EXAGERE RIVISTA - Luglio - Agosto - Settembre 2024, n. 7-8-9 anno IX - ISSN 2531-7334

La parola: chiave di lettura per noi stessi. Intervista a Vera Gheno

di Federica Biolzi

Le parole sono ciò che ci rende umani, sono l’essenza del nostro essere. Non si può che restare affascinati dall’introduzione a questo volume. In primo luogo perché ci tranquillizza, tende a colmare quell’aspetto conflittuale con le parole che utilizziamo, che siamo capaci di utilizzare, e che si pongono, a volte come estranee alla nostra esistenza. Ma, in fondo, come è ben ricordato, siamo esseri narranti e narrati.

– Partendo dalla sua infanzia lei ci narra di un suo percorso che partendo proprio dalle parole è diventato uno stimolo, una sfida, ma soprattutto una cura.  Come le parole ci possono aiutare?

-A mio avviso, le parole ci possono aiutare in primis a comprendere meglio chi siamo, chi pensiamo di essere, chi vogliamo essere (questo lo diceva il sociolinguista Giorgio Cardona); la mancanza di parole per definire ciò che si è e ciò che si prova porta spesso a manifestazioni aggressive, a insicurezza, a paura. Quindi, il primo ruolo della parola è quello di fornirci delle chiavi di lettura per noi stessi.

Ci pensiamo raramente, ma la nostra vita, nei suoi momenti topici, è intessuta di parole. Nasciamo, e uno dei primi atti che ci toccano è che ci viene dato un nome; questa operazione sancisce il nostro ingresso nella società umana. Nome e cognome: identità e provenienza. Moriamo, e qualcuno investito del potere di farlo deve dichiarare il nostro decesso: finché questo non avviene, non siamo “completamente morti”, per quanto questo possa sembrare strano. La nostra vita è scandita dalle parole: il professore dichiara che abbiamo preso un certo voto all’esame; la commissione di laurea ci dichiara dottori o dottoresse in…; prima di qualsiasi documento, una coppia si forma quando si verbalizza il fatto di “stare insieme”;  il prete o il sindaco o un’altra persona investita del potere di farlo ci dichiara marito e moglie; il giudice ci condanna o ci proscioglie; il parroco ci benedice; e così via, in una serie infinita di atti che sono prima di tutto linguistici. La nostra vita è lastricata di momenti linguistici.

Poi, come già si evince dalle varie scenette di vita vissuta citate poc’anzi, le parole ci fanno entrare in connessione con le persone attorno a noi, creando reti di relazioni, che sono la dimensione nella quale l’essere umano si manifesta nella sua forma più completa. Abbiamo bisogno degli altri per esprimere tutta la nostra umanità. Tullio De Mauro ricorda che senza la capacità del linguaggio non esisterebbe proprio la società umana, che de facto si basa sulle parole. Potremmo essere branco, stormo, gregge, ma non pólis.

Questo, peraltro, spiega perché sia così importante non solo nominare sé stessi, ma anche imparare a nominare correttamente gli altri: in una società basata sulla parola, chi è privo di un nome non dico che non esista, ma sicuramente “esiste meno”, è meno visibile; a livello linguistico e sociale. Il che, secondo me, aiuta a comprendere le rivendicazioni linguistiche delle minoranze a oggi marginalizzate, la richiesta di venire chiamate in un certo modo e non in un altro. Non sono sofismi, non sono esercizi di formalismo, e non sono nemmeno “eccessi di politicamente corretto” (un giudizio che ribadisce l’esistenza di un punto di vista che è ritenuto più giusto degli altri, che è quello dei “normali”): le rivendicazioni linguistiche, la richiesta di precise etichette autodeterminate (e non decise da altri, di norma proprio dai sedicenti “normali”) è direttamente connessa alla centralità della parola nelle faccende umane.

C’è chi vive tutto questo con disinteresse, quando non con aperta ostilità. Guarda caso, molto spesso si tratta di persone che hanno sempre potuto abitare comodamente la propria lingua, che non hanno mai dovuto subire nomi imposti da altri.

Per esempio, i ciechi di norma preferiscono di gran lunga essere chiamati ciechi, e non non-vedenti: a chi piacerebbe, del resto, essere definito tramite l’assenza di una determinata caratteristica? Non-vedente è la classica etichetta decisa dai vedenti e da loro imposta, in un impeto di pudore, di terrore semantico, mi vien da dire, ai ciechi, senza avere chiesto loro un parere in merito.

Una delle tipiche accuse che vengono fatte a chi si batte per etichette più eque, e soprattutto per il diritto a venire chiamati come si desidera, è che “ormai non si può più dire niente”. La controdomanda interessante, rispetto al ricorso al tema della cancel culture, è: quale sarebbe la cultura che finirebbe cancellata, se non quella che fino a oggi non si è fatta problemi a cancellare tutte le altre? Il mio invito, comunque, non è a smettere di usare determinate parole, ma a fermarsi un attimo di più a chiedersi cosa provocano le nostre parole sulle altre persone. Impariamo a relativizzare il punto di vista.

In terzo luogo, le parole ci servono per nominare il mondo: ci sono d’ausilio a rendere conosciuto lo sconosciuto. Quando, infatti, nominiamo correttamente le cose, le persone, le sensazioni, tutto quello che ci accade, rendiamo le cose, tutte le cose, raccontabili. Narrare è il modo attraverso il quale conosciamo. Adesso si parla di “storytelling”, ma in realtà sempre della stessa cosa si tratta: raccontare il mondo è il tramite per conoscerlo, comprenderlo e al contempo perpetuare il sapere, trasmettercelo. Le parole rendono il sapere trasmissibile, trasportabile. E sono essenziali per ogni tipo di conoscenza. Ogni tanto, sento persone degli ambiti STEM che mi dicono “altro che parole, quello che conta davvero sono i dati”. La mia risposta è che senza le parole quei dati rimarrebbero esangui, non “direbbero” nulla. Perfino il matematico più puro ha bisogno delle parole per spiegare le sue formule, altrimenti col cavolo che le altre persone capiranno cosa voglia dire.

Il significato che cerco di dare alla mia riflessione è che in una società che è definita “della comunicazione” è perlomeno peculiare che non si comprenda l’importanza, da parte del singolo, di affinare le proprie competenze comunicative. In questo senso, il sottotitolo del libro, “L’arte di usare le parole”, non va letto in senso strettamente artistico, ma in quello più ampio, di ‘attività umana regolata da accorgimenti tecnici e fondata sullo studio e sull’esperienza’ (Zingarelli 2023).

– Le parole, lei scrive, sono il nostro modo di concettualizzare la realtà. Al riguardo, lei ci indica anche un metodo per affrontare questa realtà: quello dello DRS, dubbio-riflessione-silenzio. In questo contesto, il dubbio si libera dai suoi sentori negativi e diventa, anzi, un termine essenziale. In proposito ci dice che un primo passo per combattere la stupidità e di renderci conto che in ognuno di noi alberga un possibile idiota. Perché?

Penso di non avere detto nulla di particolarmente inedito: l’assunto socratico del sapere di non sapere è, alla fine, ancora alla base di tutto. Chi pensa di sapere ogni cosa non crea lo spazio mentale per accogliere altra conoscenza. Dubitare di ciò che si sa pone le condizioni per apprendere dell’altro; viceversa, chi non ha dubbi rispetto alle proprie conoscenze e competenze tenderà per forza a dubitare di quelle altrui (un po’ quello che succede con i complottismi, o che accade a me con la gente che mi insegna l’italiano, anzi, mi imbàra l’itagliano perché ha un vago ricordo di qualcosa che gli ha spiegato la maestra delle elementari svariati decenni prima). Forse, dubitare serve anche per dare un minimo di credito all’autorevolezza altrui, quando la si incontra (magari senza crederci ciecamente, eh: non mi piace nemmeno l’accettazione pedissequa della presunta auctoritas).

Tra l’altro, avere studiato non pone al riparo dalla tentazione di pensare di conoscere tutto quello che serve; spesso, per quel che vedo, accade che le persone colte vengano portate a pensare che in un certo campo non ci sia null’altro da sapere rispetto a quello che già sanno loro. Insomma, il dubbio va esercitato perennemente, e non si arriva mai a una fase plateau in cui si può dire di non avere bisogno di ulteriore conoscenza. Come ricorda efficacemente un grafico a torta che vedo spesso girare in rete, oltre a ciò che si sa di non sapere c’è l’immenso campo inesplorato di ciò che nemmeno si sa di non sapere.

– Viviamo in un sistema, mi riferisco soprattutto a quello dei social, che ci costringe a tempi strettissimi, lasciando poco spazio alla possibilità di pensare, di riflettere. Come non farci contagiare da questa fretta?

-Sono dell’idea che un po’ ce li creiamo, i tempi stretti; più che essere un dato oggettivo e incontrovertibile (“il tempo è poco”), siamo noi che veniamo portati a pensare che lo sia. Come diceva Luciano De Crescenzo, invece che allungare la vita, dovremmo cercare di allargarla, e secondo me abbiamo molti modi per farlo. Nel libro suggerisco di pensare al minuto più lungo delle nostre vite tutte le volte che veniamo travolti dalla sensazione che non ci sia tempo; almeno a me, personalmente, serve moltissimo per crearmi una bolla in cui riesco a dilatare un minimo i minuti e, di conseguenza, a farmeli bastare.

– Un noto brocardo latino recita qui tacet neque negat, neque utique fatetur, in sostanza chi tace non dice nulla. Ma conosciamo anche il detto del chi tace acconsente, o la validità del silenzio-assenso in campo giuridico. Lei ci ricorda che il silenzio non è assenza di comunicazione, non è un vuoto. Cosa è allora? e perché appare così essenziale nella sua preziosa analisi?

-Il metodo DRS è circolare: il dubbio crea lo spazio per la riflessione e per l’eventuale – intelligente – scelta del silenzio, valida alternativa quando non si ha una competenza specifica sull’argomento trattato; ma il silenzio, a sua volta, è imprescindibile per garantire la possibilità di attivare il dubbio fecondo. Viviamo in una società che sembra avere una specie di horror vacui sonoro: c’è musica ovunque, a volte sembra che le persone facciano a gara per far rumore e riempire ogni possibile momento di suoni. L’altra sera ero a una performance teatrale che conteneva lunghe sequenze di silenzio tombale e sentivo fisicamente il disagio di molte persone attorno a me nel sopportarlo, nel sostenerlo. Gente che si muoveva sulle sedie, colpetti di tosse, altri che scartavano caramelle. Una specie di istintivo ritrarsi dal silenzio stesso. Forse il silenzio fa paura proprio perché crea l’ambiente per pensare, forse a molte persone… pesa pensare?  


Vera Gheno

Le ragioni del dubbio. L’arte di usare le parole 

Einaudi, 2021

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