di Gianfranco Brevetto
Inizio questo scritto con la certezza derridiana che, queste mie frasi, non hanno il carattere della definitività e che, qualsiasi scritto, qualunque nota del salumiere, è sostanzialmente un rimando, un differimento di senso. Questa certezza mi consola e facilita, in qualche modo, il compito d’introdurre un autore che si pone come uno degli intellettuali, a noi contemporanei, di maggior interesse in campo filosofico. La facilitazione di cui parlavo non è, beninteso, una semplificazione. Non è l’obiettivo di questo numero della rivista, nato in stretta collaborazione con Jaca Book, l’editore che maggiormente ha dedicato la sua produzione a Jacques Derrida, offrire una vetrina ipocritamente commemorativa e apologetica del filosofo. Si è cercato qui, invece, di evidenziare e focalizzare alcuni temi del pensiero derridiano e di offrirli, al lettore, come strumenti di lettura e di ricerca.
Allo stesso tempo, occorre, prima d’iniziare questo breve scritto, un piccolo avvertimento, se mai ve ne fosse bisogno per il lettore più smaliziato. Il quadro della ricerca epistemologia di Jacques Derrida, si posiziona in un ambito di non ritorno, un nada sera como antes che investe, trascina, decostruisce (per usare un termine a lui maggiormente associato e sul quale torneremo a breve) i temi centrali del pensiero filosofico. Questo aspetto ha portato, in alcuni casi, a qualche incomprensione e a qualche facile stigmatizzazione ai danni del nostro. Come, e questo accade anche in altri autori, non appare facile sottrarsi alle suggestioni di argomentazioni che, proprio perché colgono le travi portanti del pensiero filosofico, vengono confuse con un liberi tutti generalizzato.
Ma torniamo a quanto accennato poc’anzi, al tema del rinvio, del rimando. Nell’esergo di uno dei suoi testi più famosi, La voce e il fenomeno, Derrida ripropone un’immagine che Husserl inserì in Ideen I, quella della galleria di Dresda e del quadro di Teniers,
“…giriamo per le sale e ci arrestiamo davanti a un quadro di Teniers che rappresenta una galleria di quadri. Supponiamo, inoltre, che i quadri di questa galleria rappresentino a loro volta dei quadri che a loro volta rappresentino delle iscrizioni che fosse possibile decifrare, ecc.”[1]
David Teniers, ricordiamo, è il pittore, seicentesco, contemporaneo del Velasquez de Las meninas, labirinticamente incastonato tra un padre, un figlio e un nipote omonimi.
Un gioco di rimandi attraverso l’arte, quello di Derrida, appare riproposto, una dozzina di anni dopo dallo scrittore Georges Perec nel racconto Vita istruzioni per l’uso e, poi, in modo più deciso, in Un cabinet d’amateur.
“L’immagine labirintica, metafora dell’eterno rimando, è certo la più appropriata per descrivere i percorsi di Derrida”[2]. Il suo è “un continuo tentativo di decifrare ciò che è “in-scritto” in tutti i testi della tradizione filosofica”[3]. Si tratta, per il nostro autore, di un continuo rinvio ad un altro testo, un’altra parola, un resto, un avanzo sempre a venire. Un lavoro di decostruzione senza fine.
Non parliamo, qui, della fine della filosofia, come all’epoca avevano intravisto alcune correnti post moderne con le quali Derrida entrò in polemica, ma dell’aver intuito una chiave di entrata, forse definitiva (ci si passi la contraddizione), al problema della conoscenza. In proposito, il nostro autore utilizza una metafora che ci aiuta a comprendere questo aspetto, quella della carte postale. Una filosofia autentica è infatti quella che somiglia ad una cartolina che, scritta con l’obiettivo di arrivare ad una destinazione, in realtà non lo farà mai.
Jacques Derrida ha attraversato buona parte del secolo scorso, con una capatina nel nuovo millennio. Morto nel 2004, nel suo lungo percorso di ricerca ha incrociato, e con questi si è volutamente confrontato e misurato, i maggiori filosofi a lui più o meno contemporanei. Nato nei sobborghi di Algeri, da una famiglia ebrea sefardita di origine spagnola, ha vissuto le persecuzioni e le esclusioni degli anni ’40 messe in atto dal governo collaborazionista francese di Vichy. Dopo la guerra, si trasferisce a Parigi dove, dopo qualche incertezza iniziale, entra all’ École Normale Supérieure. Qui ha come tutor Louis Althusser.
La tesi, scritta nel ’53-’54 per il conseguimento del Diplôme d’Etudes Supérieures, è intitolata Il problema della genesi nella filosofia in Husserl.
Questa memoire costituisce, come accade in molti autori, un punto di partenza fondamentale per la ricerca successiva e dal quale, sostanzialmente, non il nostro non si sarebbe più distaccato.
Il problema della genesi dei soggetti ideali resterà, infatti, uno dei fili conduttori, se pur variamente sviluppato, del suo percorso filosofico. In Introduzione a Husserl L’origine della geometria, Derrida parte della posizione di Husserl nel rapporto tra storia e struttura, per arrivare a una proposizione di sintesi che va oltre il filosofo tedesco. Ci dice Derrida,
“L’oggetto matematico sembra essere l’oggetto privilegiato ed il filo conduttore più permanete della riflessione husserliana. Questo perché l’oggetto matematico è ideale. Il suo essere si esaurisce e traspare da parte a parte nella sua fenomenalità. Assolutamente oggettivo, vale a dire totalmente liberato dalla soggettività empirica, non è tuttavia altro che ciò che appare.”[4]
In Husserl questo oggetto appare già ridotto per essere l’oggetto di una coscienza pura in senso fenomenologico. Ma in senso epistemologico Husserl, per Derrida, non riesce a procedere oltre. A parere di quest’ultimo, Husserl considera le condizioni dell’oggettività dell’oggetto ideale solo in rapporto al suo essere entrato nella storia grazie questa sua qualità.
Non intendiamo soffermarci, qui e oltre, su un argomento, per certi versi complesso, come quello del segno e del suo rapporto con il reale. Ci basti qui ricordare che in Derrida il segno, con la sua iterabilità, assume preponderanza rispetto all’idea. E senza iterabilità non esistono idee[5]. “La presenza piena (…) è interiore e ideale. L’idealità, però, è possibilità di ripetizione indefinita, dunque è in se stessa e per definizione non presente, oltre a dipendere, per definizione, dai segni. Ciò che assicura la presenza è ciò che la rende impossibile: ogni presenza perfetta (ideale) è una presenza imperfetta (perché è solo l’attualizzazione di una serie indefinita).”[6]
Citando Plotino, Derrida ci dice che la forma è sempre traccia dell’informe. La cosiddetta metafisica basata sulla presenza ne risulta minata.
La logocentricità occidentale e la scrittura sono esempi evidenti di questo scoglio e vietano, alla cartolina, di arrivare a una destinazione che non esiste, ma che è parte stessa della filosofia.
Questo punto , quello del rapporto con le idee e le sue implicazioni, il loro essere messe in comune, il loro partecipare alla storia, appare uno degli argomenti maggiormente affascinanti e caratterizzanti del pensiero derridiano.
Sappiamo tutti che la questione si è posta si dagli inizi del pensiero filosofico.
Platone nel Timeo, testimonianza di una fase conclusiva della produzione del filosofo greco, affronta la questione della differenza ontologica, con una prospettiva in parte differente rispetto a precedentemente sostenuto.
Come è noto nel Timeo, Platone espone, attraverso un dialogo, l’ipotesi di un demiurgo artigiano del Cosmo. Per questo filosofo, il mondo del sensibile avrebbe solo qualità mutevoli e, il compito del demiurgo, sarebbe quello del riprodurre, nel mondo sensibile, avendo come modello quelle qualità eterne e distanti.
Ora nella parte del Timeo dedicata alla Necessità, Platone introduce un nuovo elemento, infatti ci dice:
“…dunque il nuovo principio del discorso intorno all’universo deve procedere a distinzioni maggiori rispetto al precedente; allora, infatti, distinguemmo due generi, mentre ora bisogna illustrare un terzo e differente genere. Perché i due di prima erano sufficienti per il nostro discorso precedente, l’uno posto come genere del modello, intellegibile e sempre identico a se stesso, il secondo come imitazione del paradigma, soggetto alla generazione e visibile. Non distinguemmo, allora, un terzo genere, giudicando che due fossero sufficienti; ma adesso il discorso pare ci costringa a tentare di descrivere un genere difficile e oscuro. Quale proprietà naturale bisogna supporre che abbia? Soprattutto questa: di essere il ricettacolo e , per così dire, la nutrice di ogni generazione.”[7]
Il principio difficile e oscuro è la chōra. “La chōra non è né sensibile né intellegibile ma appartiene ad un terzo genere (triton ghenos). Non si può neppure dire di essa che non è né questo né quello o che è parimenti al tempo stesso questo e quello.”[8]
“Chōra ci giunge, come il nome. Quando un nome viene, esso ci dice subito più del nome, l’altro del nome e l’altro come tale di cui annuncia per l’appunto l’irruzione. Tale annuncio non promette ancora (…). Resta ancora straniero alla persona, nominando soltanto l’imminenza (…).”[9]
Questo consustanziale clivage filosofico, questa epochè strutturale, racchiude la contraddizione della logica degli opposti ,come il suo superamento.
“La parola (…) il suo “voler-dire” si condanna da sé a “non-voler-dir-niente”[10]. Ma non occorre lasciarsi andare a questa apparente oscurità, si dice Derrida, anzi e parte del gioco.
Lasciamoci guidare da lui.
“Riprendiamo le cose a monte, (…) ritorniamo al di qua del discorso assicurato dalla filosofia che procede per opposizioni di principio e che fa i conti con l’origine come una coppia normale. Dobbiamo tornare verso una pre-origine che ci priva di quest’assicurazione e richiede nello stesso tempo un discorso filosofico impuro, minacciato, bastardo, ibrido.”[11]
Priva di certezze, in un’infinita prospettiva, come in un quadro di Teniers.
Non proseguo oltre. Ho cercato qui solo di evocare alcuni elementi utilizzabili nell’affrontare il pensiero di questo autore.
Questo numero, dedicato esclusivamente a Jacques Derrida, è stato possibile, come si accennava, grazie alla preziosa collaborazione con le edizioni Jaca Book, storico e audace editore di quasi tutte le opere del nostro filosofo.
La rivista è costruita, per la maggior parte, da interventi e testimonianze di studiosi derridiani, autori di questa casa editrice. A loro, come ai nostri autori presenti, va un grazie mio personale e della rivista. Un grazie particolare va poi agli editori di Jaca Book, Vera Minazzi e Sante Bagnoli, per la loro disponibilità e per la preziosa testimonianza che ci hanno offerto.
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[1] Jacques Derrida, La voce e il fenomeno, Jaca Book, pag. 29
[2] Carlo Sini, Prefazione a La voce e il fenomeno, Introduzione al problema del segno nella fenomenologia di Husserl, Jaca Book , 2010, pag. 11
[3] idem
[4] Jacques Derrida, Introduzione a Husserl, L’origine della geometria, Jaca Book, 1987, pag.63
[5] Maurizio Ferraris, Introduzione a Derrida, Laterza, 2003, pag. 29
[6] idem, pag. 32
[7] Platone, Timeo, BUR Rizzoli, 2003, pag. 257
[8] Jacques Derrida, Chōra, Jaca Book, 2019, pag.29
[9] idem, pag. 29
[10] Carlo Sini, Prefazione a La voce e il fenomeno, Introduzione al problema del segno nella fenomenologia di Husserl, Jaca Book , 2010, pag. 12
[11] Jacques Derrida, Chōra, Jaca Book, 2019, pag. 97