interpretazioni in un senso che il loro contrario, dato che ciò che è discriminante da un punto di vista clinico è quanto il paziente le ritenga vere, e non quanto effettivamente lo siano (ammesso e non concesso che si possa parlare di verità).

Una seconda ragione per cui risulta assai discutibile che la conoscenza sia curativa è che in ambito clinico si rileva spesso come il conoscere le presunte cause di un problema, possa non corrispondere alla sua risoluzione, e addirittura a volte possa corrispondere ad un suo aggravamento. In altri termini è evidente come la conoscenza non sia direttamente legata alla cura, tanto che vi sono approcci che curano prescindendo dalla conoscenza di sé.

Ciò non significa che la conoscenza di sé non abbia valore: al contrario la conoscenza ha sempre un valore, e soprattutto la conoscenza di sé, ma questo valore può non aver nulla a che fare con la cura dei problemi psicologici.

Esistono molti approcci psicoterapeutici basati sulla conoscenza che riportano esiti clinici positivi, ma questo non vuol dire che sia la conoscenza a produrre l’effetto terapeutico in quanto in una psicoterapia conoscitiva si sviluppa un’intensa relazione che certamente ha più probabilità di avere rilevanti effetti curativi, al di là dei contenuti conoscitivi che produce (ma questo lo sanno bene anche gli psicoanalisti laddove sottolineano l’importanza del transfert/controstransfert nel processo di cura).

– Lei ci fornisce dei validi punti di riferimento per non sentirsi spiazzati rispetto alla sua analisi, reale e sincera, delle problematiche presenti in psicoterapia. Tra l’altro ci evidenzia l’esistenza di un minimo comun denominatore da tenere presente. Di cosa si tratta?

Sebbene le psicoterapie siano un universo molto vasto, frastagliato ed eterogeneo, possiamo rilevare come vi sia almeno una cosa in comune tra tutti i differenti approcci, cioè l’obiettivo di aumentare la salute dei pazienti. Può sembrare ovvio, ma in questo caotico universo delle psicoterapie è rilevante identificare almeno un minimo denominatore comune.

In tal senso io credo che vada valorizzato il concetto di salute in ambito psicologico in quanto è necessario trovare almeno una base comune a tutti gli approcci. Potrebbe sembrare semplice e banale, se non addirittura pleonastico, affermare che tutte le psicoterapie vogliono aumentare la salute dei pazienti, ma in realtà il concetto di salute è tutt’altro che ovvio e scontato. Il mio volume, dopo una lunga disamina critica, si chiude appunto tentando di aprire una riflessione proprio sul concetto di salute, quale base comune di tutti gli approcci psicoterapeutici. Basandomi sull’ampio dibattito che ha caratterizzato la letteratura scientifica internazionale negli ultimi vent’anni, propongo un concetto di salute inteso come “la capacità di affrontare e gestire le proprie condizioni di malessere e benessere”. E’ una concezione innovativa che consente di riportare il malessere all’interno dell’idea di salute, quale stato psicologico che può far parte di una ordinaria condizione di salute: infatti è noto come qualora un individuo si trovi in condizioni disadattive, deve esperire malessere. Ad esempio, si pensi alla morte di una persona cara: se un soggetto ha un buon livello di salute psicologica, prova malessere e dolore per la morte di un suo caro. Il malessere provato è il segno che ha un buon livello di aderenza alla realtà e ha un funzionamento psicologico adeguato. Difatti, se al contrario non provasse alcun malessere, sarebbe la prova che non ha un buon livello di salute. In realtà questo è solo un esempio: la casistica di situazioni in cui il malessere è segno di salute sono numerosissime, tanto che risulta fuorviante una concezione di salute che escluda situazioni di malessere. Questa affermazione si allontana in modo diametralmente opposto da quelle concezioni utopistiche che configurano la salute come uno stato di completo benessere fisico, psichico e sociale, concezioni queste che hanno generato una patologizzazione di malesseri psicologici del tutto fisiologici, e una conseguente medicalizzazione della nostra società contemporanea, con tutte le nefaste conseguenze che ben conosciamo.

 

Fabio Leonardi

La Psicoterapia tra miti e realtà

Armando Editore, 2018

 

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