EXAGERE RIVISTA - Gennaio-Febbraio 2024, n. 1-2 anno IX - ISSN 2531-7334

La competenza pedagogica e la sua centralità

di Sanda Matteoli

L’UNIPED, Unione Italiana Pedagogisti,  è un’associazione che  tende alla valorizzazione e alla tutela dei Pedagogisti e degli Educatori. L’Unione è  frutto di anni di lavoro e di impegno sui contenuti e le prospettive di una professione  al centro del momento educativo e  protagonista del suo cambiamento. Alessandro Bozzato è il suo Presidente, a lui abbiamo chiesto di indicarci le coordinate in questo universo spesso, e a torto, poco conosciuto.

– L’Associazione da lei presieduta  raccoglie, al suo interno, un gran numero di pedagogisti. Una prima domanda, anche per avere chiaro il quadro attuale della situazione, qual è lo stato della pedagogia in Italia e quali gli ambiti più percorsi?

Per i pedagogisti è un momento strano, ricco di stimoli ma estremamente ambiguo: si vive una sorta di schizofrenia comunicativa per cui, mentre da una parte si assiste a dichiarazioni di intento e attribuzioni di competenza educativa a qualunque figura che opera nell’ambito sociale, dall’altra la figura del pedagogista viene oscurata o posta in secondo piano. Mi spiego meglio, non si tratta di una polemica tra ordini professionali, ma di una precisa collocazione di ambiti e di valorizzazione delle competenze specifiche. Non è raro sentire insegnanti, sociologi, psicologi o docenti di matematica attribuirsi una qualifica pedagogica, quasi a sottolineare che l’istanza educativa resta centrale – nello svolgimento e nell’elaborazione del proprio intervento – e questa è una cosa positiva:  la pedagogia è scienza del cambiamento, non solo, è coerenza di pensiero e pratica in ambito educativo.  Ma l’eccezionalità che mi fa parlare di schizofrenia comunicativa, riguarda il fatto che i pedagogisti faticano a ricavare uno spazio di attenzione: il termine “pedagogista” è stato di fatto cancellato dalla riforma dell’Università che ha trasformato il corso di laurea in Scienze dell’educazione, Scienze della formazione, Scienze della formazione primaria. Non solo: i frequentanti e i laureati si trovano a doversi orientare venendo di volta in volta identificati come “Educatori socio-pedagogici”, “Educatori professionali”, “Educatori scolastici” eccetera. Confrontandosi con altri professionisti che vantano titoli equipollenti per legge ma conseguiti attraverso percorsi non pedagogici. I pedagogisti non hanno un ordine e quindi non vengono riconosciuti come figura professionale a tutto tondo (fanno parte delle  Professioni non ordinistiche previste dalla Legge 4/2013), e possono venir scavalcati anche nei concorsi pubblici da laureati in discipline non pedagogiche (in Psicologia, Lettere, Filosofia, Sociologia, ecc.) indetti per l’assunzione di “psicopedagogisti”.  Ecco, parlo di questo: oggi siamo in un periodo in cui tutti riconoscono l’importanza delle discipline educative e delle professioni pedagogiche, ma si stenta a riconoscere di fatto la competenza pedagogica a chi si è formato proprio in tale disciplina, cioè ai pedagogisti.

Oggi molti pedagogisti hanno a che fare con la mediazione educativa in ambito familiare e in ambito scolastico. Una particolare attenzione nella scuola viene dedicata agli interventi pedagogici nei disturbi dell’apprendimento e nelle situazioni di bullismo o di dispersione. Capita che gli addetti a questo genere di emergenze, nelle scuole, non siano pedagogisti, nonostante tutti concordino nell’identificare un professionista con una formazione pedagogica come figura più efficace. Per contro si trovano invece nella scuola laureati in pedagogia (o in scienze dell’educazione) impiegati come educatori scolastici, cioè in un ruolo che di aiuto dell’insegnante di sostegno.

Nell’ambito privato, il pedagogista svolge attività autonoma di sostegno della genitorialità, aiuto nel metodo di studio, gestione delle dinamiche di gruppi: attività che mostrano prospettive di sviluppo ma che comportano lo svantaggio di essere tutelate solo in parte, in quanto promosse da professionisti che non hanno un pieno riconoscimento: non avere un ordine comporta  alcuni svantaggi, come ad esempio non poter emettere ricevute che possano poi essere in parte detratte dalla denuncia dei redditi.

– Se si parla di pedagogia non si può fare a  meno di pensare all’attore principale che sta alla base di questa disciplina:  il bambino. In quest’anno travagliato che abbiamo trascorso sono proprio i bambini ad essere stati in qualche modo i protagonisti per le vicende che hanno interessato soprattutto l’ambito scolastico a causa della pandemia. Al di là della didattica a distanza, cosa sta cambiando nel modo di insegnare e nel modo di apprendere?

Bambini e minori sono stati, e in qualche caso continuano a essere, vittime non riconosciute delle scelte dettate dalla diffusione dell’epidemia. Per usare una terminologia bellica, tornata in auge in questo periodo, sono i danni collaterali e le vittime del fuoco amico. L’ansia orientata alla tutela delle fasce deboli più evidenti non ha consentito la giusta considerazione delle esigenze e dei bisogni dei “soggetti sacrificabili”. Col tempo si valuterà se sia stata o meno la scelta più giusta, ma non si può negare che, in questa situazione di crisi, la risposta organizzativa sia stata profondamente diseguale e disomogenea. La didattica a distanza è stata inventata sul momento e sono state attribuite competenze e abilità a un corpo docente che ha fatto quel che ha potuto e quel che ha voluto. Ci sono stati esempi di eccezionale efficienza e di lodevole efficacia, ma non si può parlare di standard condiviso. La DAD ha evidenziato e amplificato le differenze tra strutture attrezzate e strutture inadeguate, tra insegnanti aggiornati e insegnanti refrattari alla tecnologia. Si tratta di differenze che sono sempre presenti nel territorio nazionale, ma l’epidemia le ha, appunto, evidenziate. Nel complesso si deve dire che la didattica a distanza si è dimostrata un potente strumento per il supporto in fase di emergenza, per il quale è ipotizzabile uno sviluppo in senso propedeutico – in particolare per gli studenti delle scuole superiori e dell’Università. Dall’altra parte va però riconosciuto che la didattica a distanza si è rivelata insufficiente e inadeguata per l’insegnamento persino delle nozioni elementari per i bambini delle primarie. Del tutto insufficiente per le prime classi. Comunque una soluzione che ha determinato ulteriori differenziazioni nei confronti di bambini provenienti da famiglie numerose, con genitori in situazione di fragilità, residenti in abitazioni sovraffollate o fatiscenti. La scuola del futuro dovrà senza alcun dubbio prendere ancora in considerazione la didattica a distanza, ma dovrà fare in modo che questa non diventi di per sé occasione di discriminazione o esclusione delle fasce deboli.

Agli insegnanti viene oggi giustamente richiesta un’apertura alle nuove tecnologie e ai nuovi mezzi di comunicazione. Questa richiesta si può tradurre solo con un aggiornamento specifico, che va promosso e valorizzato dall’istituzione scolastica; il punto di vista del pedagogista nei confronti dell’aggiornamento degli insegnanti è concentrato sugli aspetti qualificanti dell’uso delle tecnologie: saper usare la LIM non significa automaticamente saper insegnare, così come saper accedere a internet non significa automaticamente poter svolgere didattica a distanza. La tecnologia arricchisce gli strumenti a disposizione, ma il pedagogista non dimentica che lo strumento è solo il mezzo, che quindi il mezzo va conosciuto per poter essere utilizzato come facilitatore, non come obiettivo. Pertanto l’auspicio è che gli aggiornamenti prevedano l’inserimento di temi e di insegnamenti con prospettiva pedagogica gestiti da specialisti dell’educazione.

– I bambini hanno vissuto, insieme agli adulti, ai genitori, ai parenti, un periodo, che tutti ci auguriamo resti solo un ricordo. Questa insolita compresenza tra le mura domestiche ha in qualche modo costretto le  varie figure familiari ad una convivenza che, iniziata come un gioco, ha poi messo in luce pregi e difetti di un rapporto che si era dato, fino ad oggi , per scontato. Secondo lei è stato questo un momento per una verifica, di quotidianità, sentimenti, capacità di dialogare?

Purtroppo non ho esperienze confortanti in questo senso. Il confinamento a casa avrebbe potuto rappresentare un’occasione di crescita e di confronto intergenerazionale, ma in molti casi ha invece dato luogo all’esplosione di sofferenze coltivate in silenzio e alla recrudescenza di conflitti mai risolti. La mia è la visione di chi si occupa prevalentemente di situazioni con disagio latente o conclamato, per cui può apparire  sostanzialmente negativa, ma non è così: i segnali di difficoltà sono sempre più o meno gli stessi e il conflitto non è una cosa negativa di per sé. Ogni crisi va vissuta come momento di rottura che non comporta necessariamente un esito negativo: alla rottura può seguire una ricomposizione, un restauro o un rinnovamento. La chiusura e l’atomizzazione delle famiglie aperte (solo apparentemente), sono fenomeni con cui abbiamo imparato a convivere grazie anche alle facilitazioni provenienti dallo sviluppo delle tecnologie in senso solipsistico e autoreferenziale. Il lockdown è stato reso possibile e tollerabile grazie al fatto che l’isolamento nell’era della comunicazione a distanza non viene più vissuto come “solitudine”. L’abitudine all’amicizia telematica e alle relazioni mantenute vive dal messaggio o dalla video-chiamata ha consentito una sostanziale tenuta delle rete delle amicizie e delle relazioni interpersonali. Per quanto possa apparire paradossale, le relazioni che hanno mostrato maggior sofferenza sono quelle con i congiunti e i conviventi: non è un caso che ci sia stato un aumento di divorzi e separazioni, che hanno portato alla risoluzione di rapporti verosimilmente già esauriti,e non è un azzardo supporre la cogenza di episodi di autolesionismo e consumo di sostanze tra i più giovani (oltre a un preoccupante aumento di suicidi, sui quali è il caso di approfondire cause e conseguenze in altra sede).

Molti colleghi pedagogisti sono stati coinvolti in progetti specifici rivolti alle situazioni problematiche: parlo del campo della mediazione familiare in presenza di minori, soprattutto, perché non è ancora abbastanza diffuso l’uso di rivolgersi a pedagogisti e educatori quando si ha a che fare con la fascia adulta e della terza età. Va però sottolineato che il pedagogista si occupa di tutte le dinamiche relazionali che prevedono un approccio educativo in entrata e in uscita, quindi è preparato ad affrontare le problematiche relative ai singoli, ai piccoli e ai grandi gruppi, di qualunque età e composizione sociale.

– Si è parlato molto, negli ultimi anni, della necessità di sostenere il ruolo educativo degli adulti, spesso percepiti come deleganti e deresponsabilizzati di fronte alle nuove sfide educative. In particolar modo possiamo fare riferimento all’uso incontrollato dei social media e ai rischi che ne conseguono nell’età evolutiva. E’ in atto una riflessione su questo tema anche in ambito pedagogico?

Gli adulti per i minori sono, o perlomeno dovrebbero essere, il modello a cui raffrontarsi e con cui confrontarsi. In pedagogia si dice che il modello è tale non in quanto suggerimento di intenti ma in quanto comunicazione mediante gli atti e gli agiti. I comportamenti e le scelte visibili sono ciò che “passa” in qualunque relazione educativa, pertanto la coerenza resta il punto fermo su cui costruire il rapporto adulto/minore, se davvero si intende costruire un rapporto autentico e significativo. Questo comporta che nei confronti dei social media va fatta una riflessione che inizia indagando il modo in cui gli adulti ne fruiscono. L’attuale pervasività delle piattaforme telematiche dedicate a incontri, intrattenimento e condivisione di idee, chiacchiere e contenuti più o meno profondi, è stata favorita dalla libera scelta di chi ha deciso di entrarci e di animarne la vita. Più o meno virtuale che sia. I principali responsabili dell’intromissione dei colossi di internet nella vita e nella riservatezza degli adulti  e dei minori sono gli adulti stessi, che hanno regalato ore della propria vita e condivisione di contenuti senza esserne obbligati. Col tempo si è verificata una divaricazione tra i social media preferiti e monopolizzati dagli adulti e quelli preferiti dai ragazzi: gli adulti preferiscono i social dove si può discutere e dibattere (in particolare Facebook), mentre i minori sono più attratti da quelli dove ci si presenta, ci si espone e ci si esibisce, ci si manda messaggi e si commenta senza che ci sia l’obbligo della risposta (in particolare Instagram, YouTube e ultimamente TikTok). Questo ci dice qualcosa che sta a tutti noi tentare di interpretare e capire. Ci dice apparentemente che i minori tendono a tenersi distanti da situazioni conflittuali, ma in sostanza sembra anche suggerire che i ragazzi osservano gli adulti e il loro mondo: si accorgono che passano mediamente più di 5 ore al giorno a relazionarsi con il loro smartphone o con il loro PC e che quindi trovano senza senso le loro pretese di controllo verso ciò che fanno loro. I pedagogisti che hanno avuto a che fare con ragazze e ragazzi, in quest’ultimo periodo, hanno ascoltato le loro storie e i loro racconti, fatti di inviti a non usare troppo il telefonino “perché ti fa male” per poi partecipare alla cena di famiglia con gli smartphone dei genitori collocati in parte alle posate.

La relazione educativa è fatta di rapporti autentici e di comportamenti coerenti: il rapporto con i social può essere pericoloso o fruttuoso; può essere una risorsa o una limitazione; può dare gratificazioni (non si sottovaluti la potenzialità espressiva di un canale come YouTube per un giovane musicista, ad esempio) o essere fonte di frustrazioni (cyber-bullismo, minacce, dinamiche di gruppo ai limiti del delinquenziale); è essenziale avere le idee chiare e mantenere un atteggiamento di coerenza nei confronti del mezzo e delle potenzialità: i social non vanno né demonizzati né liquidati con leggerezza e superficialità, ma qualunque scelta si faccia nei loro confronti, se fatta con finalità educative, deve essere coerente e condivisa. Per essere chiari e lapidari, non c’è niente di peggio di un genitore che vieta ai figli di “sprecare il proprio tempo” sui social network, che passa poi le giornate a litigare su Facebook con altri adulti sfoggiando espressioni offensive e infantili.

– Dicevamo che uno dei problemi politici e sociali maggiormente emersi durante il periodo pandemico è stato proprio quello dell’organizzazione scolastica e conseguentemente dei sistemi di trasmissione del sapere. Vi sono alunni che però rischiano di essere stati particolarmente penalizzati e mi riferisco a quelli con Bisogni Educativi Speciali. Come i pedagogisti hanno affrontato le richieste che ne sono conseguentemente emerse?

I pedagogisti ci provano. Da sempre i pedagogisti intervengono, soprattutto in ambito privato, nelle situazioni legate ai BES, sia quelli determinati dalla provenienza o da un ambiente di povertà educativa, che quelli legati ai DSA, cioè la vasta gamma di disordini dell’apprendimento  come la dislessia, disgrafia, discalculia e i disturbi dell’attenzione o ADHD. L’approccio pedagogico nel trattamento degli studenti BES si dimostra il più delle volte estremamente efficace, ma necessita di presenza e di prossimità, per cui in quest’ultimo periodo di didattica a distanza, cioè nel momento in cui gli studenti BES ne avrebbero avuto più bisogno, è stato più difficile riuscire a portarlo avanti. Alcuni colleghi si sono ingegnati con l’aumento delle attenzioni e il rispetto scrupoloso delle indicazioni sanitarie, altri hanno sperimentato (in alcuni casi con esiti soddisfacenti) modalità a distanza, ma il posto privilegiato per il trattamento educativo resta in presenza, meglio se a scuola. Nell’ultimo periodo tale “privilegio” è stato riconosciuto dal MIUR stesso che ha stabilito che i BES potessero frequentare comunque le scuole superiori, nonostante il resto della classe dovesse seguire le lezioni da casa.  Lo spirito del provvedimento è corretto e va nella giusta direzione, e credo che sia adesso necessario fare un ulteriore passaggio, cioè permettere l’entrata nelle scuole dei pedagogisti con la specificità della loro professione. Nell’ultimo periodo si sta lavorando con il MIUR per l’inserimento in organico di figure pedagogiche all’interno delle strutture scolastiche: sono ipotesi e progetti la cui fattibilità è sottoposta a verifica, ma questo risponderebbe a più bisogni: alla necessità di un supporto specialistico all’organico didattico, di un supporto di mediazione per le problematiche educative con i genitori e a un intervento diretto nell’elaborazione di PDP per gli alunni BES/DSA. L’interfaccia pedagogico negli ambienti e nelle istituzioni didattiche è una necessità sentita da tempo che è stata ulteriormente evidenziata dalla situazione dell’emergenza pandemica.

– Veniamo ora all’Associazione che lei presiede.  La tutela di una professione è sempre qualcosa di complesso che tiene insieme varie necessità. Professionali, formative, deontologiche, legali. Per non andare lontano, le chiedo se vi è già qualche proposta di legge per la costituzione di un ordine professionale.

Al momento ci sono alcune associazioni di professionisti. Si può parlare di un piccolo arcipelago di aggregazioni più o meno organizzate che per molti anni hanno evitato di relazionarsi in modo costruttivo. Purtroppo bisogna fare i conti con i numeri e nonostante ci sia almeno una mezza dozzina di associazioni attive, i pedagogisti coinvolti non sono riusciti fino a oggi a comporre una massa critica sufficientemente cospicua. Per questo motivo, nel corso degli ultimi tre anni, UNIPED si è attivata insieme a altre due associazioni di categoria, APP e CONPED, per realizzare una confederazione di Associazioni, all’interno della quale ogni realtà mantiene la propria  autonomia decisionale. La federazione è nata ufficialmente all’inizio del 2021 e si chiama FEDERPED: è un’aggregazione aperta alla partecipazione di tutte associazioni di Pedagogisti esistenti e operanti nel territorio. Uniped e Federped partecipano al tavolo del MIUR sulla figura del Pedagogista all’interno delle scuole e hanno firmato il Protocollo d’Intesa con il Ministero lo scorso luglio 2020. Il prossimo terreno di lavoro sarà quello sulla creazione di un albo professionale o comunque di un dispositivo che permetta ai Pedagogisti di svolgere la professione con le stesse tutele e e garanzie di tutti gli altri professionisti. Su questo tema contiamo di far convergere gli interessi e coinvolgere anche le altre associazioni presenti in Italia.

 

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