di Gianfranco Brevetto
La filosofia non può rischiare di divenire un mestiere, non più formazione di uomini ma specialismo astratto, indirizzato ad altri specialisti che conducono altrove la loro vita, spesso perseguendo obiettivi del tutto diversi.
– A partire da questa citazione, Il suo prezioso volume, Vita e Potenza (Cortina Editore), lascia spazio a innumerevoli riflessioni. In esso vengono messe a confronto tre tradizioni importanti del pensiero occidentale: gli stoici, segnatamente Marco Aurelio, Spinoza, e Nietzsche. Vita e potenza, come lei ci ricorda, costituiscono un’endiadi nella nostra cultura filosofica. Perché?
– Nella nostra tradizione di pensiero vita e potenza sono strettamente unite, tanto che la peggior angoscia per l’uomo d’Occidente consiste nell’essere costretto a vivere una vita in cui a dominare siano l’impotenza e la mancanza di forza. Come scrive Spinoza – lo ricordo proprio in apertura del volume – la felicità consiste nel vedere accrescere la propria potenza, la tristezza il suo rimpicciolirsi. Essere potenti è dunque garanzia della felicità della vita. Mi sembra che da Socrate in poi questa endiadi si proponga in ogni grande filosofia, e non solo in quelle che ho esaminato. Lo fa maggiormente, però, in queste tre tradizioni di cui mi occupo, che sono tradizioni propriamente etiche, non nel senso morale e normativo del termine, ma nel senso che intendono suggerire un modo per resistere agli urti della vita e operare un oculato dominio su di sé nelle avversità. Potenza va essenzialmente intesa in questo senso. Naturalmente il termine assume ben presto un significato politico e la teoria della potenza (della potestas, come scrivono i latini) domina l’orizzonte del moderno e del contemporaneo. A noi interpretare in questo modo l’idea di potenza sembra naturale, ma, come ricordo nel libro, altre tradizioni si orientano e si sono orientate in modo diverso. La potenza non si esprime in una certa attività dominante, ma – ad esempio nel pensiero cinese – nel ‘fare attenzione a che niente non sia fatto’, nel lasciar accadere, nel seguire la propensione delle cose. La forza è qui delineata come un modo di estrema passività, di capacità nell’essere ricettivi e non attivi. Ma la nostra storia è senza dubbio diversa: potentia intesa come capacità di realizzarsi e potestas come dominio si co-istituiscono. Negli autori che seguo c’è però un’interpretazione a volte molto vicina a quella orientale (basti pensare a quella stoica).
– Uno degli aspetti da lei approfonditi, e che richiama il tema di questo numero della nostra rivista è quello della cura del sé. Tema che, tra l’altro, lei ripropone citando Marco Aurelio in cui questi si dice grato alla filosofia per aver avergli insegnato ad aver cura di sé stesso. Cosa significa ed implica l’aver cura?
-Il tema della cura di sé è centrale nel pensiero stoico. Ma Foucault in alcuni suoi importanti studi (si veda ad esempio L’ermeneutica del soggetto) ci ricorda che anche per il Socrate platonico dell’Alcibiade il ‘conosci te stesso’ andava proprio declinato nel senso dell’”abbi cura di te stesso”. Questa nuova endiadi (cura e conoscenza di sé) si spezza con Descartes, secondo il filosofo francese, là dove conoscenza e verità non sono più alleate sul piano della trasformazione etica. Vale a dire: non si conosce più per operare un’indagine su chi si è e cosa si vuole, ma per giungere ad una verità meramente epistemica e intellettuale. La verità non salva più il soggetto, scrive Foucault; si può essere un grande filosofo e un uomo indecente. Questo è proprio l’elemento che, a mio modo di vedere, conduce questo autore a rileggere l’etica antica: che ruolo ha oggi la filosofia, se non riesce a trasformare noi stessi e, con noi, il mondo che ci circonda? Quale efficacia può avere? A quale etica, cioè a quali comportamenti rinvia? ‘Vero’ è qualcosa che va agito, che deve poter essere messo in opera, e non può essere inteso unicamente come un insieme di asserzioni non contraddittorie. La verità deve tradursi in azioni vere, cioè efficaci, altrimenti non è nulla.
Ecco che allora il discorso relativo alla cura di sé mi sembra che possa essere letto non come un ripiegamento psicologico verso la propria interiorità (di questo è stato spesso accusato Foucault), ma come qualcosa di molto diverso: come cura ‘ortopedica’ di sé e sguardo ‘autobiografico’ (come scrive Carlo Sini) su ciò che si dice e si fa. Cura va interpretata come terapia: terapia ricostitutiva del proprio modo di parlare, di conoscere, di pensare – dunque di agire. Cosa mai hanno fatto di diverso i filosofi?
Quando Nietzsche riprende Pindaro e la sua famosa locuzione: “Divieni ciò che sei”, spesso si dimentica che la vera dizione è “Divieni ciò che hai appreso di essere”. E questo apprendimento è possibile solo interrogandosi costantemente sul modo che abbiamo di frequentare il mondo e i pensieri sul mondo, solo operando una conversione verso noi stessi e il nostro proprio fare. Cura di sé, secondo me, va inteso così.
–Veniamo a Spinoza. In proposito lei richiama quanto Peirce ha scritto su questo grande filosofo: se Spinoza non fosse morto così giovane avrebbe elaborato lui la massima pragmatica. La potenza è quindi capacità di fare. Cosa significa? Quali implicazioni?
-Sì, la ringrazio di aver ricordato questo passaggio, che ho sostanziato con riferimenti testuali molto precisi in alcuni articoli accademici recenti. Peirce conosceva bene Spinoza – il padre della semiotica e del pragmatismo era un autore dalle competenze enciclopediche – e l’avevo subito sentito compagno sul piano dell’interpretazione dell’essenza come potenza di agire. Egli scrive che Spinoza ci ha insegnato che la credenza non consiste in una rappresentazione sensibile o intellettuale, ma “in ciò che si è disposti a fare” per seguire quella credenza. Secondo un famoso esempio: quando l’aria della mia stanza è stantia, vado alla finestra e la apro, comportandomi secondo la credenza che conduce a pensare che l’aria viziata faccia male alla salute. Il principio pragmatista non è nulla più di questo: per spiegare il significato di un concetto dobbiamo riferirci a ciò che siamo pronti a fare, e questa attitudine all’azione mostra la nostra comprensione, logica e insieme pratica, di un certo concetto. Questo è ciò che accomuna l’autore americano a Spinoza, a mio modo di vedere: l’essenza, la forma, il ‘che cos’è’ di ogni ente va interpretato a partire dalla sua capacità di produrre effetti e comporre rapporti, cioè dal suo potere. Se il significato risiede negli effetti pratici concepibili, esso si forma interamente nel lavoro di modifica dei propri abiti, nel rinvio a capacità e attitudini che devono trovare espressione nell’azione e che non possono mai essere definite con esattezza. Il pragmatismo potrebbe allora essere letto come una filosofia della potenza, nei due sensi della parola (riverberati dal greco dynamis): come attitudine, possibilità, disposizione, abilità e come potere, forza, capacità di affezione.
–Di qui a Nietzsche e al concetto di felicità, l’amor fati, l’imparare ad amare ciò che non scegliamo. Quali sono gli strumenti che il pensatore tedesco di ha lasciato e che dobbiamo imparare ad apprezzare al di là degli stigmi che spesso hanno pesato sul suo pensiero?
-Il tema dell’amor fati, dell’imparare ad amare il proprio destino, è il tema principe che seguo in questo libro, reperendolo negli Stoici, poi in Spinoza e infine in Nietzsche. Non c’è dubbio che ‘potenza’ vada letta proprio come capacità di volere il non voluto: “Così fu, così volli che fosse”, leggiamo nello Zarathustra di Nietzsche. Quanta potenza interiore ci vuole per compiere davvero questo esercizio filosofico? Una potenza – si badi bene –che aspira ad essere simile a quella del fato, dell’essere che ci circonda: omologoumenos zen, dicevano gli stoici, avere una natura capace di vivere concordemente con la natura tutta. Ho citato una famosa massima di Epitteto: “Il destino guida chi vuole, trascina chi resiste”. Io credo che Nietzsche abbia messo in opera, nella sua vita disperata ma, infine, felice (come lui stesso dice nelle ultime lettere), esattamente questo principio. Che significa: impara ad ascoltare “il diapason dell’essere” (Cioran) e a risuonare con lui. Quanta potenza potresti sprecare a resistere? E perché resistere se questo è il flusso “innocente” della vita che è stata preparata per te? Nietzsche, che nelle ultime lettere si firmava Dioniso, il suo Dio prediletto, incarna alla fine il vero senso della vita dionisiaca: quella che eternizza il piacere del divenire, che vuole veder ritornare tutto ciò che è stato, il bene e il male, ogni potenza e ogni impotenza. Perché nulla va separato, va rifiutato e, se si vuole la gioia della potenza che cresce, bisogna volere anche il dolore della potenza che declina e si annienta. Si deve, appunto, dire sì alla vita, alla vita tutta intera.
Ecco che Nietzsche alla fine della sua esistenza si accommiata con uno “sguardo pieno di gioia e buona volontà”, uno sguardo goethiano, come lui scrive. E ci consegna una visione di sé molto diversa da quella che trasmise la sorella, invaghita dalle idee naziste e pronta a interpretare la volontà di potenza in quella scia terribile e oscura.
–Infine veniamo all’ approccio alla filosofia che sottende il suo scritto. Lei scrive di voler intendere la filosofia come un lavoro di accompagnamento alla comprensione, non d’imposizione alla verità, né di critica alle interpretazioni altrui. Come questo approccio può aiutarci, noi e soprattutto le nuove generazioni che si avvicinano al non sempre facile compito di affrontare il pensiero umano?
Nel mio lavoro mi sono fatta accompagnare dall’esempio di due grande pensatici contemporanee, Simone Weil e Rachel Bespaloff. Entrambe mi hanno condotto a pensare che la peculiarità del pensiero femminile non stia nei contenuti che si scelgono e si cercano di imporre sulla scena filosofica, ma nello stile con cui si porgono, con cui si è portate a scrivere e pensare. Le due filosofe ci hanno lasciato note sparse, non trattati, nessuna tesi ‘forte’ o proposta pre-potente di un tema (filosofia di questo o di quello), nessuna contrapposizione decisa, nessun concetto folgorante che faccia luce sul palcoscenico della cultura odierna. Le due pensatrici si sono a loro volta fatte accompagnare da alcuni autori molto amati, hanno attraversato il ‘900 – un ‘900 nel loro caso straziante, che con la catastrofe bellica se le è portate via entrambe – in un modo intellettualmente profondissimo e, insieme, alla portata di tutti, agganciato alle diverse stazioni della loro vita. ‘Incroci e camminamenti’, si intitola uno dei lavori della Bespaloff. Ho pensato che anche il mio volume avrebbe potuto intitolarsi così. Il femminile è questo sguardo lieve, accogliente e includente, mai polemico, che parla di sé, prima ancora che degli autori, che ne ha cura, che sa incorporare il loro insegnamento in una vita parresiastica (coraggiosa).
Con questo stile si può parlare di ogni cosa, non solo del corpo, del genere, delle politiche femministe. Il pensiero femminile è questo stesso stile, questa attitudine a ‘pensare altrimenti’, che ci insegna che l’agorà filosofica non è un campo agonistico, e le parole della filosofia non sono punte acuminate con cui ferire l’avversario.
Rossella Fabbrichesi
Vita e Potenza
Marco Aurelio, Spinoza, Nietzsche
Raffaello Cortina Editore, 2022