EXAGERE RIVISTA - Gennaio-Febbraio 2024, n. 1-2 anno IX - ISSN 2531-7334

Inquietudini globali. Metamorfosi, tra identità e cambiamento, stress e equilibrio

di Primavera Fisogni

 

 

Premessa

Capita spesso, nel linguaggio di tutti i giorni, di impiegare l’aggettivo “kafkiano” per indicare situazioni paradossali, per certi versi strambe, che interpellano l’attenzione e insieme mettono alla prova, almeno un po’, il nostro equilibrio. I fenomeni di trasformazione, in cui l’identità si mantiene salda nonostante il mutamento, cioè la gran parte degli accadimenti esistenziali, sono certamente fonte di quella costellazione di risposte cognitive ed emotive che fa riferimento alla poetica di Franz Kafka, in particolare del racconto La metamorfosi (1915), non a caso fine interprete del sentire contemporaneo.

In questo articolo prenderò in esame, alla luce del pensiero sistemico, il tema delle metamorfosi principalmente nel senso di processi di cambiamento ed esaminerò alcuni fenomeni oggetto di preoccupazione globale per le rapide trasformazioni, che sembrano renderli del tutto ingovernabili: il cambiamento climatico e il terrorismo jihadista. Se la morfogenesi – il cambio di stato – costituisce la modalità trasformativa più impressionante (dalla cellula all’embrione, dall’uomo all’insetto come in La metamorfosi di Kafka o dalla donna alla pianta, come nella trasformazione della ninfa Flora in La Primavera di Sandro Botticelli agli Uffizi di Firenze), il cambiamento come processo si dà a vedere come la cifra esistenziale del mutamento, dalla quale dipendono tutte le altre condizioni mutanti (dissipazione energetica, dissoluzione sistemica, morfogenesi). In conclusione mostrerò come le trasformazioni, sia le due indagate, sia quella del racconto di Kafka abbiamo come esito la ricomposizione di un equilibrio, ovvero il rimodellamento dell’identità, attraverso l’elaborazione dell’inquietudine.

 

  1. Metamorfosi globali che sfidano il pensiero

Nell’era della globalizzazione, in cui siamo immersi, i fenomeni della vita, antropologici, ambientali o sociali/economici si sono improvvisamente dati a vedere come espressione di una pervasiva complessità.

Ciò non soltanto per l’impatto di eventi nuovi o impensati – si pensi alla perdurante, mutevole “crisi di sistema”, ai conflitti atipici come la “terza guerra mondiale a pezzi” o  ai cambiamenti climatici – bensì per l’ingovernabilità dei medesimi, dovuta a processi trasformativi velocissimi, che riportano al centro del confronto un problema antico quanto la vita, vale a dire il mutamento. In un certo senso, con il linguaggio della fenomenologia, nel trasformarsi accelerato dei fenomeni si può indicare il tratto emergente dell’esperienza contemporanea da un punto all’altro del pianeta.

Per venire al tema esplorato da questo numero di ExAgere, se metamorfosi, cifra della letteratura e del pensiero di Franz Kafka, sia anche contrassegno dei nostri tempi, non c’è dubbio che il presente si trovi in sintonia con quell’intuizione antropologica, magistralmente resa sul piano letterario. Tuttavia, mentre nell’opera di Kafka, la parola metamorfosi del celebre racconto esprime anzitutto un’inquietudine soggettiva del narratore legata a un cambio di stato (propriamente una morfogenesi)[1], nel mondo della vita essa è parola chiave, sempre più decisiva, a fronte di processi di cambiamento che riguardano ogni aspetto del quotidiano. Governare il cambiamento suscita inquietudine, come si evince fin dalle prime pagine celebre racconto kafkiano[2], a partire da una ragione filosofica: occorrono strumenti concettuali idonei, adeguati a portare a tema le trasformazioni, per riflettere sensatamente sulle evoluzioni epocali in corso.

Su questa possibilità si gioca la capacità degli esseri umani di rispondere a sfide altamente dinamiche che possono mettere a rischio l’equilibrio sociale, politico, economico, culturale. Nel raccontare la trasformazione del commesso viaggiatore Gregor Samsa in un insetto disgustoso, Kafka mostra la difficoltà dei familiari di entrare in relazione con lui, di comprenderne le nuove esigenze, di integrarlo nelle relazioni consuete. La fine miseranda del protagonista è rivelativa, fuor di metafora, dei rischi destabilizzanti che ogni cambiamento porta con sé.

Nel mio articolo tratteggerò, a grandi linee, due fenomeni in costante trasformazione, che – pure a livelli diversi – sono sintomatici di quest’epoca “metamorfica” e della difficoltà di farne concetto: i cambiamenti climatici e il terrorismo globale. Come si vedrà, le trasformazioni accelerate che li caratterizzano, non mettono in discussione l’identità dei due “enti”. Ovvero, il clima resta quel determinato stato di cose, quale che siano le sue evoluzioni; il terrorismo globale continua a infestare con la sua carica distruttiva, al di là delle modificazioni “genetiche” del suo tessuto. Eppure, per entrambi, pur riconoscendoli come fenomeni ben precisi, si avverte una radicale difficoltà di agguantarli, di orientarli, di gestirli, proprio in virtù della mutevolezza delle reciproche fenomenologie (tratto metamorfico).

Come si intuisce da queste poche battute, identità e cambiamento sono una coppia concettuale che risulta decisiva nel processi di trasformazione. Comprendere, dunque, le variabili di ogni passaggio evolutivo/trasformativo è il presupposto per non farsi sopraffare dai processi di mutamento, per non cadere – insomma – nelle angosce del protagonista della Metamorfosi di Kafka. Quello che serve è, anzitutto, uno sguardo alla vita capace di questo afferramento concettuale, il quale – non limitandosi all’osservazione/analisi della singola variante, ma leggendola all’interno del processo – sia in grado di portare a tema il nuovo che si genera nel dinamismo trasformativo. Il pensiero sistemico contemporaneo si presta ottimamente a questo tipo di lettura. Vediamo in breve perché, prima di esaminare i due fenomeni soggetti a metamorfosi.

 

1.1  Come afferrare le trasformazioni, come pensarle

Il pensiero sistemico contemporaneo si offre come un valido supporto alla comprensione di eventi, il cui contrassegno identitario è la complessità. Nato ufficialmente nel 1967, con l’opera del biologo austriaco Ludwig von Bertalannfy[3], il systemic thinking si basa sull’idea che le entità/i fenomeni siano sistemi: unità organizzate, con proprietà specifiche, aperti all’interazione. Nel rapporto tra singoli sistemi e ambiente, nel corso di processi di organizzazione e dissoluzione, vengono alla luce qualità – le cosiddette proprietà di secondo livello o sistemiche – del tutto nuove. Un fatto, questo, decisivo per capire fenomeni non riferibili al singolo sistema, né all’ambiente in cui quest’ultimo si colloca. Per fare un esempio, pensiamo alla mente umana, che non è cervello, ma nemmeno è soltanto il frutto di stimolazioni ambientali sul medesimo. Come si intuisce, la forza del pensiero sistemico risiede nella sua attitudine a leggere situazioni multidisciplinari, dinamiche e metamorfiche, favorendo sempre il dialogo tra saperi diversi (il systemic thinking è applicato a filosofia, antropologia, economia, biologia, scienze della terra, fisica quantistica solo per citarne alcuni) e nell’attitudine euristica: la scoperta del nuovo è una risultanza affascinante di un metodo considerato ormai come un autentico “sasso nello stagno”[4].

Il successo multidisciplinare del pensiero sistemico dipende anche dalla sua capacità di andare oltre la parcellizzazione teorica del riduzionismo e la sostanziale sterilità dell’approccio analitico, più che mai inadatti a comprendere i cambiamenti dell’oggi. L’appeal che il pensiero sistemico riveste nello studio delle metamorfosi dipende proprio dal fatto che i sistemi configurano relazioni, cioè esprimono un costante cambiamento, pur mantenendo stabile la propria identità, salvo che nelle situazioni in cui il sistema si disgrega e si dissolve[5]. Lo studio delle trasformazioni partecipa a far progredire, d’altro canto, anche questo approccio critico, se pensiamo che «la questione aperta rimane (…) comprendere la capacità dei sistemi di cambiare senza perdere le proprietà che lo caratterizzano»[6], refrain aggiornato della questione antica, ma sempre aperta, del divenire. Possiamo adesso occuparci di due fenomeni fortemente implicati con le dinamiche trasformative contemporanee  – il clima e il terrorismo globale, particolarmente suggestivi anche in un senso prettamente teoretico[7].

 

  1. Il clima e i suoi cambiamenti

Nessuno parla più semplicemente di clima[8]. Ormai è quasi soltanto in chiave trasformativa che evochiamo questo termine – ci riferiamo per lo più al clima come al “cambiamento climatico” –, affidando all’uso linguistico un ben preciso punto prospettico sul fenomeno atmosferico, che esprime incertezza, preoccupazione, ingovernabilità delle politiche ambientali.

Soffermiamoci su questo aspetto, perché ci rimanda al tema del numero di ExAgere, ovvero alla persistenza di una visione “kafkiana” nel vivere contemporaneo. Il clima possiede, per sua stessa definizione, il carattere del dinamismo, dal momento che il termine rinvia a condizioni variabili nel tempo, che tuttavia mantengono una certa stabilità (Werndl, 2016)[9]. Il fatto nuovo, o emergente, riguardo alla percezione diffusa del clima – al di là del suo essere più che mai volubile – risiede nei riflessi inquieti che esso sta producendo sulle nostre vite. Non c’è alluvione, cedimento di argini, nevicata imprevista primaverile o nevicata attesa invano nei mesi invernali che non sia comunicata con toni ansiosi e preoccupati dai media, con spiegazioni che costantemente rinviano al cambiamento climatico. Dunque, sempre di più una condizione mutevole assume parametri “kafkiani”, ovvero è fatta oggetto di percezioni emotive, cognitive, relazionali ad alto tasso di stordimento. Eppure, a ben vedere, non dovrebbe essere così. Il fenomeno del clima è la quintessenza della metamorfosi e, infatti, può essere declinato in alcuni dei sensi principali in cui diciamo il cambiamento, vale a dire come un processo; come dissoluzione o come trasformazione/morfogenesi.

Considerato come un processo, il clima è da intendersi come insieme di variabili molteplici tra loro interagenti (S1=s1, s2, s3…), esattamente nei termini con cui esso viene definito in ambito scientifico. Il soggetto del mutamento resta lo stesso all’interno di una dinamica processuale delle singole variabili in atto.

Se, ad un livello intuitivo, il clima si può considerare lo stato dell’atmosfera, in realtà non c’è niente di meno statico del suo proprio essere, essendo piuttosto la distribuzione di certe variabili (dette le variabili del clima) che sorgono da una certa configurazione (ad esempio: certe emissioni ad effetto serra o gas) del sistema clima (Frigg, Thompson, Werndl, 2015)[10]. Secondo la Definizione 4 di IPCC Climate Change 2013, il clima nel tempo t1 è la distribuzione dei possibili valori delle variabili del clima a t1, assumendo che le condizioni esterne siano costanti. Come la mettiamo con l’identità del clima?

In fondo non c’è condizione esterna che sia davvero costante, essendo la fluttuazione una proprietà fondamentale dell’atmosfera. Se dunque ci limitiamo all’osservazione diretta o, come in questo caso, all’osservazione degli “osservabili” del fenomeno clima (le variabili atmosferiche) non siamo in grado di configurarne propriamente l’identità, cioè di dire “che cos’è”. La ricaduta di questa ineffabilità riguardo al clima ha effetti dirompenti, sul piano della governabilità dei cambiamenti climatici. Perché non consente di costruire modelli realmente efficaci, in grado di intervenire sulle metamorfosi climatiche, per frenare la dissoluzione o la morfogenesi dovute ai cambiamenti atmosferici. Né appare risolutiva la detection, ovvero il processo di determinare che qualche cambiamento significativo si è verificato nelle variabili osservate del sistema clima senza fornire una ragione per quel cambiamento (Frigg, Thompson, Werndl, 2015), la quale al massimo può dirci (ma non spiegarci) che la temperatura media globale della terra e della superficie degli oceani, calcolata con tendenza lineare, mostra un riscaldamento di 0,85° nel periodo 1880-2012.

Accanto a questa fattispecie generale, fortemente dinamica, il fenomeno del clima come climate change può essere letto nei termini di una dissoluzione, quando è concausa dell’estinzione di specie viventi, animali o piante, vale a dire di fenomeni di indubbia attualità. Tale idea è possibile soltanto se si ammette un’interazione sistemica tra il clima come processo e l’ambiente. Questa seconda fase trasformativa è interessante perché fa interagire il clima con il tempo atmosferico, cioè i due “enti” che spessissimo si sovrappongono nella percezione comune. Prendiamo, ad esempio, l’estinzione dei dinosauri e di altre specie (flora e fauna) del Cretaceo (145/65 milioni di anni fa)[11], generalmente attribuita al cambiamento climatico: la metamorfosi ambientale del clima – quale “stato medio del tempo atmosferico” – seguita a una diminuzione della luce (causata dall’impatto con il suolo di un corpo celeste), con oscuramento atmosferico, ha scombussolato il tempo meteorologico – l’insieme dei fenomeni dell’atmosfera vale a dire umidità, pressione atmosferica, piogge, temperature, visibilità e vento. In questo tipo di trasformazioni, le interazioni tra il sistema clima (S1) e il resto dell’ambiente portano (s1, s2, s3 e così via) a perturbazioni/pressioni che inducono il singolo ente (i sistemi fauna e flora, i dinosauri dell’esempio precedente) a spasmodici adattamenti, finché il nucleo che attrae e collega parti (l’anello dell’ecosistema che garantisce la vita di un certo animale o di specie vegetali) si disgrega, perdendo identificabilità (-s1; i dinosauri si sono estinti).

Un terzo tipo di cambiamento climatico è quello che presiede al mutamento del sistema ambiente, come succede, ad esempio, nella desertificazione (s1 >  s2), circostanza in cui si dà a vedere propriamente il processo morfogenetico, con il venire alla luce di nuovi ambienti o varietà di esseri viventi. Se vogliamo riferire all’opera di Kafka uno di questi tre momenti dinamici non abbiamo dubbi: la metamorfosi del protagonista Gregor Samsa, che al risveglio scopre di essere diventato un insetto, rientra a livello macroscopico nella terza fattispecie, dal momento che di morfogenesi si tratta, sebbene sui generis[12], ovvero di cambiamento di forma (uomo>insetto). Ciò non toglie che il tratto dell’inquietudine sia presente in tutte e tre le tipologie di trasformazioni. Ma, tornando alla morfogenesi, è certamente la trasformazione più impressionante, perché segna l’ingresso nel sistema di una nuova entità, mentre il cambiamento come processo vede l’evoluzione di un’identità stabile (es: lo sviluppo della persona, dall’infanzia alla vecchiaia) e il cambiamento come dissoluzione assiste all’esaurirsi delle potenzialità di un ente (es: la morte mette fine alla vita di un essere animato).

Delle tre modalità trasformative, è la prima ad avere uno spiccato interesse sistemico perché – pur nel dinamismo degli stati – mantiene una stabilità identitaria. Nelle altre due, a ben vedere, è l’interazione a prevalere sul fattore identitario (la dissoluzione di un eco sistema) o, viceversa, una nuova identità a piegare il flusso delle relazioni (l’originarsi di un nuovo eco sistema). Cosa ci dice il systemic thinking di più rispetto ad altri approcci? Oltre a mostrare il tessuto di relazioni con l’ambiente e a farlo dialogare con i processi propri del singolo ente/sistema offrendo modelli innovativi e suscitando problematiche impensate (i riflessi del climate risk sull’economia mondiale[13]), esso evidenzia le nuove qualità che affiorano dalle dinamiche trasformative. Tra le più interessanti, sul piano antropologico e culturale, c’è sicuramente lo sviluppo di un sentire planetario, che va oltre le climate conferences e le decisioni (molto poche e controverse) politiche: gli scioperi per sensibilizzare al climate change promossi da Greta Thunberg ne sono un esempio.

 

  1. Il terrorismo tra reale e virtuale

Fenomeno di portata globale, a partire dall’attacco alle Torri Gemelle di New York nel 2001, il terrorismo di matrice jihadista ha conosciuto un costante processo di trasformazione. Dapprima polarizzato nel network di Al Qaeda, si è polverizzato dopo la morte dello sceicco Bin Laden (2011) in una costellazione eversiva facente capo a varie sigle, per compattarsi quindi nel progetto totalitario dello Stato Islamico (2014) e successivamente presentarsi come eversione fai-da-te, con l’irrompere di attori solitari o comunque non organizzati nei tradizionali nuclei. Se tutta la storia recente di questo terrorismo ad alto tasso criminale e operativo, arduo da definire, riveste un indubbio interesse per l’antropologia, nei termini di fenomeno del male pervasivo e difficilmente governabile, la sua ultima fase si presenta come ideale case study per l’approccio sistemico.

Il modus operandi degli eversori, infatti, si muove in maniera sempre più spinta tra il piano della vita reale e quello dell’esistenza digitale, in un contesto misto cosiddetto Onlife (Floridi, 2015)[14].

Né life, né on-line, l’ambiente in cui si muovono i terroristi estranei ai gruppi eversivi tradizionali – per i quali non è  appropriato il termine “lone wolves” / “lupi solitari” (Fisogni, 2019)[15] – è un sistema complesso (S), caratterizzato dalla continua interazione tra realtà (s1) e piattaforme web/social network (s2). Non occorre una base eversiva, né un territorio, così importante fino a pochi anni fa, come s’è visto nell’affermazione del Califfato tra Siria e Iraq. Il multiforme e dinamico contesto del web consente ai nuovi attori solitari di individuare, oltre agli scopi per i propri attacchi, le informazioni tecniche necessarie a fare un attentato: la dimensione sistemica è chiaramente visibile nella interazione continua tra s1 e s2.

Il terrorista fai-da-te abita i due piani della realtà, li interseca non soltanto nella fase preparatoria dell’attacco (acquisizioni tecniche per produrre ordigni, pianificazione, auto propaganda sui social network) bensì in quella operativa vera e propria. La strage di Christchurch, lo scorso marzo, in Nuova Zelanda, ha segnato il culmine dell’evoluzione del terrorismo globale, con la diretta video, sul canale di Youtube, ad opera dello stesso eversore, l’australiano Brenton Tarrant, autore di un eccidio che ha contato 40 morti.

L’interazione che avviene tra il sistema ambiente mondo e il sistema ambiente digitale solleva una questione nuova rispetto all’eversione tradizionale. Il primo presenta una dinamica temporale, il secondo la presenta “mista”: il terrorista della strage della Nuova Zelanda filma la strage in tempo reale, con lo smartphone, ma per organizzarla va a cercare filmati, foto e altri contenuti digitali negli archivi di vari siti; il terrorista della strage di Nizza si guarda i tutorial pre-registrati su come fare stragi con i camioncini. Possiamo pensare a una trasformazione fuori dal tempo o non completamente nel tempo?  Questo terrorismo onlife impressiona, perché svuota di efficacia le due risposte strategiche messe in campo dall’antiterrorismo: il conflitto tradizionale con mezzi militari (non c’è territorio di riferimento, né nuclei o covi) o attraverso azioni mirate di intelligence (l’adesione al jihad o la storia fondamentalista possono non avere nessuna parte nella spinta ad agire). In pratica, chiunque può diventare terrorista, in qualsiasi parte del mondo, in ogni momento e senza quelle pre-condizioni ideologiche caratteristiche del jihadismo più tradizionale.

Che cosa può dire la sistemica nel portare la propria lente su questo fenomeno contemporaneo del male? Siamo certamente in presenza di una metamorfosi configurabile nei termini di un cambiamento come processo. Resta immutata la proprietà emergente dell’attacco con fini destabilizzanti, mentre ne vengono perse altre, che denotavano fasi precedenti (la presenza di un’organizzazione, l’adesione radicale al fondamentalismo jihadista, tipiche di Al Qaeda e dello Stato Islamico). La dissipazione del contesto territoriale (che nel Califfato aveva raggiunto l’apice, con un sedicente Stato) è compensata dall’espansione del ruolo del mondo digitale (usato poco da Al Qaeda, moltissimo dall’Isis in una prospettiva pressoché esclusiva di propaganda), la cui interazione con il mondo reale consente di acquisire una proprietà emergente che si riflette su tutte le altre. Come a proposito dei cambiamenti climatici, termine con il quale oggi guardiamo globalmente al clima planetario, il cambiamento come processo, nel fenomeno del terrorismo, si appropria in modo generativo di altre due tipologie di metamorfosi, quelle della dissoluzione e della morfogenesi[16].

Il primo caso è chiaramente visibile nella fine dell’organizzazione “storica” della prima Al Qaeda. L’entità terroristica jihadista, com’era strutturata nella forma originaria è scomparsa con la fine del suo ideologo Osama Bin Laden, eliminato dalle forze armate americane nel corso di un raid il 2 maggio 2011. In questa trasformazione entra in gioco anche un fattore simbolico, vale a dire la distruzione del corpo del leader terrorista, bruciato e disperso nelle acque dell’Oceano Indiano. Una perturbazione, per esprimersi con il linguaggio proprio del systemic thinking, che nella reazione del sistema (costellazione jihadista), ha prodotto la contrazione del medesimo e la sua disgregazione. Dalle ceneri della dissoluzione della costellazione di Al Qaeda – eccoci al cambiamento in termini di morfogenesi – si è affermata l’ideologia operativa dello Stato Islamico, basata sulla conquista dei territori.  A sua volta, si rileva una successiva, analoga dinamica di dissoluzione-morfogenesi cha ha portato all’affermazione del terrorismo jihadista operato da attori solitari. In particolare, nello spegnersi del Califfato, si è accesa – in modo nuovo – la fiammella della operatività digitale, in precedenza limitata alla propaganda, ora cuore pulsante delle azioni eversive di un terrorismo polverizzato e, all’apparenza, impossibile da governare.

 

  1. L’inquietudine e lo stress

Il terrorismo, come e più dei cambiamenti climatici, è fonte di inquietudini globali, di quell’ansia connessa all’imprevisto e alla trasformazione rilevata quale tratto caratterizzante della Metamorfosi di Kafka. Proprio esaminando il jihadismo globale si nota un aspetto ulteriore, comune a tutti i fenomeni di cambiamento, consistente nell’insorgere della preoccupazione con l’emergere dell’episodio mutevole. In altre parole: il terrorismo diventa fattore di stress quando si verifica un attacco, poi lo stato d’animo rilascia la tensione e si verifica una sorta di aggiustamento-adattamento. Lo stesso dicasi per i cambiamenti climatici: l’esondazione di un torrentello, divenuto improvvisamente fiume “killer”, fa esplodere la paura, l’indignazione, fa levare gli scudi contro chi gestisce il territorio (generalmente si pensa a un “nemico”, poco alla corresponsabilità); poi, superata l’emergenza, quando il corso d’acqua torna nel suo alveo anche le ansie si sopiscono, almeno fino al nuovo episodio emergenziale. Questa risposta diffusa agli effetti catastrofici/inquietanti/destabilizzanti dei fenomeni metamorfici ci aiuta a capire perché sia così difficile gestirli: essi si danno a vedere in forma macroscopica come emergenze, per poi scomparire. La visione ordinaria dei cambiamenti, dunque, non può essere di seria utilità al loro governo, perché li guarda in una prospettiva atomizzata: l’attacco al mercatino di Natale, il crollo di una costa di montagna sono visti come fenomeni singoli e, perciò, “singolari”, mentre – come si è cercato di argomentare – presentano una tessitura sistemica. In tale prospettiva, ogni picco raggiunto nel corso di un processo, vale a dire una “emergenza”, è l’esito di interazioni tra molteplici sotto sistemi.

 

  1. La trasformazione dello stress in equilibrio

Il pensiero sistemico, nel suo rivolgersi alle interazioni degli enti tra di loro e con l’ambiente, permette di portare a tema l’esito di ogni trasformazione, il tratto comune di 1) cambiamenti di processo, 2) dissoluzione e 3) morfogenesi. Mi riferisco alla condizione di equilibrio che segue ad ogni evoluzione di stato, lato sensu a ogni metamorfosi. Tale situazione si presenta sia sul piano cognitivo, sia in quello fenomenologico.

Nei cambiamenti climatici è qualcosa che sperimentiamo nel concetto stesso di clima, ovvero nella pensabilità del medesimo: pur essendo un insieme in relazione di stati, il modo in cui la nostra mentre lo afferra è nei termini di una “media”, di un valore stabile, sostanzialmente di un fenomeno con identità stabile, in equilibrio. Lo stesso avviene sul piano fenomenologico, cioè sull’apparire delle situazioni nel mondo della vita: a ogni dissoluzione ambientale, ad esempio, segue un nuovo profilo (l’estinzione dei ghiacciai, seguita all’aumento delle temperature dà spazio a una differente fauna e flora alpina). In entrambi i casi, è evidente un’interazione sistemica tra l’entità trasformata e l’ambiente. La nostra mente esprime, nella lettura unitaria del divenire, il proprio essere qualità sistemica di secondo livello, cioè non riferibile al cervello.

Nel terrorismo, quale che siano i modi di darsi a vedere di questa violenza, si avverte la stessa dinamica. L’eversione rinvia all’irrompere subitaneo di un evento violento, perpetrato contro innocenti, in modo sempre spettacolare, con l’obiettivo di richiamare l’attenzione. In fondo, anche nello sviluppo umano, tipico caso di trasformazione/metamorfosi/divenire avvertiamo un principio unitario nella molteplice varietà degli stadi: quella persona resta immutabilmente la stessa pur nella sua evoluzione.

Il rapporto tra cambiamento ed equilibrio si rinviene anche nel racconto della Metamorfosi di Kafka, per certi versi: è, precisamente, l’adattamento del padre, della madre e della sorella alla trasformazione di Gregor in un insetto. Persino la difficile situazione economia subisce, nell’impatto con il cambiamento – il protagonista, fonte di reddito per la famiglia, non può più lavorare – una svolta virtuosa, con un ritrovato benessere. Nello stress-cambiamento-equilibrio si può leggere un processo dinamico fruttuoso, in quanto apre prospettive impensate, che impongono, per sopravvivere, un adattamento. Chi non si adegua, come Gregor, alla mutata situazione, è esposto alla dissipazione – nel linguaggio sistemico, con un termine desunto dalle scienze naturali – o alla marginalizzazione, per impiegare un lessico più antropologico.

 

Considerazioni conclusive

Questa breve riflessione sulle metamorfosi, rivolta a fenomeni emergenti, alla luce della suggestione del racconto La metamorfosi di Franz Kafka, ci ha portato a riconoscere nella trasformazione un profilo decisivo della complessità, parola-chiave del mondo contemporaneo, che assume particolari sfumature se inserita nella cornice “metamorfica”. In particolare: 1) notiamo una robusta dialettica tra identità e cambiamento; 2) in questa ambiguità dinamica, a giudizio di chi scrive, è da vedersi l’origine della indicibilità di tali fenomeni, ovvero l’impossibilità di darne una definizione precisa, di farne concetto.

Sia il clima, ormai sovrapponibile al termine cambiamenti climatici, sia il terrorismo globale patiscono tale limite conoscitivo. A fronte di un deficit, però, si nota una sorta di compensazione, che emerge alla luce della lettura sistemica: ad ogni mutamento fa seguito una condizione di equilibrio che smorza l’inquietudine e consegna un avanzamento (conoscitivo, strategico, emozionale, percettivo). Tale concatenazione di variabili, all’interno di un tessuto alquanto mutevole, può ribaltare condizioni iniziali di svantaggio. Nel caso del clima, l’aver constatato ripetuti esiti nefasti sull’ecosistema, collegati all’innalzamento delle temperature, ha indotto a una reazione decisa sul piano sociale, ben più efficace rispetto a quella politica. Nel caso del terrorismo, abbiamo compreso quali rischi comportino le piattaforme digitali, con uno spostamento delle iniziative dell’intelligence verso questo nuovo campo di battaglia. In fondo anche nel racconto di Kafka, la famiglia Samsa ha visto accrescere – in seguito all’incredibile vicenda di Gregor – la capacità reattiva rispetto alle proprie sfortune. Resta, tuttavia, in sospeso proprio la figura del protagonista, vittima della metamorfosi/morfogenesi che lo ha riguardato. Anche in questo caso, possiamo attingere al pensiero sistemico per trovare una risposta al perché le cose siano andate così. Senza togliere nulla alla ricchezza letteraria del racconto, rileviamo che la perturbazione (il cambiamento di stato, da uomo a insetto) ha stressato a tal punto l’organizzazione del sistema (l’equilibrio emotivo, cognitivo, esistenziale di Gregor Samsa) fino a provocarne l’implosione.

 

[1] L’inquietudine si accompagna al mutamento di stato del protagonista, come si legge fin dalle prime righe e riguarda sia la condizione spirituale, sia quella professionale: «Quando Gregor Samsa una mattina nel suo letto si svegliò da sogni inquieti, si ritrovò trasformato in un immane insetto (…) «Mio Dio,  – pensò, – che mestiere faticoso mi sono scelto. Sempre in viaggio, giorno dopo giorno. Le inquietudini professionali sono molto maggiori che non in sede», F. Kafka, La metamorfosi, traduzione di E. Gianni, Torino, Einaudi, 2014, pag. 3 e 4.

[2] Tra i passaggi più letterariamente esplicativi, quelli di gestire il nuovo corpo: «(…) quelle zampette (…) Quando cercava di piegarne una, quella per prima cosa di tendeva; e quando infine con una gamba riusciva a eseguire il movimento desiderato, allora erano tutte le altre a entrare in funzione, prive di controllo e in preda a una estrema, dolorosa agitazione (…)», in La metamorfosi, op. cit., pag. 8.

[3] L. Von Bertalanffy, General System Theory. Foundations, Development, Applications, New York, Braziller, 1967; trad. it., Teoria generale dei sistemi, Mondadori, Milano, 1983.

[4] A Rock in the Pond, un sasso nello stagno, è il sottotitolo del recente The Systemic Turn in Human and Natural Science, Springer Switzerland, 2019, a cura della filosofa, professoressa Lucia Urbani Ulivi. Si deve alla studiosa, docente di Filosofia teoretica all’Università Cattolica il merito di aver dato vita, nell’ateneo milanese, a una vivace stagione di ricerche, seminari, conferenze e pubblicazioni relative al pensiero sistemico, da oltre un decennio, sull’onda degli studi pionieristici – in Italia – di Evandro Agazzi, il maggiore filosofo della scienza del nostro Paese. Il tema dei cambiamenti climatici è uno degli ambiti di investigazione di questo potente approccio interdisciplinare.

[5] Il concetto di organizzazione, che consente la stabilità identitaria e la processualità non sono osservabili direttamente. Però il sistema va osservato, e va osservato proprio nella fase processuale, per giungere a qualche chiarimento sull’identità.

[6] M. Bertolaso, “Stabilità vs. specificità. La rilevanza delle categorie relazionali nelle scienze biologiche”, in Strutture di mondo, Bologna, Il Mulino, 2015, volume III, a cura di L. Urbani Ulivi, pag. 109.

[7] Sia il clima, sia i cambiamenti climatici, sia il terrorismo patiscono un limite di definizione, a fronte di una comprensione intuitiva immediata e mediamente condivisa. Che cosa può significare? Può lo studio sistemico portare una spiegazione? Se è vero che la vita non è un concetto imbrigliabile in una formula, laddove si danno a vedere fenomeni in cui l’entità permane, nonostante il processo trasformativo, questa difficoltà si configura come un tratto emergente. La complessità può essere ripensata, in chiave sistemica, come qualità di fenomeni che sfuggono a una definizione in virtù della processualità delle relazioni.

[8] La parola clima si origina dal greco clinamen, che indica “inclinazione”. Il clima spesso si confonde con il tempo meteorologico.

[9] C. Werndl, “On Defining Climate and Climate Change”, in British Journal for the Philosophy of Science 67 (2): pag. 337-364.

[10] R. Friggs, E. Thompson, C. Werndl, “Philosophy of Climate Science Part I: Observing Climate Change”, in Philosophy Compass 10 (12), 2015, pag. 953-964 e Part II, ibidem, pag. 965-977.

[11] L. Randall, L’Universo invisibile. Dalla scomparsa dei dinosauri alla materia oscura. Le imprevedibili connessioni del nostro mondo, Milano, Il Saggiatore, 2016.

[12] Il protagonista del racconto cambia sì stato, diventando un insetto, tuttavia mantiene pensieri e sentimenti umani. Il modello narrativo è quello di tanti racconti o film di fantascienza, tra i quali ricordiamo La mosca (1986) del regista americano D. Croneberg.

[13] F. Lamperti, I. Monasterolo, A. Roventini, “Climate Risks, Economic and Finance: Insights from Complex Systems”, in The Systemic Turn in Human and Natural Sciences. A Rock in the Pond, a cura di L. Urbani Ulivi, Springer Switzerland, 2019, pag. 97-119.

[14]  L. Floridi, (a cura di), The Onlife Manifesto. Being Human in a Hyperconnected Era, Heildelberg, New York, Dordrecht, London, Springer Open, 2015.

[15] P. Fisogni, “The New Front Line. Updating the Concept of Enemy in the Online Age”, in Developments in Information Security and Cybernetic Wars, New York, Igi Global, 2019, pag. 176-195.

[16] Sia il clima, sia i cambiamenti climatici, sia il terrorismo jihadista, esaminati come sistemi con stabilità identitaria – pur nelle trasformazioni – mostrano che il cambiamento di processo non è separato da altre modalità trasformative (dissoluzione, morfogenesi).

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