EXAGERE RIVISTA - Gennaio-Febbraio 2024, n. 1-2 anno IX - ISSN 2531-7334

La natura dell’artificiale. A colloquio con Adriano Fabris sull’etica della responsabilità.

di Luigi Serrapica

 

Può un evento pubblico, che nasce dal contatto diretto fra le persone, rispettare la propria natura sociale anche se si tiene in modalità streaming, con i partecipanti collegati a distanza? Il tempo della pandemia  ha rivoluzionato – fra gli altri aspetti – il nostro modo di fruire di eventi tradizionalmente vissuti in presenza.

Anche il festival Sophia di Pietrasanta, giunto alla sua quinta edizione, quest’anno si è tenuto sul web. Partiamo proprio dal titolo del festival, Secondo natura, per iniziare una riflessione sulla natura dell’artificiale con Adriano Fabris, docente di Filosofia morale presso l’Università di Pisa ed esperto di Etica della comunicazione.  Per Fabris  concetto di responsabilità tenta di risolvere l’ambiguità tra natura ed artificio. L’artificiale è  su un gradino diverso rispetto al naturale, ovvero rispetto all’uomo, in quanto questi è soggetto morale[1].   Dall’implicazione etica di questa dicotomia abbiamo posto alcune domande al professor Fabris.

– Professore, cominciamo dal concetto di responsabilità. Sembra essere attuale l’esperimento mentale di Philippa Ruth Foot conosciuto come “Problema del carrello ferroviario”[2] secondo cui un tram impossibilitato a frenare si dirige verso cinque persone sulle rotaie impossibilitate a loro volta a muoversi. Una persona è nei pressi di un comando che permetterebbe di deviare il tram, facendolo finire su una rotaia diversa dove a essere bloccata è una sola persona. L’alternativa sarebbe quella di ‘sacrificare’ la vita di un essere umano per salvarne cinque. È questo quello che verrà richiesto alle automobili a guida autonoma del futuro? E l’eventuale morte di un passante dovuto a una scelta del ‘male minore’ operata dall’automobile a chi sarà imputabile?

-Il riferimento all’esperimento del carrello presuppone il fatto che siano totalmente prevedibili sia l’agire dell’automobile a guida autonoma, sia il set di opzioni che nel suo ambiente essa si troverà ad affrontare. Presuppone, in altre parole, che l’automobile potrà affrontare un numero limitato di situazioni e che dunque fra queste situazioni sarà in grado di fare una scelta in base a criteri da determinare preventivamente. Questo presupposto è sbagliato. Gli scenari che un’auto a guida autonoma potrà avere di fronte sono imprevedibili, e lo sono ancora di più in quanto i soggetti agenti con cui essa potrà avere a che fare sono a loro volta imprevedibili nelle loro attività e nelle loro reazioni. Gli esseri umani sono addestrati a governare quest’imprevedibilità, e lo fanno in maniera spesso creativa, cioè non preventivabile, sebbene con riferimento, pur sempre, a criteri morali. Le macchine, invece, devono essere programmate a farlo. Ma ciò può funzionare solo in un mondo in cui tutto è già programmato.

-L’esperimento mentale, insomma, non tiene conto del fattore umano che rimane imprevedibile.

-Le traiettorie dei treni (o dei carrelli) che vanno su rotaie possono essere calcolate in anticipo, conoscendo una serie di parametri. Non certo possono esserlo quelle delle automobili che si muovono in un dedalo di strade, che incrociano altre auto o a guida autonoma o guidate da persone le quali, a seconda dell’età o della cultura, possono avere reazioni diverse. C’è dunque una netta differenza fra la responsabilità dell’essere umano, che riguarda processi che non sono tutti prevedibili, e quella delle macchine, che attiene a procedure solo prevedibili. Per questo motivo la filosofia ha elaborato, accanto all’etica delle conseguenze, un’etica dell’intenzione.

-Spostiamoci su un altro piano, quello della comunicazione. Si parla di differenza fra comunicazione online e comunicazione offline come di due modelli paradigmatici, l’uno della relazione ‘artificiale’, il secondo della relazione ‘naturale’. Ma nell’offline troviamo media come la radio o la televisione che sono tutt’altro che ‘naturali’ e, del resto, la stessa tecnologia ha ormai pervaso anche questi due media. Perché sembriamo più propensi a criticare l’uso delle moderne ICT rispetto a mezzi come la radio e la televisione?

-In realtà la comunicazione umana – quella cosiddetta ‘naturale’ – ha sempre avuto a che fare con comportamenti e strumenti che la potessero potenziare. Pensiamo al fatto di mettere le mani a imbuto quando chiamiamo qualcuno, e poi al megafono e al telefono. Da questo punto di vista, mezzi di comunicazione come la radio e la televisione non fanno altro che portare avanti questo processo. La novità, per quanto riguarda le ICT, è che esse non solo funzionano trasmettendo dati (come fa anche una televisione digitale), non solo aprono ambienti in cui possiamo muoverci (ma in parte, anche se in una maniera meno immersiva, lo faceva anche un buon libro e lo fa, di nuovo, la televisione), ma soprattutto comunicano a loro volta e, in questo comunicare, si adattano alle nostre esigenze. Di più, in qualche modo ci rispondono a tono. Pensiamo ai vari assistenti vocali. Questa capacità d’interazione, appunto, è una novità. E dunque non si tratta tanto di criticare, quanto di comprendere fino in fondo questa situazione e comportarci rispetto a essa in maniera adeguata.

-Nella conferenza tenuta durante il festival Sophia, lei ha sostenuto che la comunicazione ai nostri tempi non è solo scambio interpersonale di informazioni, ma è anche e soprattutto ‘ambiente’ che viviamo, ambiente artificiale ovviamente. La moderazione nell’abitare questo ambiente fatto di post, di chat, di like, di condivisioni e di storytelling da social network può essere – realisticamente – una risposta eticamente soddisfacente?

-Appunto nel momento in cui le relazioni comunicative vengono a formare un ambiente, noi ci troviamo a vivere contemporaneamente sia nel contesto offline (in cui siamo con il nostro corpo), sia nelle dimensioni online a cui danno accesso i vari dispositivi che comunemente utilizziamo (pensiamo per esempio allo smartphone). Il problema di fondo è di non confondere online e offline, ma di metterli in corretta relazione fra loro, a cui si somma quello di muoverci fra i vari ambienti online a cui abbiamo accesso, disponendoli nella giusta gerarchia. La questione, infine, è quella di operare bene all’interno dell’ambiente in cui ci troviamo a vivere, online o offline che sia.

-Agire correttamente, insomma appellarsi a un’etica.

-Sì, si tratta in tutti questi casi di questioni di carattere etico, che richiedono di essere governate facendo riferimento a criteri condivisi e giustificati.  Di solito, però, l’ambiente online – per il fatto di essere strutturato attraverso determinate piattaforme, all’interno delle quali possiamo esprimerci per lo più dicendo solo che qualcosa ci piace o non ci piace, senza vie di mezzo e senza la possibilità di argomentare – è un ambiente che spinge a estremizzare le rispettive posizioni. Ecco perché, in esso, resta poco spazio per la moderazione e l’equilibrio: anche se di essi, nel nostro tempo, ci sarebbe davvero bisogno.

-Parlando di natura versus artificiale, la ‘natura’ della scuola, ai tempi del Covid-19, sembra essere mutata se non addirittura violata. La tanto discussa Didattica a distanza è contro natura per gli studenti? Detto diversamente, cosa toglie lo streaming all’esperienza ‘naturale’ della scuola in presenza e, eventualmente, cosa vi aggiunge? Possiamo considerare l’esperienza della DAD una risposta emergenziale a uno stato eccezionale da archiviare quanto prima o una opportunità di crescita anche per il corpo docente?

-Non parlerei, in questo caso, di ‘contro natura’. È un dato di fatto, però, che la trasmissione delle conoscenze e delle competenze, se viene intesa in tutte le sue sfaccettature, comporta aspetti che possono essere pienamente realizzati solo mediante relazioni in presenza. Non solo perché, in questo caso, è in gioco la mimica del corpo, non solo perché l’attenzione e il coinvolgimento sono maggiori, ma perché la complessità delle interazioni umane, quali quelle messe in gioco nei processi di apprendimento, non può essere ridotta a un’immagine sullo schermo. È evidente che, dopo un investimento iniziale, la DAD nel medio e lungo periodo fa risparmiare sui costi della scuola, e che costringe il corpo docente a un opportuno aggiornamento. Tuttavia non sono motivi sufficienti per lasciarsi alle spalle esperienze di didattica più tradizionali. Non dimentichiamoci che è sempre meglio aggiungere opportunità, invece che sostituirne una con un’altra.

 

[1] Fabris A., RelAzione. Una filosofia performative, Morcelliana, Brescia, 2016.

[2] Sulla questione, si veda P.R. Foot, The Problem of Abortion and the Doctrine of the Double Effect, Oxford Review, n°5, 1967, disponibile al sito http://pitt.edu/~mthompso/readings/foot.pdf.

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