di Gianfranco Giudice
Virtuale e reale, cosa significano e cosa rappresentano queste parole? Come sempre l’etimologia ci aiuta. “Virtù” viene dal latino virtus e significa coraggio, forza, valore, qualità proprie del maschio, vir, da cui viene l’aggettivo virile. Il termine virtù di origine latina è diverso dalla virtù per i greci, areté, che rappresenta invece la forma perfetta legata all’essenza. Un uomo virtuoso è chi realizza compiutamente la propria essenza di uomo, ovvero il suo essere aristotelicamente animale razionale; dunque la virtù nella sua forma più elevata per Aristotele è la sapienza. Nel significato latino che arriva fino a noi, la virtù è invece legata alla forza, anche in termini fisici oltre che morali e intellettuali. Virtù è anche un termine cristiano; nel cristianesimo si distinguono le virtù cardinali (temperanza, coraggio, sapienza, giustizia) e le virtù teologali (fede, speranza, carità). Cosa significa virtù per un cristiano? E’ la forza che ci porta a Dio, dall’immanenza alla trascendenza; da una parte si conserva l’idea latina di forza, ma anche quella greca di realizzazione e perfezionamento, ovvero indiamento, come Dante dice nel Paradiso ( IV, 28) nel senso di conformarsi, partecipare alla beatitudine, alla gloria di Dio, cioè “internarsi”, unirsi a Dio.
“Reale” viene dal latino medievale reale, è stato “introdotto nella didattica, come relativo alla cosa (res), ora in opposizione a personale ora ad apparente, e, in epoca romantica, a ideale”( cfr. Dizionario etimologico della lingua italiana, di M.Cortelazzo e M.A.Cortelazzo, Zanichelli, Bologna 1999). Reale è la res, ovvero la cosa, che a sua volta ci riporta sempre al latino causa (il principio di ragion sufficiente nella spiegazione scientifica); le cose sono causa, hanno efficacia, ovvero sono in grado di produrre effetti, sono efficaci, sono verità effettuale nel senso di Machiavelli. Parlare di realtà significa dunque parlare di cose, che si possono toccare con mano, vedere con gli occhi, sentire, odorare, mangiare; insomma la realtà sembra immediatamente legata alla sensorialità. Il senso comune ci dice tutto questo e non paiono esserci dubbi. In effetti a ben guardare i dubbi vengono subito, se dal senso comune ci spostiamo alla riflessione filosofica. Il senso comune contrappone ideale e reale, come astratto e concreto; Platone ci insegna tuttavia che esiste anche una realtà metafisica (le idee, per esempio quelle matematiche a partire dai numeri) , non meno reale di quella fisica, anzi più reale di quest’ultima, perché eterna e non soggetta al divenire e per questo motivo vera causa/essenza ( dal latino causa/cosa) delle realtà materiali transeunti; le cause materiali per Platone sono solo con-causa delle causa ideale. L’idealismo moderno, che nasce con Cartesio e raggiunge il suo culmine in Hegel, vede nell’Idea, cioè nel pensiero, il fondamento del reale, la causa produttrice, come lo stesso linguaggio (inseparabile dal pensiero) ci mostra. Infatti è impossibile definire qualunque realtà se non abbiamo le parole per dirla, per cui senza i nomi, ovvero il pensiero, non esisterebbero per noi le cose. Quando non siamo in grado di nominare qualcosa, perché non sappiamo cosa sia, dobbiamo almeno individuarla come “cosa”, dunque dargli un nome universalmente valido per tutta la realtà-per-il-pensiero. Anche riguardo al “concreto” e “astratto”, la filosofia rovescia il senso comune, perché concreto, dal latino cum crescere, oppure cum capio, significa “crescere insieme”, oppure “prendere insieme”; dunque è concreto ciò che non è isolato dal tutto in cui vive ed in relazione al quale esiste, attraverso uno scambio vitale continuo. Astratto è invece ciò che è isolato dal tutto, a-strarre significa infatti “tirare fuori”, e-strarre. La logica analitica astrae/estrae isolando, con lo scopo di analizzare la parte del tutto in cui vive; la logica sintetica e dialettica (come insegnano Hegel e Marx) vede la relazione reciproca tra le parti dialetticamente. Il reale dunque secondo il pensiero dialettico non è mai una parte isolata dal tutto, bensì il movimento del tutto, come accade nella storia. In tal senso solo la realtà è storia (storicismo), perché ogni cosa esiste sempre all’interno di una dinamica di movimento storicamente determinata.
Veniamo al presente, cosa sono per noi virtuale e reale? Ha senso oggi contrapporre questi termini, se mai ne ha avuto? Relazioni ed esperienze virtuali, amicizie virtuali, amori virtuali e altro ancora; esperienze del genere caratterizzano il mondo attuale, il cosiddetto mondo liquido. In un certo senso la liquidità sembra un tratto essenziale di tali esperienze definite come virtuali; per cui potremmo tradurle così: relazioni ed esperienze liquide, amicizie liquide, amori liquidi e via proseguendo per liquidità varie. Cosa sarebbero invece le esperienze e relazioni reali, le amicizie reali, gli amori reali? Parrebbero contraddistinte da concretezza, solidità, durevolezza, stabilità, sicurezza e via elencando con aggettivi che indicano ciò che sta, contrapposto a ciò che passa e si consuma scorrendo velocemente. Pensiamo al lavoro attualmente; la precarietà, la precarizzazione del lavoro, sono il tratto essenziale per chi lavora oggi avendo meno di quarant’anni, ma non sempre. Un tempo l’organizzazione del lavoro e della società erano tali che, usciti da scuola o dalla università con un titolo di studio (anche solo quello dell’obbligo), si poteva sperare e aspirare ragionevolmente ad un lavoro fisso (il posto fisso), stabile per tutta la vita, fino alla pensione. Oggi non è più così, il lavoro precario è il lavoro tout court per la gran parte dei giovani; è necessario reinventarsi continuamente, cambiare, mutare, trasformarsi per adattarsi alle esigenze di un mercato del lavoro che nella globalizzazione ha come unico punto immutabile il mutamento senza fine. Se il virtuale, dall’etimologia della parola, è ciò che ha forza; allora oggi il virtuale è reale, perché il virtuale ha in sé la forza del mutamento senza fine, della trasformazione e del polimorfismo. Il reale è forza, la forza della realtà come si dice, dunque ciò che è virtuale ha virtù ovvero ha la forza della realtà all’altezza dei tempi.
Si tratta di capire cosa ci sia alle radici del virtuale/reale nel presente storico; che cos’è la forza che trascina il mondo attuale dentro uno scorrere vortico che ha abbandonato al suo destino ogni immutabile, metafisico o religioso, che viene dalla tradizione, come profetizzò Nietzsche nell’800 annunciando la “morte di Dio”? Esiste tuttavia una domanda ancora più radicale: questo cambiamento senza fine, che appare nelle esperienze multiformi del virtuale che viviamo nelle relazioni sociali ed affettive, è un cambiamento come quello di una linea che scorre irreversibilmente, oppure è una movimento in cui accanto alla irreversibilità esiste anche una ripetizione circolare che segna qualcosa che invece non muta ma è fisso, immutabile. Insomma, stiamo dentro un mutamento lineare oppure a spirale, ovvero un cambiamento in cui si progredisce girando tuttavia sempre attorno allo stesso asse fisso? Il virtuale in tal caso sarebbe l’apparire del reale, il suo manifestarsi fenomenologicamente; avrebbe a che fare con l’essenza stessa del realtà, come accade per la superficie del mare rispetto alla sua profondità, oppure la superficie di un corpo rispetto alla sua anatomia e fisiologia interna. Mai potresti separare, se non per astrazione dalla realtà, un livello dall’altro, perché la superficie è l’altro lato della profondità e viceversa. In tal senso virtuale e reale sono come la superficie e il sottosuolo del medesimo, ovvero del tempo storico presente; diciamo meglio dell’epoca della piena globalizzazione capitalistica, le cui radici affondano nell’inizio dell’età moderna.
Immaginiamo una pallina di metallo che rotola correndo lungo un canale rettilineo, fino a che non entri in un circolo chiuso, in cui il movimento della pallina continuerà perpetuo senza più fuoriuscire dalla forma circolare raggiunta. Il secondo principio della termodinamica esclude la possibilità di un moto perpetuo; eppure oggi la formazione economica capitalistica è considerata, in maniera variamente consapevole, alla stregua di un moto perpetuo dell’umanità. Indubbiamente esistono tanti tipi di capitalismo, la forma economica del capitale è essa stessa soggetta ad una evoluzione storica. Tutto ciò nessuno oggi lo può mettere minimamente in discussione; insomma esiste una storia del capitalismo ed il capitalismo è in sé stesso storicità. Quello che invece appare come un assunto indiscutibile nell’immaginario diffuso a livello intellettuale, politico ormai giù fino al senso comune, è che il modo di produzione fondato sul mercato capitalistico costituisca un orizzonte insuperabile, un orizzonte che quantomeno avrebbe i secoli contati, per riprendere il titolo di un saggio di Giorgio Ruffolo pubblicato qualche anno fa (Il capitalismo ha i secoli contati, Einaudi, Torino 2008). Quella fine della storia che più di uno annunciò ai quattro venti qualche lustro fa dopo il crollo dell’Unione sovietica sembrerebbe dunque arrivata, benché si noti oggi un certo ritegno nel proclamarla fino in fondo, soprattutto di fronte alle drammatiche contraddizioni che vive il mondo della globalizzazione capitalistica, ricordiamo per esempio l’ultima crisi finanziaria. Il nesso specifico che governa la logica del capitale è quello tra profitto e consumo individuale, fondati sul desiderio egoistico di oggetti secondo una linea incrementale indefinita. Da questo punto di vista il virtuale diventa reale, nel senso proprio del desiderio soggettivo infinito messo a regime dall’economia capitalistica che si regge sul consumo senza limiti di beni individuali. Il desiderio è virtus, forza del desiderio che rappresenta la base materiale e psicologica della reale produzione e del consumo di merci. La moltiplicazione senza fine per esempio delle relazioni di “amicizia” (amicizie virtuali) da cui possono scaturire altri tipi di relazioni e in generale delle interazioni su un social network, si nutre di un desiderio di riconoscimento e approvazione narcisistico, che fornisce la base da cui si alimentano straordinarie imprese capitalistiche generatrici di profitti come Facebook. Il virtuale si fa completamente reale, senza alcuna possibilità di separare o contrapporre i due piani, come si poteva fare in un’epoca precedente, quando la sfera economica e produttiva (l’epoca della fabbrica taylorista e fordista) non arrivava né poteva arrivare come oggi ad inglobare pienamente il mondo della vita, per usare un termine della fenomenologia husserliana, grazie alla possibilità di connessione che ogni individuo ha 7 giorni su 7, 24 ore su 24. Oggi il fiume eracliteo fatto di esperienze irripetibili, di cui parla Edmund Husserl, ovvero il mondo-della-vita, è esso stesso sussunto nell’economia capitalistica del virtualereale. Si tratta nel linguaggio marxiano di una sussunzione formale, cioè che dà forma a tutta la nostra vita, oltre i rapporti di produzione propriamente detti, perché oramai tutta la nostra vita, compresa l’immaginazione e i desideri, è un momento della produzione e della valorizzazione del capitale. Pertanto possiamo affermare che l’epoca del capitalismo attuale sia l’epoca in cui virtuale e reale, diventano due facce della stessa medaglia, ovvero dell’economia del desiderio. Ancora una volta la filosofia si mostra essere hegelianamente nelle pieghe della storia.