di Giulia Pratelli -
EXAGERE RIVISTA - Luglio - Agosto - Settembre 2024, n. 7-8-9 anno IX - ISSN 2531-7334

La musica ti conduce dove stai bene

di Giulia Pratelli

La musica,  nei momenti di difficoltà, dolore e isolamento diventa via di fuga e àncora di salvezza?  Lo abbiamo chiesto a Zibba, cantautore, autore e produttore, vincitore, tra le altre cose, della Targa Tenco 2012 come Miglior Album Assoluto, del Premio della Critica Mia Martini e del Premio della Sala Stampa Radio-Tv-Web Lucio Dalla in occasione del Festival di San Remo 2014, al quale ha partecipato nella categoria Nuove Proposte.

– Sembra che questo tempo, fermo per necessità, riduca le nostre aspettative, la nostra capacità di guardare lontano ci impedisca di volare. Nella tua canzone Nancy canti “amo la musica perché mi porta ovunque e dallo stesso ovunque mi riporta via”. In questo momento così complicato, in cui abbiamo tutto a portata di mano senza poterlo davvero toccare, può, secondo te, l’arte, e in particolar modo la musica, portarci ancora altrove, salvarci dalle difficoltà del quotidiano, aiutarci a  volare?

– La musica e l’arte non cambiano nella loro essenza. Il nostro goderne quotidiano non cambia. E forse spogliate da aspettative e scadenze le arti sono ancora più belle. Di certo di questo momento dell’intangibilità del tutto a me non frega proprio niente. Mi sento assente, non mi sento parte. E in questo la musica continua a portarmi ovunque si stia meglio.


– Oltre ad essere un cantautore e un musicista sei un autore e un produttore. Molti aspetti della tua professione si svolgono lontano dal palcoscenico e sono legate alla composizione e alla scrittura. Il vissuto di questo ultimo anno, caratterizzato dall’impossibilità
di viaggiare, incontrarsi e “contaminarsi” ha inciso in qualche modo sullo sviluppo della tua creatività?

– Fortunatamente no. E cosa ancor più importante non ho avuto stimolo di scrivere di questo momento. Quello che sta accadendo all’umanità non mi ispira canzoni. Toglie il fiato, spaventa e trasforma come una tempesta tutto quanto, ma non ispira. Non me, per lo meno.


– L’esperienza della pandemia ha inciso fortissimamente sul lavoro degli artisti e di tutti i professionisti del settore musicale e teatrale, impedendo loro di svolgere il proprio lavoro e lasciandoli, spesso, in una condizione di abbandono. Si è cercato di porre rimedio tramite piccoli concerti in streaming, per spettatori presenti ma fisicamente molto lontani. Posta l’insostituibilità
à del live in presenza del pubblico, a tuo parere, può questo tentativo a distanza aver arricchito gli artisti, fornendo loro nuovi strumenti per affrontare i live che verranno?

– Ho sentito tanta solitudine e tanto malessere in molti colleghi, sconforto, frustrazione. E quasi tutti abbiamo trovato modo per stare in piedi senza lasciarci trascinare via. Credo che la musica si faccia solo dal vivo. Che tutto il resto sia altro. Non si può fare finta di fare un concerto, è solo umiliante per tutti.

– Nell’ultimo anno molto artisti si sono spesi pubblicamente per promuovere comportamenti congrui alle misure di contenimento del virus. Pensi che gli artisti debbano adottare un atteggiamento di responsabilità nei confronti del pubblico anche a prescindere da eventi straordinari come questo? Che possa o debba essere loro riconosciuta una sorta di responsabilità educativa nei confronti del loro pubblico?

-Penso che nessuno debba esprimersi se non sa di cosa sta parlando nello specifico, quindi credo che il silenzio sia la cosa migliore che si possa fare. Almeno che non si sappia davvero qualcosa sull’argomento. E questo non è il mondo in cui viviamo. In generale un artista non dovrebbe andare altrove, ma limitarsi a fare il suo lavoro.

Perché è proprio attraverso le opere di grandi artisti possiamo ricevere tutto l’insegnamento di cui abbiamo bisogno, senza che didascalicamente esista una canzone o un opera che dica di mettere la mascherina.

– In una tua canzone, cantata con Niccolò Fabi, c’è un verso bellissimo che dice ritrovarsi allo specchio e fare pace è la più grande forma d’arte (Farsi male). Pensi che questi mesi trascorsi in una dimensione forzatamente domestica, necessariamente a stretto contatto con noi stessi, possano essere stati utili a realizzare questa forma d’arte così complessa e delicata?

-Lo spero per tutti. In realtà a giudicare da quello che sento sembra più che molti avrebbero tanto desiderato accadesse, come se questo tempo dovesse per forze restituire qualcosa visto che sta togliendo. Ma non credo sia così automatico. A me la gente sembra peggio di prima.

Sporca il doppio, è più infelice. Così rischiamo di diventare soli e cattivi tutti quanti.

– Il tema di questo numero della nostra rivista è il revivre, il tornare alla vita dopo un momento di forte difficoltà. Cos’è oggi per te, per l’artista che sei, il revivre?

– Tornare sul palco, tornare a vedere il mondo della musica e dell’arte respirare a pieni polmoni. Almeno questo. Visto che tanto le utopie non solo rimangono tali, ma stanno diventando leggende. Fra mille anni studieranno quanto abbiamo fatto male a questo posto che ci ospita e ci diranno che eravamo miseri. Che siamo stati il medioevo peggiore che si potesse pensare.

Magari diranno che però la nostra musica era buona. Perché chi scrive tutta questa merda la vede, e la mette nelle canzoni.

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