di Massimiliano Padula
Si proverà, in questo breve scritto, a riflettere sull’inettitudine e sul vizio, due tematiche elaborate da Italo Svevo nel suo romanzo “La coscienza di Zeno”. Lo si farà attualizzandole nella contemporaneità orientata sempre più dalle logiche della cultura digitale per (tentare di) di dimostrare che l’umanità – 100 anni dopo la pubblicazione del romanzo – non è, nel bene e nel male – cambiata perché «non esiste un modo di essere e di vivere che sia il migliore per tutti. [L’Uomo] di oggi non è né più, né meno perfetto di quello di una volta, è diverso perché le circostanze sono diverse».[1]
Proiettarsi nel digitale
I sentimenti e le azioni negative di Zeno Cosini ispirano una riflessione intorno all’impianto teorico e retorico intorno al quale – per molto tempo – ha ruotato l’idea di digitale: essere mero strumento di deterioramento dell’umano (di inettitudine e di vizio, appunto), tanto potente da renderci stupidi o addirittura dementi [2]. A dir la verità, questa concettualizzazione apocalittica inizia ad attenuarsi già dall’inizio del secondo decennio di questo secolo, sancendo – in un certo senso – la fine del “paradigma deterministico e tecno-centrico” inaugurato più di 60 anni fa dal padre dei media studies Marshall McLuhan.
Scriveva Rheingold nel 2012:
Il futuro della cultura digitale – vostro, mio, nostro – dipende da come riusciamo a imparare a usare i media che hanno permeato, amplificato, distratto, arricchito e complicato le nostre vite. […] Invece di restringere la mia esplorazione alla questione se Google ci stia o no rendendo stupidi, se Facebook stia mercificando la nostra privacy, o se Twitter stia facendo a pezzi la nostra attenzione riducendola a brandelli […], ho provato a chiedere a me stesso e ad altri come si possano usare i social media in modo intelligente, umano e soprattutto consapevole.[3]
Si assiste, quindi, ad un riposizionamento del significato di digitale e dei suoi strumenti: da soggetti autonomi dotati di una intenzionalità perlopiù negativa, a strumentalità neutre, il cui uso (buono o cattivo) dipende dall’agire (intenzionale) dell’individuo. Questa sistematizzazione però non è ancora sufficiente per inquadrare un macrocosmo fatto non solo device o algoritmi, ma soprattutto di circa cinque miliardi di utenti attivi[4]. Il dato – ragguardevole quantitativamente – ha dei risvolti qualitativi altrettanto importanti se si pensa che, oltre metà della popolazione mondiale, è potenziale fonte editoriale. Ossia proietta[5] negli spazi digitali se stessa, contribuendo a renderli territori di bene e bellezza o, di contro, di oscurità e ingiustizia. Infatti, per una migliore comprensione antropologica della comunicazione digitale, sarebbe preferibile trattare i social media non più come esclusivi apparati tecnologici, né come messaggi o testi (essi sono anche tutto ciò), ma come pro-jecta (pro-iezioni, pro-duzioni, pro-getti, pro-cessi) di donne e uomini, di esistenze contestualizzate. Essi, pertanto, dipendono dalla progettualità delle persone, dalle loro scelte, dalla loro creatività e anche dai loro limiti. È sempre stato così: la dimensione digitale lo ha soltanto messo oggi in evidenza diventando, a tutti gli effetti, traslato dell’umanità.
Lo “Zeno” digitale
Possiamo intendere la vita di Cosini come una delle pluralità esistenziali, una sorta di idealtipo socio-antropologico che potrebbe abitare oggi gli spazi del web. La sua “malattia” – l’inettitudine – rimanderebbe a certe logiche digitali che si basano sulla dicotomia “gratificazione/frustrazione” che le reti sociali esplicitano attraverso il meccanismo dei like, dei commenti e delle reazioni. Se si è insoddisfatti della propria vita (materiale), è possibile crearne un’altra (online), costruendo nuove percezioni e liberandosi da eventuali complessi di inferiorità. Secondo uno studio del 2022[6], le piattaforme digitali stanno consentendo a molte persone di capitalizzare i propri contenuti online facendo leva sulla creatività e generando, così, la cosiddetta Creator Economy. Secondo la stessa ricerca, sono oltre 300 milioni i creatori digitali nel mondo; si tratta di un dato destinato ad aumentare e che disegnerà sempre più micro-luoghi nei quali chiunque potrà esprimersi e ridefinire lo specifico della propria esistenza. Questo scenario, di fatto, cancella potenzialmente ogni possibilità di inettitudine, perché online scelgo e decido chi e come essere e posso modularmi in virtù dei riscontri (positivi o negativi) del mio pubblico. Nonostante questa opportunità purificatrice, il web è spesso tacciato di essere luogo di ambiguità, di dipendenze e, quindi, di vizi. Ne sono esempio tutto il ventaglio di patologie e reati commettibili online[7]. Tra questi, le cosiddette addiction (le dipendenze da schermo) o i disturbi legati alla percezione distorta del proprio corpo, all’alterazione dell’identità e alla dimensione sessuale e affettiva. Si tratta di questioni entrate velocemente nella sfera pubblica tanto da configurarsi come argomenti di senso comune. In alcune circostanze, la riflessione risulta però parziale e fuorviante. È il caso di una certa prospettiva psico-educativa che tende a circoscrivere il digitale come un perimetro esclusivamente negativo e, dunque, da affrontare con un approccio terapeutico (il web fa male e, quindi, bisogna trovare una cura) o punitivo (negli spazi online si commettono reati che vanno sanzionati). In questo modo, la vita digitale è implicitamente ridotta a un’anomalia, a una stortura che, grazie a un intervento professionale – ad esempio psicoanalitico – può essere raddrizzata.
Attingendo ancora dal romanzo sveviano, viene in mente il vizio del fumo di Zeno che lo (auto)condanna a un etichettamento, a una ripetuta stigmatizzazione, secondo i parametri di giudizi tipici della società dell’epoca. Oggi, probabilmente, in una realtà sociale iper-complessa e caotica, nella quale la condizione digitale diventa la dimensione dell’agire privilegiato, Zeno non vivrebbe sensi di colpa né si sentirebbe inadeguato. Vivrebbe, cioè, la paura e l’angoscia nel modo in cui sono vissute nell’adesso, ossia come condizioni costitutive (normali) di un vivere sociale imprevedibile e difettoso. La pandemia da Covid19, ma anche i conflitti geo-politici e le crisi ambientali, hanno, infatti, contribuito a rendere il presente strutturalmente incerto e, quindi, atto ad essere vissuto con strumenti differenti da quelli di un secolo fa. Lo Zeno digitale è, pertanto, un individuo dell’oggi, incompiuto, nevrotico, frustrato, ma anche in grado di riscattarsi e di fronteggiare l’incerto attraverso meccanismi di adattabilità, contingenza e relativizzazione della negatività
Concludendo: elogio della comprimarietà
«Ti sei accorta anche tu, che siamo tutti più soli? Tutti col numero dieci sulla schiena, e poi sbagliamo i rigori. Ti sei accorta anche tu, che in questo mondo di eroi nessuno vuole essere Robin». Si sceglie di concludere questo contributo citando una canzone di Cesare Cremonini del 2017, un vero e proprio inno a non essere sempre i primi della classe (come Batman), ma ad apprezzare la comprimarietà (quella di Robin) eletta a virtù. Perché a volte essere secondi (o terzi, o ultimi) non è una nota di demerito (o una malattia come nel caso di Zeno), ma fa parte della vita. Anche se i meccanismi del digitale sembrano spingere verso un’apparente perfezione – o comunque nella direzione di una proposta di sé sbilanciata sul positivo –, l’inettitudine e i vizi restano parti integrante e identificative di ogni persona. Il primo ad averne coscienza è proprio il personaggio sveviano che non si abbandona al male, anzi è disposto a modificare le proprie esperienze, anche attraverso la psicanalisi che altro non è che una metafora di un maturo esame di coscienza. In questo senso egli è un eroe modernissimo, perché ha consapevolezza di sé ed è capace, anche mediante l’ironia, di accettare i propri limiti. È un uomo che vive liberamente al limite e nel limite perché conscio della propria finitezza. Perché la cultura del limite – spiegava Montesquieu – è l’unica “veramente umana” che ci contraddistinguerà per sempre e rappresenterà un criterio imprescindibile «per l’affermazione della libertà come idea e come prassi»[8].
[1] La citazione parafrasa un inciso durkheimiano riferito alla condizione sociale della famiglia moderna. Cfr. DURKHEIM E., Introduction à la sociologie de la famille. Estratto dagli Annales de la Faculté des lettres de Bordeaux, 10, 1888, pp. 257-281. Il sociologo francese proferì questo testo in occasione di una Lectio Inauguralis di un corso di scienze sociali tenuta alla Facoltà di Lettere di Bordeaux nel 1888, per poi pubblicarlo in DURKHEIM E, Textes 3. Fonctions sociales et institutions, Les Éditions de Minuit, Paris, 1975.
[2] Sulla “stupidità digitale” si vedano: BAUERLEIN M., The Dumbest Generation. How the Digital Age Supefies Young Amerincans and Jeopardizes Our Future (Or, Don’t Trust Anyone Under 30), Los Angeles, Jeremy P. Tarcher, 2008; CARR, N., Internet ci rende stupidi? Come la rete sta cambiando il nostro cervello, Raffaello Cortina, Milano 2010; SPITZER M. Demenza digitale, Come la nuova tecnologia ci rende stupidi, Corbaccio, Milano 2012.
[3] Rheingold H., Perché la rete ci rendi intelligenti, Raffaello Cortina, Milano 2010, p. 5.
[4] Il dato è del report Digital 2023elaborato dal We are social. Secondo l’indagine, su una popolazione mondiale che ha raggiunto 8,01 miliardi all’inizio del 2023, 5,44 miliardi di persone usano telefoni cellulari, pari al 68% della popolazione mondiale, 5,16 miliardi utenti di Internet, il 64,4% della popolazione mondiale è ora online. Inoltre, ci sono 4,76 miliardi utenti dei social media in tutto il mondo, pari a poco meno del 60% della popolazione mondiale. Il report è disponibile al link: https://wearesocial.com/it/blog/2023/01/digital-2023-i-dati-globali/.
[5] Cfr. CERETTI F., PADULA M., Umanità mediale. Teoria sociale e prospettive educative, Ets, Pisa 2016.
[6] Lo studio è stato pubblicato nel 2022 e condotto dalla software house statunitense Adobe Incorporated, nota soprattutto per i suoi prodotti di video e grafica digitale. È disponibile al link: https://s23.q4cdn.com/979560357/files/Adobe-‘Future-of-Creativity’-Study_Creators-in-the-Creator-Economy.pdf.
[7] Per una panoramica esaustiva dei rischi (patologie e crimini) digitali si veda: GAVRILA M., PADULA M., Il futuro al centro. Bambini e adolescenti nella scena mediale contemporanea, Egea, Milano 2023, pp. 99-111.
[8] PACELLI D., Il senso del limite. Per un nuovo approccio di sociologia critica, Carocci, Roma 2013, p. 100.