EXAGERE RIVISTA - Gennaio-Febbraio 2024, n. 1-2 anno IX - ISSN 2531-7334

Je suis Paperino! La pigrizia come atto di resistenza. Intervista a Gianfranco Marrone

di Luigi Serrapica

Bisogna faticare, e faticare assai, per potersi essere pigri? Il gravoso quesito se l’è posto Gianfranco Marrone, professore ordinario di Semiotica presso l’Università di Palermo, riuscendo a fornirci  risposte convincenti e per nulla indolenti . In effetti, per poter esercitare la propria pigrizia è necessario compiere sforzi che sembrano annullare i benefici dell’inerzia. La persona pigra, in sintesi, fa di tutto pur di non fare nulla. Capitalizza la mancata fatica nella speranza di accumulare un profitto fatto di riposo. Comodamente poltrire a letto, al calduccio. O su un’amaca, come personaggio Disney che rappresenta per antonomasia la pigrizia, Paperino.

La pigrizia, secondo Marrone, è una reazione al mondo circostante. Alla società moderna che ci richiede di dedicare al lavoro intere giornate sottraendo tempo alla possibilità di scegliere di non fare nulla. Ed è una reazione anche all’oziare, dal momento che l’ozio è una contrapposizione al lavoro, mentre la pigrizia ne è il rifiuto. Proprio questa caratteristica di rifiuto fa sì che la pigrizia sia interpretata generalmente come vizio, come peccato, come preambolo alla povertà e all’infelicità.

Oggigiorno, ci fa riflettere Marrone, lavoro e consumo si intrecciano. E questo perché spendiamo molto del nostro tempo libero a costruirci un’identità sociale basata sulle scelte d’acquisto che compiamo quotidianamente. E il tempo del consumo (che dovrebbe essere svincolato da quello del lavoro) in verità è molto faticoso perché implica lo sforzo di quella costruzione identitaria di cui restiamo vittime. Perfino il tempo libero dei bambini non è mai veramente libero: mai fermi, sballottati tra lezioni di musica e ore di attività fisica, parcheggiati qui e là e intrattenuti affinché non abbiano mai ad annoiarsi.

Possiamo  scegliere se essere, almeno ogni tanto, dei Paperino e sfuggire alle responsabilità del lavoro e della fatica per godere del dolce far nulla? Ce lo dice lo stesso Gianfranco Marrone.

– Partiamo da qui, professore. Quale senso possiamo dare alla pigrizia oggi, in un mondo iperconnesso in cui il lavoro ci segue sui telefoni cellulari in ogni momento, in cui le prestazioni richieste sono sempre più elevate? In altri termini, come riusciamo a costruire uno spazio per la “resistenza” alle imposizioni sociali che ci vogliono efficienti e sempre connessi ?

– Mai come oggi, in quella che è stata chiamata società della prestazione, la pigrizia ha un senso e un valore. Non solo a livello ideologico l’operosità è considerata un merito assoluto ma, le attuali tecnologie, ci hanno portato surrettiziamente in una condizione per cui la connessione 24 ore su 24 ci rende ostaggi di un lavoro continuo. Ivi compresi i momenti del cosiddetto tempo libero, dove in qualche modo lavoriamo ancora, per esempio negli atti di consumo che il capitalismo ci richiede. Essere pigri, riuscire a esserlo, è dunque una forma di resistenza. Il problema è rivendicare questo spazio di esercizio. E le vie che intravedo sono due. O spegniamo tutto, e scappiamo via dalla rete. Che è una posizione radicale. Oppure proviamo a pervertire i flussi comunicativi dall’interno, aggirando le richieste a essere sempre prestanti, operando con quella che Umberto Eco chiamava guerrilla semiologica. Per esempio, stiamo connessi ma cambiando i messaggi, cambiando i ‘generi’ della comunicazione. È una posizione situazionista, che mi piace molto.

– Vista in ottica “modernista” ed “efficientista”, la pigrizia può essere interpretata come una forma di ingratitudine verso il progresso?

– Più che una ingratitudine verso il progresso, è una messa in discussione del concetto stesso di progresso, e forse una sua modifica. Da questo punto di vista, la pigrizia lavora nel senso della cosiddetta decrescita, e cioè di un progresso che non è più mito assoluto e indiscutibile ma fenomeno da discutere e negoziare, da rivedere volta per volta. Non è per nulla detto che crescere sia un bene, e questo il pigro lo sa bene.

– Parlando del personaggio di Paperino, personificazione disneyana della pigrizia, lei lo ha paragonato a Gastone, il cugino fortunato e altrettanto pigro. Perché la pigrizia di Gastone è accettata e quella di Paperino, invece, è costantemente messa alla prova da Paperone? Bisogna nascere sotto una buona stella per essere pigri?

– Quella di Gastone non è vera pigrizia, si tratta di un dolce far niente derivante dalla sua straordinaria fortuna. Allunga la mano e gli cadono bigliettoni fra le dita. Gastone non ha bisogno di lavorare, Paperino invece non vuole lavorare, ma purtroppo ne ha bisogno, o meglio vi è costretto. Ho paragonato i due paperi, come anche Paperoga e Ciccio, proprio per far emergere meglio la natura della pigrizia di Paperino, tutta basata, appunto, su una costrizione esterna (soprattutto di Paperone, ma non solo). Paperino ci insegna che per essere pigri bisogna prima di tutto resistere a chi ci costringe a fare cose, tanto cose, troppe cose, anche senza vera ragione.

– I giorni di ozio forzato che abbiamo trascorso, che hanno anticipato di poco l’uscita del volume, hanno messo alla prova l’intera Europa e, in particolare l’Italia. Sappiamo che l’italiano medio viene spesso identificato, soprattutto all’estero, con il nostro Paperino.  Eppure, occorre dire, stiamo dando prova di estrema diligenza e rispetto delle regole, come anche di voglia di ripartire al più presto. Possiamo dire che il lockdown sia stato la nostra rivincita rispetto a questi  cliché che ci riguardano?

– Sicuramente. Questo strano periodo di pandemia ha realizzato, senza che nessuno lo volesse, la profezia di McLuhan del villaggio globale: siamo tutti nella stessa barca, corriamo gli stessi rischi, e le misure sono state grosso modo le stesse dovunque. Una globalizzazione al contrario, disforica e distruttiva, che ci sta insegnando come lo star fermi ha i suoi lati positivi, e che, soprattutto, la morale calvinista dell’attivismo frenetico è fortemente da rivedere. Per quel che riguarda l’Italia, possiamo fare due considerazioni: la prima è che, per carattere, noi dovremmo essere più pigri di altre popolazioni, ma in realtà non lo siamo proprio, o non lo siamo più. Questo perché, andando al secondo punto, le condizioni economiche locali hanno troppe relazioni con quelle globali, motivo per cui, per esempio, se si ferma una fabbrica di viti in Brianza, le fabbriche tedesche di automobili non possono andare avanti. Se in Cina chiude un fabbrica di componenti chimiche, non abbiamo più a disposizione le nostre medicine. Non siamo insomma più padroni delle nostre stesse azioni. Anche se volessimo essere pigri, sarebbe un disastro: ma questo è il mondo al contrario, che la pandemia ci sta mostrando in tutte le sue contraddizioni.

– La pigrizia, nella tradizione popolare, viene associata alla povertà causata – manco a dirlo – dall’accidia stessa. Il povero meritava l’indigenza perché non aveva voglia di lavorare. In definitiva, cos’è la pigrizia un peccato dei poveri o un privilegio dei ricchi? 

Dipende dai periodi storici. A lungo il lavoro è stato considerato una disgrazia, derivante dalla maledizione biblica contro Adamo. Lavoravano solo gli sfigati, e l’ozio era per i nobili, ossia per i ricchi. A poco a poco le cose si son invertite: il lavoro è diventato azione che nobilita l’uomo e l’accidia un peccato mortale. Fino ad arrivare alla odierna società della prestazione, in cui il pigro non è manco considerato come figura sociale pertinente. Motivo in più per faticare per riuscire a essere pigri: un piccolo grande gesto rivoluzionario.

Gianfranco Marrone

La fatica di essere pigri

Raffaello Cortina Editore, 2020

Share this Post!
error: Content is protected !!