di Chiara Ciano
Fratel Enrico Muller è direttore di una comunità di Fratelli delle Scuole Cristiane. Da 15 anni i Fratelli sono una presenza attiva e continua a Scampia, hanno sede in uno dei palazzoni del quartiere e, con la cooperativa Occhi Aperti, hanno attivato Io Valgo, scuola lasalliana della seconda opportunità per ragazze e ragazzi che non hanno trovato, attraverso la scuola tradizionale, la strada per l’esame di Stato del primo ciclo di istruzione.
– Enrico, il vostro fondatore è San Giovanni Battista de La Salle. Nel vostro carisma cosa significa e come si esplica la presenza?
– Il fondatore, La Salle, quando ha fondato le scuole nel 1600, in una situazione sociale in tutto differente dalla nostra, ha detto che i Fratelli devono stare con i bambini “da mattino a sera” e questo voleva dire sempre, oggi potremmo dire h24, dallo spuntare del giorno al tramonto. Una presenza continua, perché la comunità era centrata attorno alla scuola, non tanto come edificio, quanto come evento scuola che era un incontro, prima di tutto tra adulti e bambini: ci chiamiamo Fratelli perché La Salle ha proprio detto “voi siete i fratelli maggiori di questi bambini affidati alle vostre cure”. La società era molto più verticalizzata di oggi e i fratelli minori dovevano tenere un certo tipo di relazione nei confronti dei maggiori, però era una presenza fraterna, non paterna. Dire “questo è mio fratello” significa dire che questa persona fa parte della mia vita, fa parte della mia famiglia, fa parte del mio tutto e non si scelgono i fratelli, c’è dunque una perpetuità, se vogliamo, di questa presenza. Fino al 1916 i Fratelli più esperti erano i direttori delle scuole, si incontravano una volta l’anno per condividere le buone prassi e aggiornare la “Conduite des écoles”, la guida delle scuole, forse uno dei primi testi di raccolta di buone pratiche educative. In essa era anche indicato che i Fratelli dovevano sapere tutto dei loro allievi, composizione della famiglia, lavoro, l’indirizzo, ecc.; volevano essere una presenza totalizzante, prima non ce n’era mai stata una cosa simile nella Chiesa e nella società francese.
– Voi Fratelli, qui oggi, come intendete la vostra presenza ?
– A Scampia abbiamo scelto di venire prima di tutto per stare tra la gente e poi per fare educazione. Vogliamo essere una presenza per, con e tra questa gente il più possibile. Dire“come” loro è utopico, perché la nostra storia personale è diversissima dalla loro, però sicuramente siamo nel palazzo, nel quartiere, nel campo Rom e vogliamo anche noi declinare questa presenza fraterna da mattina a sera, con le modalità di oggi, whatsapp per esempio. Allora, come oggi, cerchiamo di essere una presenza, per usare termini filosofici, della trascendenza o, se vogliamo essere più semplici, una presenza di Dio, di qualcuno che ti ama perché ti ama, punto, come fa Dio che ti ama perché ti ama, non perché te lo sei guadagnato, non perché sei brava. Non sempre ci riusciamo, ma abbiamo la possibilità domani di recuperare quello che abbiamo sbagliato oggi.
-Il tema della rivista questo mese è la presenza: che qualità date voi alla vostra presenza educante?
-Penso a tantissimi insegnanti, anche qualcuno dei miei, per esempio la mia maestra delle elementari: una presenza che deve essere costante, non passeggera. Credo che i Fratelli avessero colto l’importanza di essere sempre disponibili; essere Fratelli dal punto di vista ecclesiale consentiva di non essere obbligati a dedicare tempo in chiesa, con preghiere canoniche ogni tre ore. La Salle ha indicato la preghiera fondamentale, la meditazione fatta al mattino presto. Quando si apre la porta della scuola, che voi possiate essere lì a tempo pieno, senza distrarvi. Mi piace sempre ricordare che, quando ancora i Fratelli non abitavano nelle scuole se non in rari casi, la Conduite indicava che la chiave della scuola fosse affidata a un allievo che aveva anche il compito ogni mattina di aprire. Mi piace l’idea che della scuola, dell’educazione se vogliamo traslitterare, la chiave devono averla le ragazze e i ragazzi: siamo noi che entriamo a piedi nudi, come Mosè nel roveto ardente, in qualcosa che non appartiene a noi perché appartiene a loro. Siamo ospiti nelle vite, nel cuore, nel processo educativo degli altri e gli unici protagonisti sono loro, le ragazze e i ragazzi.
-Mi piace questo concetto che hai appena espresso, che chi educa, chi insegna è in realtà un ospite nel processo educativo dell’altro. Cosa serve allora per educare?
-L’educazione è questione di cuore, passa tutto da lì: nel mondo anglosassone lasalliano si dice “Teaching minds, touching hearts”, accrescere le intelligenze e toccare i cuori. È una pedagogia che parte dalla relazione e dal fatto di essere Fratelli, sicuramente, e ogni azione, e la stessa scuola, deve essere ordinata in qualche modo a quell’immagine. Il fatto che a CasArcobaleno siamo sempre in cerchio vuole incarnare proprio questo, è una questione di cuore, di relazione, di equidistanza, di similitudine tra tutti pur con ruoli diversi e con percorsi educativi differenti (e questo è un aspetto che i ragazzi fan sempre difficoltà a capire); è così proprio, perché, per insegnare, dobbiamo alzarci all’altezza dei bambini, come diceva un pedagogo polacco.
– Mi colpisce molto che il nome del progetto sia in prima persona, Io Valgo: è il riconoscimento da parte di ogni partecipante del proprio valore, del proprio sé, delle proprie esperienze, anche quelle passate che li hanno condotti lì.
Il nome Io Valgo purtroppo si perde, le persone si ricordano di CasArcobaleno, tutta colorata, però la scelta di apporre questo “Io” su un percorso educativo o su una scuola, come noi ci consideriamo, è riconoscere il valore imprescindibile del soggetto e quello imprescindibile della persona. Questo io è fondamentale, ma i ragazzi e le ragazze di qui non se lo riconoscono, non si vedono; spesso all’interno della famiglia la loro identità è sfumata, perché ci sono tanti figli o troppi problemi, oppure fanno i prepotenti e allora è in qualche modo accentuata. Purtroppo, tante volte la scuola – penso anche a delle mie esperienze scolastiche da studente – si focalizza solo su alcune caratteristiche dei ragazzi, invece che considerarle tutte, e fa difficoltà a vedere l’integralità della persona non riuscendo così a coglierne tutta la ricchezza. Io Valgo è un richiamo all’integrità dell’essere io ed è ciò che cerchiamo di richiamare forte nella nostra esperienza educativa. È anche dire che tutto quello che mettiamo in campo è proprio per chi frequenta, per il loro valore e senza risparmiarci, perché questa possa essere un’esperienza unica per loro. Se avessimo la capacità economica per seguire i nostri allievi con una modalità più globale, ciò darebbe dei risultati maggiori sia per la ragazza o il ragazzo che per la famiglia perché non puoi scindere il valore che ogni ragazzo o ragazza si riconosce dal contesto familiare in cui vive.
Ogni contesto familiare segna la vita dei suoi figli e delle sue figlie, è chiaro, però qui tutto ciò è molto forte, essendo una realtà molto chiusa, ed è difficile trovare altre vie e altre possibilità. Abbiamo dei ragazzi e delle ragazze quest’anno che ci chiedono di potersi fermare da noi di più, forse perché riusciamo, com’è nostro desiderio, a creare un ambiente in cui possano essere se stessi con i propri limiti e soprattutto con le proprie potenzialità e talenti che non tirano mai fuori; la fatica più grande è dar vita all’“Io Valgo” e restituire loro quelle potenzialità che per primi non si riconoscono. Qui il valore di una persona è dato dai soldi, dal potere che ha, magari dalla bellezza, soprattutto se è una ragazza, ma il resto manca. Neanche tra chi frequenta da noi l’intelligenza è un segno di valore: è drammatico, ma è così. Il peso più grande è che non riconoscono i propri talenti, la bellezza e la ricchezza che sono e che hanno, a volte nemmeno davanti all’evidenza. La scuola forse dovrebbe solo far questo, riconoscere i talenti come sviluppo di competenze, e poi, dopo che son stati riconosciuti anche dall’allieva o allievo, dare gli strumenti per amplificarli, aumentarli, trasformarli.
– Aderire pienamente a quelle parole, Io Valgo, é una grande scommessa per chi partecipa al progetto, magari dopo essere stato tritato dalla scuola tradizionale.
-Sicuramente il fatto che ci sia un “Io” e poi il fatto del valore, come dici tu, è qualcosa di sconosciuto per loro, quando riconosciamo il loro valore, espresso tramite qualcosa che hanno fatto, detto, il più delle volte non ci credono. Forse dovremmo riflettere di più sul nome che abbiamo voluto dare e che, anche in confronto ad altre scuole come la nostra, risulta singolare. Dovrebbe già dare un messaggio a chi la frequenta perché esprime che è dedicata proprio a loro, a chi entra, non ad altri. Contando che chiunque ha le proprie insicurezze allora è anche la cosa più evangelica da dire: “tu vali”; se credi allora Dio è nato e morto per te e quindi è anche guardare come Gesù, che guardava con lo stesso sguardo Zaccheo, la samaritana, il pubblicano e, nel suo stare in dialogo con loro, diceva proprio “Tu vali”. Quando ci è venuta credo che l’ispirazione sia stata questa.
L’altro aspetto che il nostro nome mette in luce è il peso percepito degli errori e degli insuccessi passati: è molto forte. Loro dicono di non dar loro importanza, però lo fanno emergere come una grande pena, la scuola non è stata in grado di fargliela vivere con più leggerezza, aiutandoli a comprendere che un incidente di percorso può capitare a chiunque. C’è chi è riuscito a superarlo, ma altri se lo portano dietro in un modo che erode la propria autostima, il senso del proprio valore e forse lo trasmetteranno ai loro figli, nelle loro relazioni. Forse anche per questo la violenza è una modalità diffusa qui, perché quando senti di non valere nulla puoi usare la violenza per far vedere che sei qualcuno.
-La vostra è una comunità molto aperta, ospitate volontari provenienti da altre parti d’Italia, ma anche d’Europa e del mondo, per periodi che vanno da qualche settimana a più mesi.
-Nella nostra scuola i volontari hanno un grande valore; se sono ragazzi coetanei dei nostri riconoscono l’esperienza che fanno qui, e ritrovi poi, nei loro racconti, la fatica del fare educazione. Questi incontri con persone che vengono da realtà altre, lontane, non tanto geograficamente, quanto per mentalità, possibilità e visione, danno delle opportunità uniche, meravigliose che fanno della scuola quello che dovrebbe essere: un piccolo mondo in cui il mondo entra. Sempre di più i ragazzi dovrebbero poter avere a scuola un dialogo con tutto il mondo, la scuola che deve permettere queste occasioni, più intime possibile, il mondo che entra e che c’è, dialoga e trasforma. Per i nostri ragazzi sono cose che altrimenti non sarebbero mai successe, anche perché son sempre considerati elementi di disturbo e quindi messi da parte in tutti gli eventi. Sono quelli che non sono invitati alle gite scolastiche per via del loro essere troppo impegnativi.
-Come mai hai scelto di essere qui, tu, i tuoi confratelli e i giovani che hanno scelto di essere con voi?
-Scampia ci ha scelti, ci ha mandati qui il Vescovo. Noi avevamo deciso di andare in periferia, perché ci sembrava coerente con la nostra scelta di vita, con quanto La Salle ha fatto nel 1682 identificando nella scuola e nell’educazione una priorità per chiunque, da chi abita in centro, nelle zone “bene” a chi abita in quartieri dormitorio, meno serviti, più poveri. Sicuramente chi abita in periferia ha meno opportunità, anche logisticamente, di chi abita in zone più centrali e sono convinto che chi abita in periferia al sud ne ha ancora meno. Nascere a Scampia forse è come nascere in serie B e non perché lui o lei che nasce abbia quel valore di per sé, ma perché il contesto ti attribuisce un valore e contribuisce a perpetuarlo per te e per gli altri. L’esperienza che facciamo qui è che i nostri ragazzini e ragazzine sono nati profondamente depauperati di tante cose ed è drammatico. Qui manca anche la bellezza, dei luoghi, delle cose; con la tenerezza è uno dei temi che cerchiamo sempre di mettere in gioco e la gente di qui sa riconoscere la bellezza quando c’è, però è talmente lontana dal loro quotidiano. È qui, che bisognerebbe mettere le nostre scuole più ricche di possibilità, per le ragazze e i ragazzi di qui che sono impoveriti profondamente di tutto.
La periferia è un ambiente vitale proprio perché ferito; non è solo un archetipo, un luogo teologico, ma è la ferita in cui le ferite singole quasi si inglobano e ne fanno una ancora più grande e fino a quando non si farà qualcosa nella periferia essa rimarrà sempre una ferita fresca. È come una persona abbandonata che non strepita né urla, anzi per di più riconosce che il suo abbandono è giusto, di meritarlo ed è dunque indifeso e inerme. Qui le famiglie vivono questo stato di abbandono senza speranza, manca non tanto la forza, ma proprio l’istinto di prendere l’iniziativa, quindi attendono in modo passivo che la realtà cambi dall’esterno. Ecco ai nostri ragazzi e ragazze vogliamo trasmettere anche che ciascuno è in grado di costruire buona parte della propria vita e deve farlo.
-Su Scampia insistono, esistono tante realtà. Cosa manca e cosa c’è?
Ci sono tante realtà, tutte più o meno precarie, e questo è il limite che ci impedisce magari di impiegare tempo a creare legami. Quello che manca è una vera alleanza, una vera stima, un vero sguardo comune con le altre agenzie educative, con gli altri servizi educativi per aiutare questi ragazzi e ragazze in difficoltà, com’è la maggior parte di quelli che tutte le realtà associative del terzo settore incontrano, anche le parrocchie in qualche modo e le scuole poi che li accolgono tutti. Siamo tutti sempre sul filo del rasoio per la sopravvivenza, per retribuire coloro che lavorano evitando che altri ricadano nel circolo della precarietà, e tutto questo ci indebolisce; mancano le risorse di tempo, attenzione e tranquillità per fare dei progetti insieme, per confrontarci perché il tempo è usato per restare a galla, neanche in piedi. Però la difficoltà è prima di tutto di riconoscerci tra di noi con tutte le professionalità che ciascuna realtà, anche quelle istituzionali, mette in gioco per lo stesso obiettivo che per un quartiere è creare dei cittadini attivi e responsabili; penso che questo sia l’obiettivo della scuola, l’obiettivo di qualsiasi realtà, dalla squadra di calcio alla biblioteca, “perdendo” tempo per cercare il meglio di ogni singolo ragazzo e ragazza. Quindi ci vorrebbe questo, una forte alleanza tra tutte le realtà che insistono in una stessa area, facendo rete, riconoscendo il ruolo, le capacità, le competenze e le responsabilità di ognuna di esse: scuola, servizi sociali, cooperative, associazioni, parrocchie, gruppi e dobbiamo agire con intenzionalità per evitare di trascinare in una precarietà vitale, non solo economica, le ragazze e i ragazzi che incontriamo e in cui loro poi si ritroveranno e trascineranno molto probabilmente a propria volta i loro figli che qui sovente capitano presto.
-Che cosa pensi che sia necessario perché tale alleanza si concretizzi?
-La politica dovrebbe avere l’intenzione di fare in ogni periferia delle comunità educanti, di avere una lettura più ampia in cui al centro, io questo lo credo, porre veramente la scuola. La scuola è l’unico ambito sociale e civile in cui tutti passano o sono passati. Attorno alla scuola dovrebbe crearsi veramente questa interazione, questa sinergia, questa capacità, di intrecciare professionalità, competenze, sogni diversi in cui i ragazzi possano fare casa e costruire il loro futuro. Nella scuola io ho trovato insegnanti meravigliosi, devo anche dire che oggi la sua difficoltà maggiore è la sua complessità, la sua burocrazia e anche la formazione, la scelta e, uso un termine ecclesiale, la vocazione degli insegnanti all’interno della scuola “che riempie una vita” come dice La Salle. Un concetto molto lasalliano è mettere al primo posto ogni ragazzo o ragazza “che sono una chiamata alla speranza e all’impegno”.