di Alberto Basoalto
Se c’è una parte, diciamo la verità senza fingimenti, ancora inesplorata, o molto parzialmente descritta, della nostra vita, questa è quella che poi finisce per occuparla maggiormente: Il lavoro.
Molto spesso, semplificativamente e pragmaticamente, per la maggior parte di noi (diciamo quella che non può permettersi il lusso di scegliere un lavoro), per le nuove generazioni come per i protagonisti di quella stagione demografica del baby boom, il vero dilemma è il trovare un lavoro e alla fine adattarsi. Adattarsi una, più o infinite volte , in attesa del fine pena mai, cioè una pensione, ridotta alla rendita sui contributi versati in circa 43 anni o a 67 anni di età. Per ora.
Francesca Coin, con il suo interessante saggio Le grandi dimissioni (Einaudi Editore) mette, si potrebbe dire finalmente, in evidenza un fenomeno del quale solo ora si inizia ad aver contezza: il crescente rifiuto del lavoro.
Un rifiuto che non è evidentemente – come ci dice l’autrice – una soluzione alla deflagrazione delle nostre condizioni di lavoro e di vita, ne è un sintomo. E non un sintomo come gli altri: è il sintomo di una rottura epocale.
La fine di un’epoca, quella in cui il lavoro era la strada maestra per la realizzazione di tutti i nostri sogni. La fine di un’epoca in cui si pensava che il lavoro fosse parte di un sistema virtuoso che salva il mondo dalla fame e dalla povertà.
Chi abbandona oggi il lavoro non lo fa perché ha abbastanza soldi per affrancarsene, lo fa perché è stufo, perché nonostante il lavoro è difficile arrivare a fine mese, perché i carichi complessivi gravanti sul quotidiano portano alla nausea: si tratta qui di una forma di sopravvivenza. Un’uscita di sicurezza.
Questi carichi sono diventati talmente elevati – scrive Francesca Coin -, e i sacrifici che questi richiedono sono diventati talmente elevati, che a un certo punto la corda si spezza. Non si tratta di abolire il lavoro per cambiare il mondo, si tratta di cercare un modo per sottrarsi ad un sistema che ti divora.
Nessuno vuole lavorare più. Già nel 1860 la stampa americana metteva in guardia contro questo pericolo. La fine della schiavitù rendeva difficile il proseguimento di alcune attività produttive e avrebbe condotto, secondo alcuni, alla bancarotta. Eppure molti cortei di protesta del secolo scorso scandivano slogan come pane, pace, lavoro. Folle oceaniche che chiedevano a gran voce: Lavoro! Lavoro!
Movimenti evidentemente legati all’idea che il lavoro potesse cambiare il mondo. Ma questo non è accaduto. Piuttosto l’individualismo trionfante degli anni ottanta ha ridimensionato le visioni collettive, la lotta di classe, le conquiste salariali e solidali. Come dimenticare, in proposito, la marcia dei 40.000 alla Fiat?
Di pari passo a queste vicende storiche e sociali, venivano però avanti una serie di atteggiamenti e atti oppositivi alla condizione di lavoro salariato e al modo classico di concepirlo. Diciamolo chiaramente, nonostante tutto abbiamo sempre in mente il modello di fabbrica taylorista-fordista, se pur nella sua versione più addolcita del terziario e terziario avanzato, condita con inserti patetico-realistici fantozziani. Fenomeni come l’assenteismo, sia esso di fabbrica o di ufficio, sono stati spesso trattati, negli anni, come meri fenomeni folcloristici e locali (sull’argomento consultare le polemiche sorte, qualche decennio fa a proposito della stabilimento dell’Alfa Romeo di Pomigliano d’Arco). E, the last but not the least, la polemica sui fannulloni statali. Tutte cose che avrebbero avuto bisogno di un serio approfondimento. Di analisi che vanno oltre i titoloni giornalistici e gli slogan di partito.
Così il lavoro, sarebbe meglio parlare di lavori, nonostante la potente tutela legale in molti paesi europei, in primis l’Italia dov’è fondamento della Repubblica, si è andato sgretolando sotto i nostri occhi.
Il libro di Francesca Coin ha il merito di metter in evidenza l’indebolimento della forte componente ideologica che si è venuta cristallizzando intorno a questo concetto. Componente in cui molti ci hanno messo del loro. La maledizione divina di Geova, l’ascesi mondana di Weber. L’etica del lavoro, il lavoro come valore assoluto legato all’abnegazione al sacrificio, fisico e mentale, al dover tralasciare figli e famiglia pur di raggiungere, nella maggior parte dei casi , solo obiettivi essenziali e di riproduzione, hanno costituito un’etica che ha costellato, e costella ancora, le nostre esistenze. Sic!
Si tratta di una vera metafisica del lavoro. Parliamone.
E ancora, non in ultimo, consideriamo anche degli effetti discriminatori, in primis di genere, che questo enorme armamentario comporta e di cui si occupa, in modo attento, anche l’autrice.
Il lavoro, occorre riconoscerlo, si trova oggi, spesso, privato dei suoi contenuti antropologici e risente, come dicevamo, dell’inefficacia della storica componente ideologica a politica. In questi giorni la sterile discussione, la banalizzazione, di un argomento come il salario minimo, ha favorito ancor più, la crescente indifferenza e la perdita del senso di quanto facciamo ogni giorno in cambio del salario ( mi si passi qui il vecchio termine, ma sempre efficace, di alienazione).
Dalle numerose storie personali raccolte all’interno di questo volume emerge un punto in comune: l’abbandono del lavoro è descritto come gesto liberatorio , sebbene non risolutivo.
Un atto di liberazione, forse di diserzione da parte di quell’esercito industriale di riserva, di quell’avamposto ai Tartari, del quale, con le dovute approssimazioni e distinguo, apparteniamo.
Francesca Coin
Le grandi Dimissioni
Il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita
Einaudi , 2023