di Primavera Fisogni
Abstract
Nella società digitale tutto è memoria, da intendersi come accumulo di dati entro sistemi informativi regolati da algoritmi complessi. Più che la possibilità di stivare materiali, esperienze, foto e video, a fare problema – oggi – sono i margini concessi all’oblio: il dibattito sorto riguardo a casi recenti di persone che vogliono cancellare frammenti delle proprie vite dal web, apre uno spazio suggestivo di approfondimento sul rapporto tra memoria e oblio. Le riflessioni ci portano a riconoscere, da un lato, l’impossibilità di assegnare una dimensione ontologica all’oblio: non è “qualcosa”, non si tratta cioè di una “condizione”, né tantomeno di uno stato definitivo. L’argomento a sostegno di ciò è la dimensione temporale continua dei nostri vissuti, tale che – anche quando essi sono obliati, rimossi, scordati momentaneamente – continuano ad appartenerci e ad intervenire sul nostro profilo personale. D’altro canto, se l’oblio non ha una propria consistenza ontologica, che senso ha parlare di “diritto all’oblio”, da intendersi, specialmente in una prospettiva digitale/informatica come la cancellazione di un vissuto (right to be forgotten)? Questo articolo intende uscire dall’argomento prevalente della riservatezza personale (tutelato in Italia dal Codice della Privacy) per riportare al centro le ragioni antropologiche della temporalità e del cambiamento della persona umana, di cui la memoria è il baricentro dinamico. La riflessione, di impronta fenomenologica, nasce dall’esigenza personale dell’autrice, giornalista professionista di quotidiano e PhD in Metafisica, di andare oltre la vulgata teorica prevalente, per sondare prospettive di pensiero che possano far progredire la letteratura, sia deontologica del giornalismo, sia giuridica.
I PARTE
I.1 Memoria tra passato e futuro
Non ci è possibile tenere a mente, a portata di pensiero, ogni esperienza della nostra vita, al punto che ricordare vuol dire dimenticare. In una prospettiva teorica, non sembra invece esserci limite all’archiviazione dei contenuti video, audio, foto: con adeguato supporto, ogni istante dell’esistenza di ognuno si presta a venire registrato e conservato, per essere sempre a disposizione. I reality show, generi televisivi che si sono affermati all’inizio degli anni Duemila, esprimevano questo tipo di sperimentazione, nella forma dello spettacolo. Le imponenti teche delle tv di Stato presentano un valore documentario rilevante perché racchiudono enormi frammenti di memoria collettiva.
La persona, però, per quanto grande sia la facoltà della mente di organizzare tracce del vissuto, vive la memoria[i] in un modo particolare: come una corrente a bassa intensità che sta alla base dell’ora presente. Non ci ricordiamo come i nostri genitori ci abbiano insegnato le regole dell’educazione quando eravamo molto piccoli – eccezion fatta per qualche ceffone, se ne abbiamo mai presi – ma siamo in grado, con una certa facilità, di assumere comportamenti socialmente apprezzabili in contesti come il lavoro, le relazioni; ovvero mettiamo a frutto, più o meno, quanto abbiamo appreso. Accanto alla memoria generalmente intesa come attività conseguente al ricordare, la parte forse più robusta del memorare consiste in questo continuo lavorio del passato, prossimo o remoto, sul nostro presente, frutto dell’interazione di una varietà di sistemi, che fanno superare la visione unitaria del memorare[ii]. Viene dunque ad affiorare una constatazione ben precisa. La memoria è tempo, non soltanto un insieme di contenuti-nel-tempo. E proprio sulla base di un tale presupposto, capiamo due cose: non possiamo mai davvero chiudere le porte ai nostri vissuti, anche a quelli più remoti, consci (abbiamo avuto un’educazione) o inconsci (ho sofferto per essere stato umiliato, magari da piccolo, esperienza che mi porta ad agire in determinato modo, quasi inconsapevolmente verso gli altri, con rispetto o con risentimento); in secondo luogo, il flusso della vita fa entrare in circolo frammenti del “già stato”, in forma del tutto creativa. L’uso di questa carica temporale del passato intrecciata al presente, proiettata nel futuro, non ci appartiene – se non in minima parte – in termini consapevoli, consci. Essa non è nemmeno una fruizione inconscia, se non in parte; la sua caratteristica è di forgiare continuamente il nostro profilo identitario. In altre parole, quello che siamo stati diventa motore di chi siamo attualmente e di chi diventeremo. In questo scenario possiamo formulare la domanda dell’oblio, chiedendoci se ci appartenga davvero, come possibilità antropologica, oppure no.
I.2 Obliare
Se la stoffa della condizione umana è tempo, nessun istante, con i propri contenuti e il proprio senso, può davvero dirsi estraneo al nostro presente. Nemmeno quello che Sigmund Freud aveva chiamato l’inconscio, che nella prospettiva del padre della psicoanalisi consiste nei vissuti rimossi, è dunque materia non soggetta al ritmo del prima, ora, poi[iii].
Nessuna memoria può finire di appartenerci. Chi ha commesso un atto delittuoso – e ne ha pagato le conseguenze – ha tutte le ragioni, sul piano soggettivo, per chiederne l’oblio giornalistico (qualora sia venuto meno l’interesse pubblico[iv]). Tuttavia, il peso di quanto è stato commesso continua a farsi sentire sul profilo generale della sua persona, in quanto nucleo attivo di sentimento, volontà, intelligenza. L’accresciuta consapevolezza della responsabilità, del male perpetrato e fatto patire ad altri, il possibile pentimento, l’eventuale riconciliazione con le vittime può certamente ridurre l’onere dell’evento.
L’azione, tuttavia, incombe sul suo autore, come qualcosa che finisce per appartenergli inevitabilmente. Nemmeno Max Scheler, nel magistrale saggio sul “Pentimento e rinascita”[v], ammetteva la strada dell’oblio come via maestra della rigenerazione morale: al contrario, essa passa sempre dalla piena assunzione della responsabilità dell’atto. Nella classicità poter obliare la vita mortale era qualcosa di possibile solo nell’aldilà, permesso a chi avesse bevuto le acque del fiume Lete (Oblio). L’uscita dalla dimensione temporale e dalla corporeità costituivano le premesse per sganciarsi dalla memoria di sé. Le uniche alternative lasciate ai viventi erano il vino e il sonno, rispettivamente bevanda in qualche modo divina e dono degli dei. Nel II Libro dell’Eneide (v. 268 sg.), Virgilio narra, nel descrivere il sogno di Enea agli Inferi, che “tempus erat quo/ prima quies/ mortalibus aegris/ incipit et dono divum/ gratissima serpit”. La prima quies, la quiete che assume il corpo quando entra nel sonno possiede il carattere di un’esperienza divina: incipit, ci dice Virgilio; questa idea di incominciamento appartiene a pieno titolo anche all’oblio. In latino, infatti, il verbo obliviscor, di forma deponente, ha un suffisso incoativo (- sco), che indica appunto l’incominciamento.
Che cosa ci dice il mondo classico?
Che il sonno e l’oblio sono espressioni puntuali, aoristiche, fuori dalla linearità temporale: in questo senso quasi divine; inizi di qualcosa; al sonno segue la veglia. Inoltre, quella dell’aoristo è una prospettiva altra, rispetto alla cronologia, che guarda all’azione, alla sua qualità, non al fatto che avvenga (presente), sia avvenuta (passato) o avverrà (futuro). Dunque, l’oblio sta fuori dal tempo vissuto in forma cronologica, ma vi è compreso in modo aspettuale (esprime l’aspetto del verbo).
All’oblio, non a caso, fa sempre da contraltare il ritorno in superficie del ricordo, quasi che in nessun modo lo si possa stivare nella cassetta o nel baule dell’esperienze imperfette. Ciò dimostra, anche sul piano empirico, la prevalenza della cronologia, quando si parla di tempo vissuto; una condizione che dimostra l’impossibilità, per l’uomo, di vivere l’istante (in forma aoristica), come sognava di fare – con gli esiti che conosciamo – il Faust di Goethe.
Dopo aver firmato il patto con Mefistofele, Faust manifesta il proprio disprezzo per l’attimo (Augenblick)[vi]: l’istante non lo soddisfa mai perché non porta quiete. Non è che l’esito, per tornare al nostro ragionamento, del prevalere della cronologia sulla visione qualitativa della temporalità. Tutta la tragedia, nella versione di Goethe, esprime il dinamismo incessante dell’azione (Tat). Un fluire continuo molto ben rappresentato dal regista Alexander Sokurov nel film che dedicato al protagonista della tragedia (2011). Egli rappresenta Faust come costantemente impegnato in qualcosa: cammina, si agita, non dorme mai, cerca cibo, soldi, affetti, in un continuo vagare, sulla terra e nell’aldilà. Nella tragedia di Goethe, il protagonista fa l’esperienza della pace – insieme temporale e spaziale – quando si avvicina la fine della sua vita. Guardando i servi di Mefistofele che scavano un terreno, e ipotizzando che lì si metteranno le fondamenta di un luogo «in cui milioni e milioni / d’uomini che vi abitano / sicuri» in «verdi campi fecondi», egli sente realizzata la pienezza del tempo e il piacere di dimorarvi, di stare, finalmente. La sua disperazione, un vagare fuori dal tempo e dallo spazio, viene superata soltanto in quell’attimo che egli scopre ricco di senso, in punto di morte[vii]. Proprio quel frammento temporale che nel II atto della tragedia aveva disprezzato, giudicando così assurdo di potervi dimorare, al punto di considerare più auspicabile la condizione di dannato. Questo momento del Faust riconduce, di fatto, alla visione classica dell’attimo ultimo della vita, al quale solo può appartenere di diritto l’accesso all’oblio: fuori dal mito, in una luce metafisica, ciò ha un senso perché il momento finale dell’essere vivente, se la persona è tempo, è in effetti l’unico in grado di fermarsi, di staccarsi dal moto incessante della memoria. Ma fino a quando viviamo, tutto ciò ha solo “incominciamento”, puntualità istantanea che subito srotola nel flusso temporale. Se ci pensiamo, l’oblio non può essere la soluzione alle sofferenze, alle frustrazioni, al dolore vissuto. E, infatti, la memoria traumatica proprio questo ci insegna. C’è un progetto di autodifesa della persona, nel rimuovere un’esperienza che produce sofferenza, ma l’unico modo per sgravare il soggetto dal trauma consiste nel riaprire questo “inciampo” esperienziale.
I.2 La dimenticanza impossibile
La dimenticanza si configura, spesso, come una risorsa della mente per salvaguardare la persona, per proteggerla e consentirle di restare integra, per esercitare le proprie funzioni vitali. Ci sono esperienze acutamente dolorose sul piano fisico – come quella del parto naturale – che vengono quasi del tutto scordate (a livello sensitivo), una volta messo al mondo il figlio. Non si tratta di uno stereotipo culturale, come dimostra la ricerca condotta dalla professoressa Ulla Waldenstrom e colleghi dell’Istituto Karolinska di Stoccolma, su un campione di 1,383 donne che avevano partorito in ospedali svedesi nel 1999[viii]. La rimozione, totale o parziale della memoria del dolore, sembra trattarsi di una strategia dell’organismo rivolta a preservare la continuità della specie. Ancora più frequente è il congelamento dei ricordi dolorosi, di traumi o violenze rimossi al momento dell’esperienza negativa.
La loro fenomenologia, oggetto di studi sterminati, tra psicologia, psichiatria, filosofia e narrativa letteraria fa capire che l’oblio non è mai davvero tale, perché la memoria traumatica, più di altri contenuti mnestici, pesa nell’economia generale dell’identità personale: la cancellazione o rimozione o congelamento vede in parallelo un lavorìo cognitivo senza sosta, che tiene vivo quel contenuto esperienziale senza integrarlo, però, con il resto degli altri vissuti. Ecco che la sofferenza, messa da parte o ridimensionata attraverso l’oblio, si ricarica fino ad esplodere con le più varie modalità – una tra tutte, la somatizzazione – e con effetti destabilizzanti sull’individuo. Trattamenti terapeutici come l’Emdr[ix], metodica[x] ormai molto diffusa anche in Italia, quale valido supporto della terapia psicologica, consentono di risolvere il trauma se questo viene trattato nelle 48 ore successive all’evento, oppure aiutano il paziente a scongelare frammenti dolorosi magari risalenti a decenni precedenti[xi].
La prima delle due opzioni terapeutiche porta a una riflessione importante: il trauma, a differenza dell’oblio, non ha un carattere puntuale o aoristico. È uno stato che per essere superato va fatto evolvere, va reso “altro”. È essenzialmente tempo-durata, ovvero si presenta con le caratteristiche proprie della vita umana. Ciò significa che esso è, né più né meno, memoria.
Senza entrare nel merito di questa e di altre metodiche psicologiche rivolte a rendere consapevole il paziente di un vissuto traumatico, rimosso ma ancora attivo nel produrre sofferenza, si vuole qui rilevare come la nostra vita non sappia realmente dimenticare nulla di quanto le è appartenuto, anche se per ragioni diverse – di tutela dell’integrità personale, nel caso dei ricordi traumatici o di esubero di informazioni, che si affastellano nel vivere quotidiano nell’arco dell’esistenza – si trova nella condizione di selezionare i vissuti di cui continuiamo ad avvalerci. Viene da chiedersi, allora, se l’oblio possieda un proprio statuto ontologico o se, come sembra suggerire l’esperienza traumatica, esso esprima un certo modo del memorare: riagganciando l’oblio si rimette in movimento il trauma. È chiaro che, dalla risposta che riusciremo ad abbozzare, potremo discutere con uno sguardo più comprensivo il diritto all’oblio, la sua dimensione antropologica, quanto meno, se non la sua consistenza normativa.
I.3 Memoria singolare e plurale
La memoria personale è anche collettiva? Eventi come l’olocausto nazista, e l’orrore di un crimine contro l’umanità segnato dalla dismisura, hanno portato a tema la questione. Vedremo che la risposta ha rilevanza per il diritto all’oblio, di cui tratteremo in seguito e, in un certo modo, riduce anche lo scarto tra l’organizzazione dei ricordi nella persona e nelle macchine (computer).
Non c’è dubbio, sul piano del senso comune, che ogni esperienza compiuta entri nella nostra vita in termini di vissuto personale: ci appartiene ed è a tal punto nostro che possiamo dimenticarlo, ripensarlo, utilizzarlo a nostro piacere, anche senza mai comunicarlo a nessuno. Vi sono altresì vissuti, e si tratta della maggior parte – come il primo giorno di scuola o la spesa fatta la scorsa settimana al supermercato – in cui, accanto alla dimensione squisitamente privata (come mi sentivo, cosa ho fatto, chi ho incontrato) ce n’è una pubblica, caratterizzata dalla condivisione, superficiale o più profonda, della medesima situazione. Il mio primo giorno di scuola non sarà mai sovrapponibile a quello di mia madre o di mio padre che mi ha accompagnato, però appartiene anche a lei o a lui, alla maestra, agli altri bambini, ai loro genitori. In fondo, come in una fotografia, il punto focale è uno, ma potevano essere molteplici, quanti le miriadi di punti prospettici che sono dati in natura. La condizione umana, eminentemente sistemica, ci induce a ripensare alla memoria – e anche all’oblio – in una prospettiva di relazione, tra il soggetto e l’ambiente. Se penso a me come sistema aperto ad altri sistemi di mondo, cose, persone, natura, non mi è più possibile considerare un ricordo come frammento di vissuto che appartiene soltanto a me. Le letture sociali della storia, pur generate da una differente motivazione culturale – pensiamo alle pionieristiche ricerche di Marc Bloch sulla storia economica[xii] – non fanno che confermare l’intreccio sistemico. L’umile azione del contadino che, nei campi della pianura padana coltivava farro o legumi ha una portata storica non diversa da quella dei potenti monasteri dell’Alto Medio Evo. La memoria delle sue fatiche non appartiene a lui solo, ma partecipa a comporre il puzzle politico, sociale, economico e culturale del suo tempo. Quel modo di fare storia ha agito in forma importante sulla riapertura dell’oblio che aveva riguardato le umili attività rurali, le fatiche, l’alimentazione e le miserie di ogni singolo componente del contado.
L’approccio sistemico[xiii] ci fa capire anche che la singola memoria, del singolo individuo, va a strutturarsi sempre in rapporto ad un più vasto sostrato ambientale fatto di intrecci di memorie. Tale dimensione antropologica non svuota affatto il profilo personale e privato del ricordo, al contrario, lo rende ancora più prezioso e unico, proprio perché frutto di un singolo, tra molteplici punti di vista, come il nodo di un arazzo. Il dovere di ricordare, come si colloca entro la condizione sistemica del mondo vivente? E il diritto all’oblio, si quali basi può fondarsi, in un contesto di relazioni? La questione si complica se pensiamo al soggetto che è entrato a pieno titolo nel quadro: la memoria informatica. Notiamo, per ora, soltanto l’affermarsi, negli ultimi decenni, di due fenomeni in apparenza antitetici: il dovere del ricordo di eventi tragici e dolorosi del passato (con l’istituzione della Giornata della Memoria o della Giornata delle foibe o del Memorial Day dell’11 settembre 2001) e il diritto, sempre più ampiamente reclamato, di evitare che particolari vissuti siano fatti oggetti di memoria collettiva e/o pubblica (reati commessi, con iter giudiziari conclusi, positivi o negativi, fotografie e video compromettenti). Nel primo si manifesta il timore dell’oblio, nel secondo l’impossibilità del medesimo. Ma in fondo, torniamo al punto di partenza, all’intuizione della materia temporale di cui siamo fatti, che nel suo flusso attualizza di continuo e cancella nello stesso modo, i momenti vissuti. E le macchine?
II PARTE
II.1 Memoria e oblio: nell’uomo e nelle macchine
Viralità, velocità e immortalità sono le caratteristiche dei contenuti informativi e/o disinformativi (fake news) presenti nella rete o web, strumento ormai imprescindibile nella vita di ogni giorno. Se il problema della memoria collettiva, del dovere di non dimenticare muove dai fenomeni – spesso terribili – della vita vera, in carne ed ossa, la questione del diritto all’oblio trova la sua genesi in rapporto alla viralità del mondo digitale. Questo perché le informazioni postate sui social o scritte sul web appartengono in modo contagioso, alla community connessa a Internet. Per quanto si possa cancellare un contenuto lesivo da un motore di ricerca, ciò non significa affatto obliarlo: lo stesso, infatti, può essere stato copiato, rilanciato, diffondendosi in modo da non essere più controllabile. In questo senso, si parla di immortalità di un contenuto in una giurisprudenza sempre più ricca di casi e problematica.
Sulla base delle riflessioni fin qui sviluppate, cerchiamo di focalizzare alcune differenze della memoria della persona e di quella della macchina.
La stoffa temporale – Nell’uomo la memoria è un insieme di istanti che continuamente interagiscono, in questo senso, diciamo che essa è tempo. Nel computer la memoria è essenzialmente contenuto/contenuti: informazioni, parole, testi, foto, video e altri materiali, che entrano nell’archivio elettronico e restano disponibili alla consultazione. Ognuno ha certamente una propria temporalità, una data di pubblicazione, un tempo a cui fa riferimento ciò di cui si parla; tali frammenti restano, però, imprigionati nella loro cronologia, assumendo un carattere dinamico soltanto nella circostanza del riuso.
Dinamismo – La modalità mnestica umana è attività continua, anche quando si dorme, si sogna o si vivono stati di coscienza alterati. In questo contesto, l’oblio come dimenticanza assoluta e definitiva di un contenuto non è pensabile. Al di là dell’aspetto di “contenuto”, i vissuti sono – in quanto esperienze – tempo dalla carica aperta. Nella macchina la difficoltà di ottenere l’oblio di un dato – non si tratta, in questo caso, di vissuto – non dipende dalle interazioni continue, di tipo conoscitivo (o emozionale o deliberativo), bensì dalla viralità dell’informazione del web o dei social network digitali.
La memoria si può inventare – Il caso dei falsi ricordi[xiv], di tipo non intenzionale (non frutto di deliberata invenzione), caratteristici di vissuti traumatici, conferma una volta ancora l’aspetto dinamico e creativo della facoltà mnestica della persona umana che, in presenza di una domanda di senso – «che cosa è successo quando eri solo in casa con papà che ti voleva male?» – si sforza di arrivare a una risposta, per quanto falsa («Sono stato abusato»), ottenuta mediante connessioni tra dati pregressi. Nella macchina la memoria può essere fasulla soltanto in presenza di contenuti falsi (fake news) o di disturbi del sistema, che cancella o modifica il dato (lo taglia, lo incolla, etc).
Un sistema di relazioni – La memoria dell’essere vivente ha un carattere sistemico e creativo. Questo è particolarmente vero nella persona, il solo essere dotato di animazione che possiede anche autocoscienza e, dunque, può avere consapevolezza di quanto pensa e fa. L’interazione continua con altri sistemi (ambiente, altri esseri animati e altre persone) fa sì che il vissuto individuale non possa mai prescindere dalla relazione. Chi inserisce un articolo, una foto o un video nel computer colloca in esso un punto di vista, il proprio: la lettura, la visione, l’ascolto ne rendono partecipi altri, che però vivono da spettatori non da co-protagonisti l’esperienza collocata nella memoria digitale, in quanto dato.
Il vissuto appartiene al soggetto – La condizione sistemica della vita umana non può essere paragonata alla viralità caratteristica della comunicazione informatica attraverso i canali social o internet, pur lasciando intravedere una sorta di analogia. Questo va messo in chiaro, per poter riconoscere al singolo individuo la possibilità di disporre, da solo, del proprio vissuto, sottraendolo alla “rete” anonima della community digitale. La prima e più antropologica caratteristica del sistema interpersonale è espresso dal prefisso inter-, ovvero dall’essere – tra – altri: questo dà al soggetto anche la possibilità di sottrarsi dalla relazione. Il vissuto individuale consegnato al web, ad esempio, resta apertamente e sempre a disposizione di chi, individuatolo, vuole fruirne. Nelle relazioni l’“uso” di qualcuno è sempre “ab-uso”, ovvero un tipo di rapporto che eccede, sfinisce, satura (ab) il termine della relazione. Un caso tipico, e limite, è dato dalla pedopornografia digitale, che manipola immagini di minori per le proprie perversioni.
La memoria come fonte di apprendimento – Ogni conoscenza che entra nell’esperienza partecipa ad irrobustire la massa a consolidarla e a rendere sempre più flessibile la capacità di risoluzione dei problemi. Non sono i contenuti in sé a favorire i progressi dell’intelligenza, logica ed emotiva, ma la capacità di attivare dei circuiti, di collegare in modo sistemico quanto entra nella vita di ognuno. La complessità della condizione personale – nucleo attivo di emotività e volontà, oltre che di abilità cognitive – rende l’intelligenza del soggetto umano di gran lunga più articolata di qualsiasi macchina, nonostante i progressi continui del learning machine, l’apprendimento automatico dei computer, nuova (e promettente) frontiera dell’intelligenza artificiale (AI).
II.2 Novità e dinamismo della memoria
Le considerazioni fatte sopra, di tipo prettamente fenomenologico, frutto dell’osservazione e della riduzione, ci portano ad un guadagno essenziale, all’apparenza vicino al paradosso: la memoria è sempre nuova. Per quanto possa sembrare un recupero di “contenuti” del passato, prossimo o remoto, si tratta di un atto umano continuamente agito, ovvero di un costante nuovo inizio[xv]. Il carattere temporale della condizione umana opera, attraverso la presentificazione, una ininterrotta attualizzazione, che precisamente consiste nel ricaricare di senso il frammento del vissuto. Ora, la relazione tempo-senso[xvi] è una costante nell’esperienza esistenziale di viventi dotati di funzioni intellettive, in particolare di quell’autocoscienza che è prerogativa dell’umano. Sulla falsariga della celebre teoria di Edmund Husserl relativa alla coscienza, secondo cui ogni conoscenza è conoscenza di qualcosa[xvii], possiamo affermare che ogni cosa conosciuta è coscienza di qualcosa, ovvero possiede un carattere generativo: la temporalità del vissuto, nella caratteristica dimensione della durata, esprime un continuo lavorio del senso. Ciò è particolarmente sperimentabile, s’è visto, nel caso delle memorie traumatiche, che si affrontano e si superano, nella gran parte dei casi, proprio attraverso il lavoro di significazione; dove l’interpretazione non è processo ermeneutico generico rispetto al dato, ma azione sulla memoria, che riconsegna impliciti e sottintesi mediante l’attenzione[xviii]. Questa premessa, pur succinta, ci introduce nella parte finale del nostro ragionamento sulla possibilità dell’oblio, in particolare sulle ragioni antropologiche che giustificano, avvalorandolo, il diritto all’oblio nel mondo della memoria digitale.
Da un lato, trova conferma ulteriore il fatto che la persona non rimuove mai in forma assoluta i propri vissuti, anche quando non ne ha consapevolezza. Dall’altro, la macchina – non agendo in forma creativa sui ricordi, ma stivando contenuti e consentendone la loro diffusione – non consente al soggetto quell’attività fondamentale che è la rielaborazione dei propri vissuti o “memoria di funzione” (Scheler)[xix]. Se, dunque, sul piano meccanico, per l’aspetto della viralità e della riproducibilità dei contenuti, nessun motore di ricerca garantisce, de facto, l’oblio di un contenuto, sul piano teorico il diritto a cancellare in via permanente un vissuto mediatizzato, trova una sua fondamentale giustificazione: quel contenuto viene privato, nella fruizione pubblica, della carica temporale che lo rende costantemente nuovo nella prospettiva del suo autore. Prendiamo il caso dell’autore di un delitto, anche molto grave, che sia stato giudicato, riconosciuto colpevole e abbia pagato il debito con la giustizia. Per legge, ha pieno diritto all’oblio. Anni dopo la sua storia viene ripresa, rilanciata, diffusa attraverso gli incontrollabili canali del web. In che senso l’autore può rendere nuova la vicenda, mentre il web no? Chi ha commesso il fatto ha avuto la possibilità, nel patire la pena, di riflettere sulle proprie azioni, che continuano ad appartenergli in ogni attimo della vita; il processo di pentimento o di consapevolezza non cambiano lo stato delle cose – quel che è fatto resta immodificabile – però agiscono sulla persona, sul nucleo attivo di sentimento, volontà, intelligenza. Dopo la pena, l’autore può avere intrapreso anche un’altra vita, rispetto alla quale l’episodio delittuoso certamente entra, ma nella prospettiva per così dire “metabolizzata” e vissuta che si diceva.
Consideriamo invece il caso di una falsa notizia, riconosciuta tale anche dal suo autore (celebre il caso dell’autismo come effetto collaterale dei vaccini dell’infanzia), che si mantiene vitale. Più che mai l’oblio si renderebbe necessario. In questo caso non abbiamo una sentenza passata in giudicato, ma una palese falsità, ad alto rischio per la salute pubblica. L’impossibilità di cancellarla si riverbera non tanto sull’autore, ma sulla vita di quanti – non al corrente della storia della notizia – vi attribuiscono credibilità o di coloro che, pur sapendola falsa, mantengono aperta la porta del dubbio (e se, in qualche modo, questo pseudo scienziato avesse ragione?). Il caso è suggestivo, almeno sul piano filosofico, perché mostra come ogni memoria sia dinamica e sfugga all’inquadramento temporale del vissuto originario.
Lo spazio interpretativo aperto dalla notizia falsa è essenzialmente questo, a riprova della relazione pervasiva tra tempo e senso. Nel caso della sentenza passata in giudicato, il diritto all’oblio trova il suo argomento principe, sul piano antropologico, nel fatto che l’autore ha riempito di tempo e di senso quell’esperienza: la pena, la riabilitazione, il ripensamento; si tratta di un percorso che appartiene a lui solo. Nel caso della notizia falsa, pericolosa e virale, siamo tutti esposti a un danno. La carica di questo vissuto pesa sul suo autore, ma soprattutto si riverbera sui lettori. Ma in tutti e due i casi citati il fondamento dell’oblio si basa sul medesimo presupposto: i contenuti della memoria presentano una carica dinamica, che nel web e nei social network si amplifica proporzionalmente alla loro diffusione non per il mezzo in quanto tale, quanto per la fruizione, da parte di soggetti umani con facoltà cognitive.
II.3 Oblio, essere o non essere?
Il ragionamento ci conduce a un risultato problematico riguardo al tema di partenza, la consistenza ontologica dell’oblio. Si tratta di una questione filosofica poco esplorata, ad oggi, nonostante l’animosità dei confronti sulla liceità del diritto all’oblio: gli assertori sostengono l’argomento della privacy, i detrattori oppongono il diritto di cronaca, che rende ogni vissuto – di interesse pubblico – un contenuto di cui si deve sempre poter disporre, quando è in gioco il presupposto informativo, entro una cornice democratica. Certo è che, nei due casi, l’affermazione o la negazione di un diritto vale soltanto se riusciamo con certezza a configurare che esso si riferisce a qualcosa. L’oblio, dunque, è un ente?
Se la memoria racchiude tutti i frammenti della vita, essa può raggruppare anche attimi che sfuggono alla consapevolezza, rimuovendoli dai cassetti consultati più di frequente nel nostro riandare al passato. Quei contenuti obliati restano, a tutti gli effetti, parte del flusso dei vissuti che – essendo tempo – partecipano nei modi più diversi a costruire “chi” siamo.
Dal punto di vista del soggetto agente, dunque, l’oblio non è che memoria: aveva ragione lo sguardo della classicità a configurarlo come un incominciamento che esprime uno sguardo qualitativo, non cronologico, sull’azione. L’oblio non è possibile, in forma assoluta, nemmeno sul piano collettivo, per le medesime ragioni: un vissuto può non appartenerci in prima persona, in quanto agenti, però certamente entra nelle nostre storie personali se ne siamo stati in qualche modo raggiunti. È probabile che continueremo per parecchio a ricordarci di una strage o di un fatto di cronaca nera dai risvolti drammatici. E che, se anche Vittorio Emanuele di Savoia avesse ottenuto il riconoscimento del diritto all’oblio per aver provocato la morte di un ragazzo nell’estate 1978 sull’Isola di Cavallo, quell’avvenimento entra nella memoria collettiva come un episodio gravissimo e gratuito, con protagonista un personaggio del jet set internazionale.
Sul piano digitale, pur dando atto alla macchina di una certa capacità di apprendimento attraverso pattern e algoritmi – il machine learning[xx] – si apre uno spazio teorico più elastico per configurare lo statuto ontologico dell’oblio. Se il contenuto viene rimosso, il motore di ricerca non lo rintraccia più (ma con altri providers è teoricamente possibile); dunque, il materiale cancellato non si presta nemmeno più alle connessioni conoscitive dell’intelligenza artificiale di quella specifica macchina. Obliato il vissuto, vengono meno anche le modalità di relazione, nei limiti propri della macchina. Ci troviamo davanti a 1) un oblio possibile da parte della macchina, in quanto il vissuto in questione è essenzialmente un “dato”, “qualcosa” di cancellabile e 2) a un oblio impossibile, in quanto il vissuto entra in altri vissuti, come parte integrante delle relazioni collettive, a partire dalla comunicazione. In questa circostanza, l’inconsistenza del diritto all’oblio si fonda sulla non consistenza ontologica del “rimosso”, sempre pienamente parte del vivere collettivo.
Tali due aspetti sono esattamente i tratti emergenti, all’apparenza tra loro in conflitto, che ritroviamo anche nella causa contro Google Spagna e contro l’Agencia Española de Protecciòn de Datos intentata da un cittadino spagnolo che lamentava la pubblicazione di fatti privati. La sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea – nota come “Google Spain” (Case C-131/12, 2014)[xxi] ha, in effetti, riconosciuto il trattamento dei dati personali del ricorrente secondo due modalità diverse: il motore di ricerca è stato obbligato a cancellare il riferimento, mentre il quotidiano che ha pubblicato la notizia non ha dovuto espungerla dal proprio archivio.
L’intera questione del diritto all’oblio, dentro e fuori le piattaforme digitali[xxii], si trova, in effetti, sospesa tra due corni di un dilemma dalle imprescindibili implicazioni etiche[xxiii]: 1) come rispettare il diritto individuare di disporre, in prima persona, dei propri vissuti, compresi quelli che sono finiti in vario modo (anche foto imbarazzanti, postate per gioco e rischiose per la reputazione) nelle memorie digitali; e, nello stesso tempo 2) come rispettare il diritto a informare e a far circolare, in forma collettiva, contenuti di senso (o di non senso) nel rispetto dei principi democratici. Ora, abbiamo visto che la memoria individuale non appartiene in senso assoluto soltanto all’agente, perché – come nel caso del primo giorno di scuola – altri soggetti hanno preso parte a quel vissuto, con il risultato di una sorta di interferenza di punti di vista. Nemmeno le emozioni, come l’amore o l’odio, da questa prospettiva, possono dirsi avulse da dinamiche relazionali.
Entrambe le prospettive sull’oblio ruotano su un comune baricentro: il principio di rilevanza. A differenza di me, soggetto agente, che decido se e quando qualcosa – un vissuto personale, nel nostro caso – è rilevante, in un contesto collettivo le dinamiche sono molto variegate, confuse e il metro per giudicare la rilevanza di una notizia appare aleatorio. Lo stesso diritto di cronaca è sempre frutto di una valutazione rispetto all’interesse generale.
In questa aggrovigliata matassa si infila anche un ulteriore pungolo: per rimuovere i contenuti personali dal motore di ricerca va fatta una richiesta al medesimo, che la valuta, decidendo se è praticabile o meno. Poiché il metodo decisionale si basa su un algoritmo ed è affidato a una macchina, siamo paradossalmente in presenza di una memoria elettronica chiamata a operare sulla memoria personale. Pur dando atto all’apprendimento automatico (machine learning) di aprire nuovi scenari cognitivi, è evidente che un computer non potrà mai prendere una decisione “ragionevole”, anche se soddisfacente per il richiedente. Siamo dunque sospesi a una macchina? A favore del diritto all’oblio gioca, paradossalmente, il fatto che l’oblio non è qualcosa a se stante (inconsistenza ontologica), ma entra nel flusso della memoria, la cui elaborazione, costante, incessante, appartiene in prima persona al soggetto dei singoli atti. Non credo, come altri[xxiv], che si debba distinguere tra l’Io reale e l’Io digitale. L’unico soggetto a vantare una consistenza ontologica personale è quello che può dire “io”, attraverso il proprio esserci in presenza, con le proprie facoltà attivate o per il fatto di trovarsi qui e ora, nella condizione di vivente, dunque anche in uno stato alterato di coscienza (es: il coma). Il diritto all’oblio ha senso, nella persona reale, perché il vissuto di cui si chiede la rimozione è già entrato – lo è dall’attimo in cui viene agito – nell’evoluzione del profilo personale. Ammettere sul piano legislativo la possibilità dell’oblio, può dunque significare riconoscere al soggetto umano la sua rigenerazione e la possibilità del cambiamento, caratteri che sono insiti nella stoffa temporale dell’umano, in virtù della memoria, di cui l’oblio non è che l’incominciamento di una rimozione, che tuttavia opera incessantemente lo stesso sul piano dinamico.
L’io digitale, sempre impiegando con molta cautela il pronome di prima persona, non dà conto che di una parte – scorporata dal sistema vita – del soggetto. Nel motore di ricerca del web, in altri termini, io posso restare in via definitiva quello che ha postato una foto sconveniente o l’autore di un reato.
Il diritto all’oblio, per concludere, non può essere considerato una rivendicazione basata sulla tutela della privacy – come oggi succede – perché lo caratterizzano ragioni antropologiche (l’io reale possiede dinamismo; la traccia digitale no, non è rappresentativa del cambiamento personale) che meritano di essere prese in esame con profondità e rigore.
[i] J. K. Foster, Memoria, Genova, Codice, 2012.
[ii] M. A. Brandimonte, Psicologia della memoria, Roma, Carocci, 2004.
[iii] Nei 12 volumi in cui sono riuniti gli scritti di S. Freud nell’edizione italiana di Bollati Boringhieri, il padre della psicoanalisi dedica un solo capitolo alle modalità temporali dell’inconscio. Il primo riferimento è quello contenuto nelle Minute teoriche per Wilhelm Fliess del 1897. Parlando di un certo tipo di sintomi dell’inconscio, Freud afferma: «Il primo tipo di distorsione consiste in una falsificazione del ricordo mediante frammentazione, ove sono trascurati soprattutto i rapporti cronologici». Inoltre «le correlazioni cronologiche sembrano dipendere dall’atto della coscienza». Un’allusione al tema lo troviamo, per la verità, già in uno scritto del 1896 (Etiologia dell’isteria). «Sembra quasi – scrive Freud – che la difficoltà di eliminare un’impressione attuale, l’incapacità di trasformarla in un ricordo inoffensivo, dipenda proprio dal carattere dell’inconscio psichico». Un successivo commento è proposto nel saggio L’interpretazione dei sogni (1899): «È esatto – sostiene Freud – che i desideri inconsci rimangano sempre attivi. Essi rappresentano vie praticabili ogni qualvolta un quantum di eccitamento se ne serva. E’ addirittura un carattere preminente dei processi inconsci quello di rimanere indistruttibile. Nell’inconscio nulla può essere portato a termine, nulla è trascorso o dimenticato (…)». In L’inconscio (1901) Freud scrive: «I processi del sistema Inc sono atemporali, cioè non sono ordinati temporalmente, non sono alterati dal trascorrere del tempo, non hanno, insomma, alcun rapporto con il tempo. Anche la relazione temporale è legata al lavoro del sistema C (conscio, nda)». Ulteriore riferimento in Al di là del principio di piacere, che si presenta come una critica della teoria kantiana del tempo come un a priori. «A questo punto – ammette – mi permetterò di toccare brevemente un argomento che in verità meriterebbe di essere trattato nel modo più approfondito. Sulla base di alcune scoperte psicoanalitiche, oggi la tesi kantiana che il tempo e lo spazio del nostro pensiero, può essere messa in discussione. Abbiamo appreso che i processi inconsci sono, di per sé, atemporali. Ciò significa, in primo luogo, che questi processi non presentano un ordine temporale e che il tempo non li modifica in alcun modo, che la rappresentazione del tempo non può esser loro applicata». In Nota sul notes magico (1924) la rappresentazione del tempo, secondo Freud, è l’esito della discontinuità tra conscio-inconscio, come se l’inconscio «avvalendosi del sistema P-C protendesse delle antenne al mondo esterno, che vengono poi rapidamente ritratte indietro non appena hanno assaggiato gli eccitamenti». Ritroviamo l’idea dell’assenza di coordinate spazio temporali inconsci in Nuovi consigli sulla tecnica del 1927.
[iv] Per la normativa deontologica e i riferimenti di legge, per giornalisti e operatori della comunicazione, è utile consultare le pagine del sito dell’Ordine dei giornalisti, www.odg.it.
[v] Il saggio apre la raccolta. M. Scheler, L’eterno nell’uomo, Roma, Logos, 1991.
[vi] «Werd ich zum Augenblicke sagen: / Verweile doch! Du bist so schön», in J. W. Goethe, Faust, Milano, Mondadori, 1990, vv.1699-1711.
[vii] «Zum Augenblicke dürft ich sagen: / “Verweile doch, du bist so schön», J. W. Goethe, Faust, Milano, Mondadori, 1990, vv.11581-82.
[viii] Sul rapporto tra il dolore del parto come freno per nuove gravidanza si legga, della stella Ulla Waldestrom e altri: “A negative birth experience: prevalence an risk factors in a national sample”, in Birth, 2004, pag. 17-27.
[ix] F. Shapiro, Eye Movement Desensatization and Reprocessing (EMDR): basic principles, protocols and procedures, New York, The Guilford Press, 2001.
[x] Negli studi sull’Emdr l’aspetto temporale della metodica resta pressoché inesplorato, nonostante esso partecipi a dare significato al nome e alla sostanza di tale agire – Eye Movement Desensitization and Reprocessing -: in quanto processo e in quanto attivo su un evento collocato in un tempo specifico, il suo ruolo è decisivo. Tuttavia, l’attenzione terapeutica appare principalmente rivolta all’immagine dell’evento traumatico, cioè al suo darsi – nel presente della rimemorazione – attraverso la rappresentazione. Il paziente stesso, oltretutto, sente di operare su qualcosa che (ri)vede con la mente, ma di fatto ritorna a quegli istanti, perché l’immagine a cui guarda non ha la fissità di un quadro, bensì piuttosto il dinamismo di un film. L’efficacia terapeutica dell’Emdr consiste nel riaprire il passato, quasi scongelandolo, per ridargli il calore e la consistenza dell’attualità. In questo procedere vi è qualcosa in comune e molto di differente rispetto all’approccio psicoanalitico: da un lato, in entrambi si dà una regressione controllata, ma l’Emdr non «ricrea il passato»[x] ma lo riprende per mano, per usare un’immagine, e lo conduce al presente, rendendolo attuale. Qui incontriamo un fattore di intersezione tra il metodo psicologico e la psicoanalisi: la possibilità di «rivivere nel presente esperienze passate», uno spazio in cui «si esplica il (…) potenziale terapeutico»[x]. AA VV, “Dall’inconscio alla relazione: un mutamento di prospettiva sull’ ‘oggetto psicoanalitico’”, in Archivio di Psicologia Neurologia e Psichiatria, Milano, Vita e Pensiero, ott-dic 1983.
[xi] I. Fernandez, G. Maslovaric, M. Veniero Galvagni, Traumi psicologici, ferite dell’anima. Il contributo della terapia con Emdr, Napoli, Liguori Editori, 2011.
[xii] Tra i più celebri scritti dello storico del Medio Evo francese (1886-1944), in questa prospettiva critica, ricordiamo: Les caractéres originaux de l’histoire rurale française (1931); La société féodale (1939-40), Esquisse d’une histoire monétaire de l’Europe (1954).
[xiii] Rinvio ai tre fondamentali volumi di Strutture di mondo. Il pensiero sistemico come specchio di una realtà complessa, editi da Il Mulino.
[xiv] A. D’Ambrosio e altri, La sindrome dei falsi ricordi, Milano, Franco Angeli, 2014
[xv] H. Arendt, The Human Condition, Chicago, The University of Chicago Press, 1958
[xvi] Rinvio alla mia tesi di laurea in filosofia teoretica, “La temporalità del senso”, discussa all’Università Cattolica di Milano (1999), relatore prof. Adriano Bausola, correlatore prof. Gianfranco Bettetini e al saggio: Ontologia della speranza, Mantova, Gilgamesh editore, 2014.
[xvii] E. Husserl, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, Milano, Franco Angeli, 1981; “Phenomenology of internal time consciousness”, in The Essential Husserl, Bloomington: Indiana University Press, 1999; Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie, Den Haag: Nijhoff, “Husserliana”, vol. III/1, 1976; trad. Idee sulla fenomenologia pura e sulla filosofia fenomenologica Torino, Einaudi, 1981.
[xviii] «Grazie all’attenzione che lo coglie – scriveva Husserl – il vissuto acquista una nuova maniera d’essere, diventa qualcosa di “distinto”, di “rilevato” e questo distinguere non è, appunto, nient’altro che l’esser-colto, l’essere oggetto dell’attenzione». E. Husserl, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, Milano, Franco Angeli, 1981, Appendice XI
[xix] «Il vero e proprio oggetto di pentimento è però del genere di memoria di funzione (…) non è qui l’azione del passato svelatesi nel ricordo, cioè il contenuto di valore negativo che abbiamo compiuto nell’azione, bensì riviviamo quell’Io parziale della nostra persona totale dalle cui radici scaturì l’azione e l’atto di volontà (…) Soltanto partendo da un diversamente forte prevalere dell’oggettivo comportamento negativo dell’Io agente e dell’Io parziale passato si può parlare di un ricordo pieno di pentimento». M. Scheler, “Pentimento e rinascita”, in “L’eterno nell’uomo”, op. cit., pag. 73.
[xx] P. Flach, Machine learning, Cambridge, Cambridge University Press, 2012.
[xxi] Molto dettagliato il testo di due student della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa: A. Davola, E. Stracqualursi, “Eclipsing the web: online data protection and liability of search engines in the Google Spain case”, scaricato da Academia.edu
[xxii] F. Sassano, Il diritto all’oblio tra internet e mass media, Frosinone, Key Editore, 2015.
[xxiii] Sul ruolo decisionale dei gestori dei motori di ricerca, si legga il saggio di M. Taddeo, L. Floridi (a cura di), The responsibilities of online service providers, New York, Springer, 2017.
[xxiv] A. Barchesi, La tentazione dell’oblio, Milano, Franco Angeli, 2016.