EXAGERE RIVISTA - Gennaio-Febbraio 2025, n. 1-2 anno X - ISSN 2531-7334

La memoria nel tempo: il ricordo di intenzioni e la consapevolezza di sé tra invecchiamento normale e patologico

di Cristina Pagni

 

 

Introduzione

 

La nostra memoria subisce dei cambiamenti nell’arco del ciclo di vita e anche la nostra percezione del suo funzionamento si modifica.  Se è vero che “noi siamo i nostri ricordi”, è immediato e naturale chiedersi cosa avviene quando questi ricordi sono intaccati dal passare del tempo o da un processo patologico.

Cercherò di rispondere a questa domanda puntando il focus su due funzioni che sono il frutto dell’interazione fra memoria e una pluralità di processi – classicamente definiti esecutivi – che agiscono a differenti livelli: il ricordo di intenzioni e la consapevolezza di sé. Entrambe queste funzioni subiscono dei cambiamenti nel tempo e appaiono gravemente alterate nella malattia di Alzheimer.

 

Percezione della memoria nel tempo

L’esperienza che la nostra memoria sia fallibile è qualcosa di quotidiano per tutti, ad ogni età. McCaffrey e colleghi (2006), interessati ad indagare la frequenza basale con cui i disturbi vengono riferiti dalla popolazione normale, hanno redatto un’interessante lista in cui troviamo il “tasso base” di alcune classiche dimenticanze. Nel loro campione di 223 soggetti con età media di 30 anni, i disturbi di memoria più frequentemente riportati consistevano nel dimenticare dove si è posteggiata l’auto (frequenza del 32%), nella perdita delle chiavi dell’auto (31%) e nel dimenticare il motivo per cui si è entrati in una stanza o cosa si è mangiato a colazione il giorno precedente (entrambi con una frequenza del 27%). Nel campione di soggetti più giovani, 620 studenti universitari, erano invece riferite con maggiore frequenza le cosiddette anomie, vale a dire le difficoltà a ricordare una parola nell’eloquio spontaneo (con il 27%) e le difficoltà nella formulazione del discorso (17%).

Dimenticare, quindi, è un fenomeno naturale, presente anche in giovane età, ma che nell’età adulta e nell’invecchiamento acquista particolare rilevanza, assumendo le caratteristiche di un trigger che può provocare ansia, preoccupazione e angoscia. I disturbi soggettivi di memoria seguono un trend in aumento sia nell’arco del ciclo di vita che nel tempo, con una maggiore prevalenza nella fascia di età superiore a 75 anni e un incremento complessivo di 2 punti percentuale (da 7.5% a 9.5% di prevalenza) nel gruppo di età compresa fra 16-64 anni dal 1993 al 2007 (Begum et al., 2014). Questo è frutto, verosimilmente, di una maggiore consapevolezza e attenzione a questo tipo di difficoltà e dei ritmi di vita molto intensi che caratterizzano il nostro tempo.

Nella pratica clinica i disturbi soggettivi di memoria non sempre sono attribuibili ad un decadimento cognitivo incipiente, anzi possono migliorare nel tempo e rappresentano un quadro eterogeneo che si associa ad altri disturbi (Paradise et al., 2011). Le difficoltà di memoria e concentrazione, infatti, possono far parte della sintomatologia di quadri depressivi e ansiosi ed essere espressione di un disturbo da ansia di malattia (Stone et al., 2015). Recentemente è stata descritta e studiata anche la cosiddetta “dementia worry” (Kessler et al., 2014), la particolare paura di sviluppare una sindrome dementigena.

E’ un dato solido che la nostra memoria subisca dei cambiamenti con l’invecchiamento. Gli studi trasversali sulla memoria episodica hanno dimostrato un trend lineare progressivo decrescente in funzione dell’età, sebbene gli studi longitudinali suggeriscano un quadro leggermente diverso, con un livello prestazionale relativamente stabile fino alla mezza età, seguito da un brusco calo. Gli studi sugli altri sistemi di memoria (memoria semantica, memoria a breve termine, memoria percettiva e procedurale) mostrano, invece, un livello di prestazione relativamente costante nell’arco della vita adulta (Nilsson,2003).

 

Memoria prospettica e invecchiamento

Guardiamo da vicino un tipo particolare di memoria, la memoria prospettica, indispensabile per “ricordarsi di ricordare”. La memoria prospettica (MP), o ricordo di intenzioni, fa riferimento all’abilità di formulare intenzioni e di programmare azioni che saranno eseguite in futuro. Com’è facilmente intuibile, la MP non è un’abilità discreta, ma il frutto dell’azione sinergica di diversi processi cognitivi quali attenzione, memoria, controllo dell’azione, più in generale delle cosiddette funzioni esecutive (Burgess et al., 2000). Questo è supportato dai dati di neuroimaging che dimostrano in maniera concorde il coinvolgimento della corteccia prefrontale rostrale in tutti i compiti di MP.

Un buon funzionamento della MP è essenziale in tutte le attività della vita quotidiana, da quelle lavorative (ad es. ricordarsi di consegnare dei documenti) a quelle sociali (ad esempio ricordarsi un appuntamento dato a un amico), fino alle azioni importanti per la salvaguardia della salute (ad es. ricordarsi di assumere dei farmaci). Sembra che il 50-80% delle difficoltà di memoria sperimentate nella vita di tutti i giorni, possano essere ascritte alla MP (Kliegel & Martin, 2003). I fallimenti della MP possono anche avere conseguenze disastrose, come ci ricordano i casi di bambini dimenticati nell’auto sotto il sole cocente o di chirurghi che dimenticano strumenti operatori nell’addome dei pazienti.

Negli studi sperimentali che indagano la MP si è soliti distinguere due componenti: la componente prospettica (il recupero dell’intenzione di fare qualcosa) e retrospettiva (il ricordo del contenuto dell’azione da compiere). Mentre la componente retrospettiva condivide molte delle caratteristiche funzionali della memoria episodica, la componente prospettica si basa sul coinvolgimento delle funzioni esecutive frontali.

I compiti utilizzati possono essere abituali o episodici, analogamente a quanto avviene per la memoria retrospettiva, in cui si distinguono il sistema di memoria semantica ed episodica (Graf & Uttl, 2001; Einstein et al., 1998). I primi riguardano le attività eseguite regolarmente che rappresentano una routine (ad es. assumere un farmaco ogni giorno alla stessa ora); i compiti episodici sottendono, invece, un’intenzione ben precisa che deve essere eseguita solo una volta (ad es. prenotare una visita specialistica). Gli ultrasessantenni, ad esempio, commettono più frequentemente errori in compiti abituali (Einstein et al., 1998; McDaniel et al., 2009).

Per quanto riguarda i paradigmi di indagine, Einstein e McDaniel (1990) hanno introdotto la distinzione fra compiti basati sull’evento e sul tempo. Nel primo caso l’intenzione deve essere attuata nel momento in cui si presenta un certo evento target, mentre nella versione basata sul tempo l’azione deve essere compiuta dopo un certo intervallo di tempo o ad un preciso orario.

Sebbene molti studi abbiano riportato un declino nella MP dovuto all’età, i dati in letteratura non evidenziano un quadro ben definito (Henry et al., 2004). Un dato piuttosto consistente è che i soggetti più anziani tendono a riportare una prestazione migliore rispetto ai giovani adulti in compiti basati sul tempo svolti in situazioni naturalistiche (Rendell & Craik, 2000). In particolare, i partecipanti più anziani sembrano essere più motivati in compiti che mimano situazioni di vita quotidiana, fanno maggior ricorso ad aiuti esterni (come liste e note) e hanno generalmente uno stile di vita più strutturato e routinario rispetto ai giovani adulti. Al contrario, nei compiti di MP basati sul tempo svolti in laboratorio, la prestazione dei giovani adulti è significativamente migliore rispetto ai soggetti più anziani. I soggetti anziani, infatti, tendono a monitorare l’ora meno frequentemente, probabilmente a causa di ridotte risorse attentive e di un’errata percezione e stima del tempo trascorso (Einstein et al., 1995).

Nei compiti basati sull’evento svolti in laboratorio i risultati sono piuttosto contrastanti: alcuni studi riportano una prestazione inferiore dei soggetti più anziani (Cherry et al., 2001) mentre altri non trovano differenze significative legate all’età (Einstein & McDaniel, 1990).

Com’è possibile conciliare questi diversi risultati? Esistono alcune dimensioni significative che sembrano determinare la grandezza e la direzione dell’effetto dell’età sulla MP. In particolare all’aumentare delle richieste strategiche del compito, aumentano i deficit legati all’età. Questo dato è in accordo con l’ipotesi del lobo frontale dell’invecchiamento, secondo la quale la presenza di un deficit legato all’età dipende strettamente dal grado con cui le funzioni frontali sono coinvolte nello specifico compito di memoria (Moscovitch & Winocur, 1992; West, 1996). Gli studi di volumetria cerebrale suggeriscono, infatti, che l’invecchiamento determina un declino più pronunciato nella corteccia prefrontale rispetto ad altre regioni, comprese le aree temporali mesiali (si veda Raz et al., 2005 per una meta-analisi). Coerentemente con questo dato, i compiti di MP con un forte coinvolgimento frontale dimostrano il maggior declino legato all’età (Glisky, 1996; Vogels et at., 2002). Al contrario, le prove di MP che richiedono una pianificazione minima e che non si basano sui processi frontali quanto piuttosto su processi di recupero spontaneo legati alle strutture temporo-mesiali, mostrano un declino minimo o nullo con l’invecchiamento. I processi di recupero spontaneo sembrano, infatti, risparmiati dal normale invecchiamento (Jennings & Jacoby, 1997; Schmitter-Edgecombe, 1999; Scullin et al., 2010; McDaniel & Einstein, 2011).

Diverso è il caso dei pazienti affetti da decadimento cognitivo, in cui si osservano alterazioni neuropatologiche a livello delle aree medio-temporali. Nei pazienti con malattia di Alzheimer Maylor et al. (2002) hanno osservato una prestazione inferiore, rispetto ai soggetti di controllo di pari età, sia in compiti basati sul tempo che sull’evento, anche quando la rievocazione del contenuto dell’azione da compiere avveniva con successo.

Pertanto, la MP appare una misura molto sensibile al deterioramento cognitivo: la prestazione in compiti basati sull’evento può individuare soggetti a rischio di sviluppare la malattia di Alzheimer (Jones et al., 2006). I risultati di una meta-analisi hanno mostrato che i pazienti con demenza e Mild Cognitive Impairment (declino cognitivo lieve) presentano deficit importanti di MP, sovrapponibili in termini di grandezza dell’effetto per compiti basati sul tempo e sull’evento, nonché per memoria prospettica e retrospettiva (Van den Berg et al., 2012).

Consapevoli della rilevanza di questo tipo di memoria è facile immaginare le ricadute negative sulla capacità di muoversi indipendentemente nei contesti di vita quotidiana e, più in generale, sulla qualità di vita delle persone affette da demenza e dei loro familiari.

 

Consapevolezza e memoria

“Anche essere consapevoli di sé, è un atto di memoria. La capacità di integrare nuove informazioni o combinare diversamente informazioni note richiede una forma di memoria legata alla coscienza di ciò che avviene qui e ora”(Brandimonte, 2004)

Un’altra importante funzione della memoria, frutto di una pluralità di processi che agiscono a differenti livelli di complessità, è la consapevolezza di sé. Il sé è un chiaro esempio di processo emergente (Varela & Bruce, 2002), un prodotto del corretto funzionamento di networks cerebrali collegati alla memoria autobiografica, alla percezione somato-sensoriale, al linguaggio, guidati in modo top-down dalla cultura che con le sue norme e i suoi valori dà visibilità ad alcune caratteristiche e ne filtra altre (Mograbi, 2009). Il senso di sé, dato dalle rappresentazioni dell’identità personale immagazzinate in memoria e basate sull’esperienza personale e su processi ricostruttivi, è l’esito dell’interazione sinergica fra aree cerebrali temporo-mesiali e prefrontali.

Nel modello definito Self memory System framework (2005a), Conway individua un rapporto reciproco e bidirezionale fra la memoria a lungo termine e il sé: la memoria determina cosa il sé è e può essere, mentre il sé modula l’accesso alla memoria. Il sé è rappresentato da categorie che ne definiscono i valori, gli atteggiamenti, le credenze e da schemi interpersonali. Esso esiste indipendentemente dalla memoria autobiografica, che è chiamata in causa per attivare specifici esempi in grado di contestualizzare e fornire una base “operativa” agli schemi contenuti nel sé. Nel modello di Conway, pertanto, la memoria autobiografica funge da database del sé.

A partire da questo ed altri modelli si è sviluppata l’idea secondo cui le memorie dell’adolescenza e della prima età adulta hanno un ruolo importante e strategico nella formazione del senso d’identità personale. Numerosi studi che hanno indagato il richiamo di eventi autiobiografici in soggetti adulti, hanno dimostrato una maggiore rievocazione di eventi legati all’adoloscenza e alla prima età adulta, un pattern di risultati replicato in culture e paesi diversi (Conway, 2005; Conway et al., 2005). Questo periodo gioca un ruolo chiave nella formazione dell’identità, nei termini di definizione degli obiettivi personali a lungo termine e dei modelli di interazione e integrazione con la società. Questo stesso periodo coincide con la maturazione dei lobi frontali (Huttenlocher, 2002), suggerendo una doppia valenza biologica e sociale per il primato dei ricordi dell’adolescenza e delle prime fasi dell’età adulta.

E’ esperienza comune ascoltare persone anziane rievocare instancabilmente i loro ricordi di giovinezza, che dopo molti anni sembrano rimasti indenni da qualsiasi forma di depauperamento. Proprio gli eventi e le emozioni lontani sono quelli fissati meglio e appaiono centrali per la definizione del senso di sé. Con il passare del tempo, comunque, i nuovi eventi vanno ad arricchire la memoria autobiografica provocando continui aggiustamenti del database personale che garantiscono sempre un senso di continuità del sé.

Nel decadimento cognitivo gli effetti sul sé dei pazienti sono strettamente legati al pattern di deficit cognitivi presenti nella malattia: una marcata amnesia anterograda, accompagnata da un’amnesia retrograda più graduale e dal progressivo deperimento delle conoscenze semantiche. La rappresentazione semantica di sé è più conservata rispetto a ricordi remoti, poiché il danno ippocampale non influenza le informazioni semantiche più vecchie. Tuttavia, il mancato aggiornamento della conoscenza di sé può portare ad una ridotta consapevolezza di malattia e ad una sorta di sé-pietrificato (Mograbi, 2009). Poiché il processo narrativo del sé è collegato a un database obsoleto, incapace di aggiornarsi, i pazienti si definiscono attraverso informazioni personali lontane nel tempo o riempiono i vuoti con delle confabulazioni, cioè dei falsi ricordi.

Questo processo è stato magistralmente descritto da Pupi Avati nel film “Una sconfinata giovinezza” (2010). In questa pellicola troviamo Fabrizio Bentivoglio nei panni di Lino, un esperto giornalista sportivo, che deve fare i conti con un progressivo deterioramento cognitivo. Si assiste ad una regressione di Lino sua giovinezza, frutto della malattia di Alzheimer che opera un “congelamento” del sé. I continui flash back sull’adolescenza del protagonista sono il riflesso di una memoria incapace di stare al passo con il presente e di proiettarsi al futuro.

E’ verosimile pensare che rifugiarsi in questi ricordi tolga il protagonista dalla sensazione di frustrazione provocata da un mondo diventato troppo difficile da capire e da relazioni che richiedono prestazioni non più alla sua portata. È in questo luogo psicologico che Lino andrà a “nascondersi” ritrovando per sempre la sua giovinezza.

 

 

Bibliografia

 

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